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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

venerdì 19 dicembre 2008

Shoah: contesto ed orrore


Non mi sento di escludere che Gian Franco Fini abbia cercato un tornaconto politico: in fondo richiamare le responsabilità diffuse, complesse ed innegabili (anche e sicuramente, ma non prioritarie, della Chiesa) nelle tristissime vicende delle persecuzioni contro gli Ebrei, può servire per consolidare una patente di conversione democratica, a fronte di una storia personale, almeno sullo specifico, non precisamente coerente. Nel contempo non si può negare ciò che afferma l’organo ufficiale della S. Sede, quando reagisce ricordando al presidente della Camera che l’iniziativa delle leggi razziali sta in capo alle scelte del fascismo e del suo duce, di quel fascismo in cui lo stesso Fini, ovviamente in anni successivi ed in contesti istituzionali diversi, è cresciuto sulla scena politica.
In tutto questo però si ripropone una polemica fatta di accuse e contro/accuse, di attacchi e di repliche “piccate” che raramente vanno al nocciolo della questione. Perché ancora una volta si potrebbe perdere un’ottima occasione per affrontare il problema col presupposto di almeno di tre chiavi di lettura di cui oggi si potrebbe o si dovrebbe tener conto: la contestualizzazione della vicenda, la sua dimensione straordinaria, il tentativo o meglio il pericolo di rimozione che le accuse improvvisate e polemiche finiscono per indurre e supportare.
La contestualizzazione. La storia dell’antigiudaismo e della conseguente intolleranza nei confronti delle comunità ebraiche si dipana, con diversa intensità, attraverso i secoli della storia cristiana, accompagnata dagli eventi di scontro e di frattura e di violenza che l’intolleranza religiosa in generale ha prodotto. Resta però, per quanto attiene l’antigiudaismo, una specificità che mi permetto di ridurre schematicamente: proprio mentre nel passaggio della modernità, alle soglie della storia contemporanea, le culture prevalenti aprirono il discorso della tolleranza nel fatto religioso, nei confronti del popolo ebraico e delle sue comunità, gli atteggiamenti non cambiarono. In questo contesto la convergenza dell’antigiudaismo cristiano e di quello delle culture dell’occidente rimase un dato di constatazione: gli Ebrei o perché considerati eredi di un popolo deicida, o perché ritenuti pericolosi per i possibili sovvertimenti indotti dal loro enorme potere economico, o perché temuti per la loro cristallizzazione ideologica, andavano combattuti ed emarginati. In sostanza bisognava renderli innocui.
In questa dinamica antiebraica mancava, in ogni caso, se non marginalmente, l’elemento dirompente che sarà introdotto, dopo le esperienze del positivismo dalle proposte della razza e del sangue e che sarà istituzionalmente realizzato dal totalitarismo di Stato: una realizzazione che sulla base appunto della lotta razziale puntava non all’emarginazione, ma all’eliminazione del popolo ebraico. Sono cose ben note, ma vorrei richiamare che il programma razziale di eliminazione cade in un terreno sicuramente fertile, e tuttavia non assimilabile all’antisemitismo fondato sulla razza, ovviamente ritenuta inferiore: l’antigiudaismo, appunto. Ora successe che i protagonisti responsabili dell’antigiudaismo, almeno in generale, non si siano accorti per tempo che l’elemento razzista non si fermava ad una difesa dallo strapotere ebraico, ma puntava ad una sua eliminazione: all’eliminazione della razza inferiore. Tra i suddetti protagonisti vanno citati anche i popoli cristiani che (lo ha affermato sullo scorcio del secolo ventesimo Giovanni Paolo II) non si sono opposti adeguatamente allo sterminio del popolo ebraico; e tra le istituzioni si annovera anche la Chiesa (o piuttosto le Chiese), che non fu mai razzista e combatté il razzismo con documenti ufficiali, ma non mancò di portare elementi importanti all’antigiudaismo, assieme però alle fondamentali culture dell’occidente. Ed anche la Chiesa non si accorse per tempo che, nella formazione del totalitarismo di Stato, la tradizione antigiudaica aveva prodotto un terreno fertilissimo all’antisemitismo fondato sulla lotta razziale. In sostanza l’antigiudaismo non era razzista, ma favoriva il razzismo.
Per la verità, anche se con qualche ritardo, se ne accorse Pio XI, tanto che fece scrivere e tentò di far pubblicare un’enciclica, la “Humani generis unitas” sull’antisemitismo fondato su concezioni razziste inaccettabili e da condannare come responsabili della frattura nell’unità del genere umano. L’enciclica però non fu mai promulgata, per resistenze anche interne alla Chiesa e per la sopravvenuta morte del Papa nel febbraio del 1939; segno; anche questo delle difficoltà a comprendere l’entità del fenomeno razziale, nella lotta agli Ebrei soprattutto, anche se non esclusivamente.
Per un giudizio adeguato bisognerebbe, appunto tener conto di questa complessità cui appena ho potuto fare cenno: contestualizzare, appunto.
Contestualizzare, però non significa giustificare. Si possono ricercare e valutare le ragioni, le strutture, le tradizioni culturali di lungo periodo che hanno indotto una mentalità di riserva, di opposizione e di malanimo nei confronti degli Ebrei, ma ciò non significa giustificare la incapacità di comprendere ciò che stava preparando il salto negativo e radicale tra l’antigiudaismo e l’antisemitismo e non aver intuito per tempo che il primo poteva aiutare il secondo ad avviare un programma di eliminazione di un popolo. Dall’intolleranza si passava alla distruzione e non si trovano, sulla strada di questo passaggio, voci rilevanti di dissenso e neppure di lucidità. Gli spiriti illuminati che capirono furono pochi, inascoltati ed anche la loro voce non poté anticipare i tempi più di tanto: e si potrebbe presumere che (qui l’opinione è assolutamente personale), anche se ascoltati, non necessariamente avrebbero potuto sortire effetti significativamente positivi, anche in considerazione della tempestività con cui il nazismo arrivò al programma razziale.
Sappiamo quali furono gli effetti di fatto: la distruzione di intere comunità; comprese alcune, a noi molto care e vicine, come quella alessandrina ridotta a poche unità di persone, a cui, legati da amicizia, anche personale, esprimiamo (oggi potrebbe essere ritenuto facile!) una umanissima solidarietà.
Resta confermata, la solidarietà dimostrata da parecchie comunità cattoliche e dalla stessa Chiesa istituzione, quando ormai il programma di eliminazione era in corso; solidarietà che si espresse negli aiuti alle popolazione ebraiche ed alla loro protezione, anche nei luoghi di culto: Su questo piano il riconoscimento è ormai condiviso.
C’è un terzo elemento che richiamo brevemente: il pericolo della rimozione.
Cominciamo intanto col dire che il fenomeno va visto nella sua consistenza e nella sua dinamica ideologica, salvo pericoli di ricadute.
La prima scelta sta nel chiamare le cose col loro nome: l’eliminazione degli Ebrei, voluta dal nazismo è una “Shoah”, una distruzione radicale di un’etnia e non un olocausto, nonostante le motivazioni che hanno introdotto quest’ultimo termine, che adombra un significato di valenza sacrificale e religiosa. La “Shoah” è senza senso, è l’orrore dell’inutile eliminazione è la caduta i cui responsabili non possono trovare nessuna spiegazione, se non la loro abiezione morale. Qualcuno potrebbe dire che le espressioni non contano, contano i fatti che hanno provocato sei milioni di morti probabili tra gli Ebrei. Personalmente dissento da questa opinione: anche le parole hanno una loro forza ed un loro risultato di valore; non sarebbe inutile tenerne conto, anche nelle attività scolastiche.
Seconda scelta. Trattare problemi come questo, con attenzione ai fatti ed ai fenomeni ed alla loro complessità; il richiamo celebrativo non può essere rimosso, ma affidi la complessità della valutazione alle sedi della ricerca. Altrimenti provoca la risposta polemica che finisce sempre di trovare ascolto, almeno per gli interessi di parte.
La terza scelta riguarda la scuola. C’è un’urgenza che mi è capitato di richiamare in altre sedi: che su tutte le questioni, ed anche su questa, i risultati della ricerca arrivino puntualmente alla didattica. L’alternativa cade nella trattazione di qualsiasi argomento e dunque anche di questo, in una prospettiva obsoleta, manualistica e debolissima nei confronti della propaganda e sempre esposta al pericolo della rimozione delle questioni e dei problemi reali.
Agostino Pietrasanta

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