____________________________________________________________________

____________________________________________________________________
"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

lunedì 29 settembre 2008

Ciau Sciortino

Riprendo da http://www.cittafutura.al.it/. Condivido... e solidarizzo!

Un po’ per prenderla dolce, un po’ per esorcizzare l’ipotesi sottesa, inizio a salutare il direttore di “Famiglia Cristiana” con la parafrasi di un titolo pavesiano (Ciau Masino) che nell’anno centenario non guasta. Lo saluto preventivamente perché temo che a breve – come a suo tempo con don Zega – don Antonio Sciortino salterà e la corazzata dei Paolini cambierà, più o meno bruscamente, capitano. È ovvio che spero toto corde di sbagliarmi, ma dopo le sortite dei giorni scorsi ho l’impressione che il dossier a carico, radunato dai teo-con in genere, e daiberluscattolici in particolare, abbia raggiunto e superato i limiti di sicurezza/tollerabilità che sono notoriamente piuttosto ristretti.
Non solo don Sciortino non se ne è stato, non ha tratto insegnamenti di cautela dal putiferio scatenatosi, sulla sua testa e sul settimanale, con l’articolo di mezz’agosto di Beppe Del Colle, ma ha raddoppiato la provocazione con la contemporanea pubblicazione del “fondo” di Famiglia Cristiana del 28 settembre (“Declino e metamorfosi della nostra democrazia – Con l’abolizione delle preferenze, elettori defraudati di un diritto”) e di un articolo (“La fine della democrazia d’opinione”) nientemeno che su “Micromega” (5/08, testè in edicola), la sentina di tutti i diavoli relativisti, articolo ampiamente anticipato da “Repubblica”, quotidiano non molto meno sospetto.
Ecco un uomo, un prete di coraggio (leggere per credere!), un direttore di giornale cattolico divergente dal modello “tre scimmiette” discretamente in voga. Uno che non ha remore a denunciare, con accorata lucidità, l’ipoteca,democraticamente antidemocratica, di un incipiente “regime”, laddove i conniventi minimizzano indefessamente e larghe schiere di “oppositori” hanno deciso da tempo che evocare “regimi” non è elegante e comunque non porta bene.
A temperare la previsione di un prossimo amoveatur come segno di mera sconfitta, resta l’ipotesi che la vicenda di don Sciortino, nel più ampio contesto di Famiglia Cristiana, segnali altresì, comunque finisca, l’aprirsi, non più misconoscibile, di una faglia nella superficie apparentemente compatta nel cattolicesimo italiano al cospetto della politica e del costume nazionali. Nel senso che i valori fondanti della democrazia possano pur essi ascendere, con un seguito confortante, al piano alto dei “principi non negoziabili”.
Dario Fornaro

martedì 23 settembre 2008

Il Paese dei «negrazzi»

Riprendo da "l'Unità" del 23 settembre 2008 la seguente "meditazione"...

Gli scarti umani mitragliati a Castel Volturno; Abdul ucciso con i biscotti nella mano sinistra a Milano, che se avesse mangiato con la destra l’avrebbero lasciato in pace. Chi sono «questi negrazzi di merda»?
Questi negrazzi erano su quel barcone. Ne partirono 100 dalla Libia con un sogno: l’Italia. Il viaggio doveva durare poche ore ma il motore si inceppò e allora ne passarono 17 di giorni.
La guardia costiera portò quel barcone davanti alla capitaneria di porto di Lampedusa. I clandestini rimasti vivi erano sette, i morti 93. Una diecina di corpi senza vita erano ancora là sul barcone, Abdul disse che li avevano usati per riempire il fondo dello scafo pieno d’acqua così la notte si stendevano sui morti, all’asciutto.
Il barcone fu lasciato a due passi dal ristorante «Il saraceno», dove i sette negrazzi videro la proprietaria del ristorante, vestita di verde, che urlava: «A casa vostra dovete andare». Angela Maraventano, raccoglieva firme per portare Lampedusa nella provincia di Bergamo. Oggi è senatrice per la Lega Nord. Dopo mesi di torture nei Cpt, i negrazzi si sparpagliarono per l’Italia. Abdul era stato rinchiuso nel Cpt di Modena dove per ogni clandestino lo Stato spende circa 100 euro al giorno, manco fosse un tre stelle e poi ne tengono dieci in ogni stanza. È caro come hotel ma il presidente è il fratello dell’ex ministro Giovanardi. Gli altri sei ragazzi furono rinchiusi nel Cpt Regina Pacis di San Foca vicino a Lecce dove don Cesare Lo Deserto gli dava calci e pugni e li costringeva a mangiare carne di maiale solo perché erano musulmani.
I sei scarti umani scappati dalle grinfie del prete se ne andarono a Castel Volturno. Assoldati da caporali del clan dei Casalesi cominciarono a raccogliere pomodori a due euro all’ora abitando in casoppole senza luce e senza bagno. Dopo qualche anno cominciarono a lavorare nell’edilizia, sempre per il clan. Partenza all’alba, ritorno a notte fonda. Guadagno: venti euro al giorno. Ma le cose che più disgustavano i sei negrazzi erano due, la prima, che dovevano costruire delle case abusive, sul lungo mare, orrende: colonne doriche in cucina, vasche da bagno nelle camere da letto... Ai sei quelle costruzioni non gli andavano proprio giù. Erano negrazzi d’accordo, ma i loro nonni avevano scolpito le maschere africane che facevano impazzire Picasso, e che una mattina, rivoluzionò la pittura proprio grazie a quelle maschere. La seconda cosa che dava fastidio ai sei era che il capo cantiere li chiamava sempre «negrazzi di merda». Uno di loro, Alaji, il ghanese, ci piangeva. Gli altri cinque ci ridevano sopra. Erano più mortificati dalle case di merda che dovevano costruire. Nessuno dei sei si era mai drogato, mai spacciato, solo uno, Samuel, qualche volta si era fatto una canna con Peppe Letizia detto ò stuort.
All’epoca delle canne, Peppe ò stuort, nel clan dei Casalesi contava poco. I capi erano Sandokan, Cicciotto Mezzanotte e altri, poi però le cose cambiano, arrivano i nuovi e allora oggi Peppe ò stuort conta parecchio, è uno dei capi e non si farebbe più una canna con Samuel ma se la farebbe magari con il sottosegretario Cosentino. Insomma i sei negrazzi hanno fatto per anni i manovali in cambio di niente, assoldati da costruttori affamati di soldi, appoggiati da politici affamati di potere, circondati da gente indifferente pronta ad emarginare i «negrazzi di merda». E come sa essere razzista un certo Sud dell’Italia lo si può sapere solo abitandoci. I sei, l’altra sera erano davanti ad una sartoria a Castel Volturno, gestita da sarti neri, dove si aggiustano vestiti per neri e dove, quando nonna Immacolata si va a riprendere il cappottino che fa rattoppare ogni anno, si pitta la faccia di nero con il sughero affumicato per non farsi riconoscere. Ed è proprio la signora Immacolata che ha capito perché sono stati uccisi i sei ragazzi e lo racconta al telefono a suo figlio: «E' quasi distrutto il clan dei Casalesi, ma lo Stato non è sceso, e mò la Campania è rimasta senza clan e senza Stato. E allora al nuovo clan, serve stabilire chi comanna, un’azione forte, sparare co le mitragliatrici come nei film, sparare per pubblicità e vedere assai sangue al telegiornale. E chi si spara? Si sparano scarti umani, indifesi, negrazzi di merda, ce ne sono 11mila irregolari qui». Il figlio malavitoso, dal tir che porta tonnellate di arsenico dal Nord su un terreno agricolo a due passi da Castel Volturno: «Mà, t’voglio bene, ma fatt’i cazzi tuoi». E getta il cellulare sul cruscotto che finisce dietro Padre Pio appiccicato al parabrezza.
Forse la senatrice aveva ragione, era meglio se tornavano al paese loro. Magari morivano solo di fame. Ma Abdul, il settimo negrazzo? Scappato dal Cpt prima andò a raccogliere mele nel Nord Est, poi arrivò a Milano dove è stato venditore di borsette, distributore di giornali, addetto alle pulizie in un albergo, sempre al nero. E proprio in questo albergo si era innamorato di una calabrese che rifaceva le camere, Maria, che va pazza per i biscotti "pan di stelle". L’altra settimana erano tutti e due al parco su una panchina quando un furgone carico di biscotti miracolosamente ha aperto le porte. Abdul si era alzato per Maria, era una sorpresa per lei che era rimasta ad aspettarlo sulla panchina. L’hanno ucciso con le spranghe i padroni dei biscotti al grido che si espande in tutt’Italia: «Negrazzo di merda».
Per molti Abdul è morto come un fesso per un pacco di biscotti. Per pochi altri Abdul è morto da eroe. Voleva i biscotti per Maria.
Ulderico Pesce

Siamo tornati al punto di partenza?

Cerco di contribuire con qualche riflessione all’interessante dibattito proposto.
Primo. Nel 1° numero della Rivista Appunti di cultura e di politica, nr. 1 (maggio 1978) Pietro Scoppola scriveva, riflettendo anche a seguito della tragedia di Moro: “ Appartengo a una generazione per la quale la parola Stato ha avuto via via, nel tempo, significati assai diversi e opposti....Lo Stato nuovo legato alla lotta antifascista si proclamava al servizio dell’uomo, limitato nei suoi poteri, fondato su un consenso liberamente espresso. Ma per i cattolici della mia generazione gli strumenti culturali per fondare sul piano dei valori lo Stato democratico non erano ancora del tutto chiari; non è stato facile capire che non esisteva uno "Stato cattolico" diverso dallo "Stato democratico"; che lo Stato cattolico era esistito storicamente ma non esisteva più ed era meglio, anche per la Chiesa, che non esistesse più, che lo Stato democratico era il "nostro Stato", di tutti noi, cattolici e non cattolici....Siamo forse tornati, in trent’anni, al punto di partenza?...La condizione per essere presenti nella costruzione del presente e del futuro è forse quella di buttar via tutto il bagaglio del trentennio, di ripartire da zero? ..non accettiamo l’idea che si riparta da zero. A noi questo Stato interessa molto, con la sua storia, con i suoi problemi...Dovremo studiare a fondo i motivi del riemergere di una disaffezione per lo Stato nell’area cattolica. A mio avviso le ragioni di oggi non sono sostanzialmente diverse da quelle che hanno determinato, in passato, la disaffezione cattolica per la democrazia, da quelle che hanno reso difficile per noi, da ragazzi, capire che lo Stato democratico era meglio dello Stato Cattolico”.
Oggi forse dovremmo sostituire al termine Stato il termine partito (o altro che indichi raggruppamento politico in base alla fede soltanto), per entrare definitivamente nel terzo tempo della Repubblica.
Secondo. Achille Ardigò nel libro “Toniolo: il primato della riforma sociale” del 1978 sintetizza in quattro posizioni (modelli) i modi con cui il mondo cattolico si è espresso nell’animazione dell’ordine temporale dal 1870 al Concilio Vaticano II. La prima posizione è quella del periodo di Leone XIII: si riconosce uno spazio di autonomia in politica ai laici credenti, ma per le questioni puramente tecniche; per tutte le altre scelte politiche il papato esprime scelte vincolanti (la Gerarchia propone una sorta di Partito Cristiano, senza autonomia, per ripristinare uno Stato cristiano ma popolare e democratico). La seconda posizione è quella del blocco cattolico (esempio il Patto Gentiloni o comunque l’unità politica per difendere l’ordine liberal-moderato). La terza posizione rappresenta, per Ardigò, un’innovazione e si esprime nell’esperienza del Partito Popolare di Sturzo (un partito laico, che non pretende la rappresentanza unitaria dei credenti pur dichiarandosi impegnati da un’ispirazione cristiana nell’azione politica. La quarta posizione infine “ha la sua più autorevole e duratura fattispecie storica con la Democrazia Cristiana...E’ la posizione di un partito che raccoglie la grande maggioranza dei cattolici del Paese” anche se aconfessionale, ma col sostegno della gerarchia e che fa blocco contro i regimi comunisti del dopoguerra. Aggiunge Ardigò che “siamo portati a concludere affrettatamente che la novità del post-concilio è nel fluttuare dalla quarta alla terza posizione. E cioè ..alla tesi del pluralismo nella partecipazione politica dei cattolici, salvi i princìpi.... Ma anche in rapporto alla terza posizione l’innovazione conciliare comporta elementi di discontinuità....Credo che il miglior modo di cogliere l’innovazione conciliare rispetto alla terza posizione sia richiamarci ai 4 punti che Mons. Franceschi ha tracciato al Convegno Ecclesiale su Evangelizzazione e Promozione Umana..:a)coerenza con la fede, b)rapporto con la comunità cristiana sia come punto di riferimento che di confronto, c) ricerca del bene comune, c)impegno per il superamento dello statu quo senza mai cristallizzare alcuna esperienza storica...E’ proprio dal far crescere la Comunità di Chiesa locale, attorno al Vescovo, come luogo di riferimento e di confronto anche per fini storici di bene comune, che può nascere il superamento della più che secolare separazione tra gerarchia e laici, e anche il crescere dello spazio ecclesiale proprio dei laici, spazio che deve essere tanto maggiormente richiesto ed esteso quanto maggiore sarà la dispersione di opzioni politiche dei laici credenti”.
Terzo. In questi trent’anni forse è mancato, sia alla gerarchia che ai laici impegnati, proprio questa capacità di fare della Comunità punto di riferimento e di confronto che rendesse “forte” l’azione politica dei credenti. Si è invece tagliato il legame verso (e da parte di) chi agiva sul piano politico e istituzionale, si è temuto di perdere riferimenti e garanzie legislative, si è sostituito il compito dei laici nelle scelte “temporali”, e nel contempo i laici hanno preferito rispondere a logiche di partito, di coalizione, di disciplina correntizia piuttosto che faticare nel confronto con la propria comunità.
Ora non so se la risposta può essere quanto propone Padre Sorge: “Un Movimento omogeneo di militanza civica che nasca dal territorio, coinvolgendo i mondi vitali della società. Un gruppo, aperto ai non credenti, che aggreghi attorno ai valori costituzionali della democrazia laica e della Dottrina Sociale della Chiesa”. Né so dire se e come la novità indicata dal Papa di formare una nuova generazione di politici cattolici dotati di rigore morale e competenza potrà avere attuazione, ma sembrano interessanti gli interrogativi che pone Angelo Bertani: Si è compreso che la presenza di laici cattolici in politica si è affievolita anche per l’invadenza del clero e della gerarchia? Si è consapevoli che per costruire una nuova generazione di politici cattolici capaci di cercare con competenza e con rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile servirà tempo, volontà di dialogo e spirito di ricerca? I laici cattolici che sono e saranno impegnati in politica avranno la libertà e il rispetto necessari a chi opera con personale coscienza e responsabilità? E’ ben chiaro che i cattolici in politica hanno per obiettivo il bene dei cittadini e non la presenza e l’incidenza delle istituzioni ecclesiastiche?”.
Resta il fatto che, se il pluralismo delle opzioni è un fatto positivo, siamo forse divisi in troppe sigle, esperienze, associazioni politico-culturali; abbiamo, come credenti, difficoltà a trovare un luogo e un momento in cui si possa insieme individuare alcune piste di lavoro e alcuni orientamenti utili al bene comune. E i Convegni Ecclesiali, per quanto importanti, non sono da usare a questi fini, proprio per non confondere i livelli e soprattutto per evitare di riproporre una Chiesa “soggetto politico” che si sostituisce all’impegno responsabile e personale dei laici. Bisogna saper trovare (insieme ad altri) la capacità di ricostruire una cultura politica che tenga anche conto di quei valori umani e costituzionali che sentiamo particolarmente vicini: la persona, le autonomie (locali, economiche, sociali), la società civile, la solidarietà, la pace, la difesa del creato, il pluralismo (delle istituzioni, delle rappresentanze); e di saperli sostenere e affermare in un sistema che è bipolare (anche se non bipartitico).
Carlo Baviera

Cattolici presenti o scomparsi, comuni o virtuosi, quasi tutti permalosi

Il rovello, che data da molti mesi, si concentra ora sulla provocatoria analisi del Prof. De Marco (in “www chiesa” di Sandro Magister/L’Espresso). Per quanto disagio o dissenso possa provocare ad una prima lettura, io direi: non lasciamoci sfuggire l’occasione per ragionarci su, anche allargando gli orizzonti a temi non strettamente etico-teologici (spesso in versione sacrestia: quelli che alimentano l’eterna competizione sul “vero cattolico”).
Ragionare sul contributo del De Mauro, consapevoli,ma non tramortiti, dell’evidente simpatia dell’autore-sociologo per i cd. “cattolici modali” (suppongo da “moda”, che in statistica segnala la modalità che, tra quelle con cui si è manifestato un fenomeno, si è presentata più frequentemente) e la simmetrica antipatia per gli intelligentoni/virtuosi, chissà perché collocati tutti, si lascia intendere, in una indistinta sinistra antigovernativa.
Il tutto per dire: lasciamo un momento da parte – o sviluppiamo su piani paralleli – il lancinante problema dell’emarginazione/autoemarginazione dei “cattolici democratici” (più o meno coincidenti con i cattolici virtuosi, ma per favore inventiamo un altro indicatore meno scivoloso) e chiediamoci, non sul versante ecclesiale, ma su quello politico-culturale, che cosa abbiamo prodotto, in termini di idee e proposte, dopo che l’affondamento della DC ha trascinato a fondo anche le onorate correnti di sinistra che già ospitavano generosamente i cattolici virtuosi, o democratici, o adulti, o progressisti, o che altro etichettando.
Per due o tre decenni post-bellici, queste correnti hanno perlustrato e praticato, dai posti di governo e paragoverno, la cd. terza via, tra capitalismo e socialismo, incarnata nelle Partecipazioni Statali e in un certo”statalismo buono”, bastione alle ondate di liberismo rampante e non privo di ascendenti, veri o supposti, nella dottrina sociale cristiana. Qualche nome: Mattei, Pastore, Marcora, Granelli, Pistelli, Donat-Cattin, Bodrato, un certo Fanfani e via elencando: che fossero nel giusto o meno, erano tra i protagonisti del loro tempo.
Franato e travolto tutto questo, per crepe interne e spinte internazionali, che cosa hanno prodotto/escogitato/focalizzato i cattolici democratici, politicamente inquadrati sul fronte o nelle retrovie? Poco; sarò disinformato o ingeneroso, ma a me viene in mente solo qualche buona battaglia (Bindi e C.) sulla sanità pubblica. Ammesso che ad un certo punto si sia innescato per “necessità storica” (o sia stato innescato con lungimiranti “progetti culturali”) un processo di marginalizzazione politica, quand’è che i cattolici democratici ne hanno avuto sentore e come hanno reagito? Per lo più litigandosi brandelli di legittimazione/approvazione delle gerarchie ecclesiastiche (che per lo più stavano al gioco) e portando spesso all’esterno, in politica, echi amplificati di tale competizione..
Sforzi per affrancarsi da questa “magnifica ossessione” e tentare di elaborare linee socio-politiche ed economiche sufficientemente autonome (o meglio: autonomamente maturate): pochi, saltuari, eroici talora, ma orfani di seguiti. Che la grande diaspora socialista (un’altra chiesa, cementata ideologicamente, ma vittima poi di ribaltoni epocali, interni ed esterni) abbia mostrato diversi caratteri o andamenti analoghi, ha un notevole valore storico-contestuale, ma non assolve il deficit, o il ritardo, di proposta dei cattolici democratici.
Di “via”, è rimasta sulla scena solo quella capitalistica, declinata in termini più o meno radicali, ma spesso ai limiti del “pensiero unico”. Con questa, una formazione (una nebulosa?) richiamantesi al cattolicesimo democratico, dovrebbe fare i conti, o tentare di farli, e non solo misurandosi quotidianamente con il nucleo altisonante, ma capzioso, dei “valori non negoziabili” (en passant: e tutti gli altri sono dunque pacificamente negoziabili?).
Come si misurano – con l’esigenza di prendere risolutamente il mare del pensiero e della politica alla ricerca del “bene comune” – i cattolici “virtuosi”, o quelli “mediani”, o quelli che , con mille altre etichette affollano il Catalogo di Madamina? Rimanendo in porto, temo, a fare grande strepito di credenziali e primogeniture. Alias: emarginandosi da soli (anche quelli che si portano bene elettoralmente).
Dario Fornaro

lunedì 15 settembre 2008

Dossier sulla presenza dei cattolici in politica

La battuta di avvio al dibattito è stata data dalla riflessione del prof. De Marco su www.chiesa.it curato da Sandro Magister e da me inviato agli amici di Appunti alessandrini e a Mons. Charrier. Sono arrivati subito alcuni stimoli alla riflessione che riporto, fino alla lunga riflessione di Agostino Pietrasanta. Ma il dossier è aperto e il dibattito pure...

Sui cattolici "scomparsi dalla politica"

di Pietro De Marco

1. La diagnosi della scomparsa dei cattolici, come tali, dalla vita pubblica e politica italiana è semplicemente un equivoco. Oppure è un incubo, che nasce dalla ristretta autoreferenzialità di alcuni cattolici, quelli che pensano ancora di essere gli unici politici cattolici legittimi. Al contrario: oggi dei cattolici governano in Italia con un ampio mandato di elettori cattolici, senza che abbiano dietro di sé un partito cristiano né un percorso formativo in associazioni confessionali. Il fenomeno costituisce in Italia e in Europa una relativa novità. Vediamo.
Nella discussione corrente sui cattolici manca un protagonista: la sociologia della religione. Non i sondaggi socio-demoscopici, ma la sociologia in quanto tale.
La sociologia della religione italiana è tra le migliori del mondo, per conoscenza del proprio oggetto, per finezza metodologica, per qualità di risultati e intelligenza di persone. Eppure nel dibattito politico è come se non esistesse. Per due ragioni, credo.
La prima: la sociologia della religione in Italia è prevalentemente destinata all'accertamento e all’analisi delle credenze e delle pratiche – e questa è in effetti la sua forza, oggi –, ma il committente e destinatario delle sue conoscenze è un limitato sottogruppo del mondo cattolico ed ecclesiastico.
La seconda ragione dipende dalla prima: le conoscenze socioreligiose – nel percorso che va dal sociologo al clero e ai laicati qualificati, e viceversa – sono usate da élite che leggono i dati con pessimismo minoritario o paternalismo pastoralistico. È una lettura che appare concentrata sui fenomeni di diminuzione o di ripresa della pratica religiosa alta, quella dei praticanti assidui, riservando una riflessione pressoché nulla, al di là del dato statistico, alle forme meno assidue e marginali della credenza e della pratica cattolica.
In questo utilizzo selettivo dei dati è come se la religione "modale" (espressione che Roberto Cipriani riferisce ai tantissimi praticanti occasionali e deboli credenti) fosse composta di uomini e donne che sono "qualcosa di meno", dal punto di vista spirituale, etico, rituale, rispetto ai soggetti che rientrano nel modello virtuoso. In quanto tali, i credenti "modali" sono pensati come esterni al corpo sociale cattolico.
Insomma, dopo decenni di polemiche contro una sociologia della religione che sarebbe stata funzionale alla istituzione preconciliare, ci troviamo oggi alle prese con una sociologia della religione sì valida, ma utilizzata soltanto da una minoranza cattolica: fatta di sociologi. di pastoralisti, di alcuni vescovi e di qualche giornalista. Una minoranza ecclesiale che da tempo sta monitorando – senza il conforto dei fatti – l’atteso declino della Chiesa cattolica, dal quale declino secolaristico aspetta da decenni la rigenerazione del cristianesimo o della religione. Una siffatta lettura dei dati raramente interessa l’opinione pubblica, se non per le episodiche notizie su quanti sono d’accordo o no con il magistero della Chiesa circa questa o quella materia bioetica.

2. Fino a quando in Italia la classe politica cattolica democristiana ed ex democristiana, collocata oggi a sinistra, apparteneva al nucleo virtuoso della religione di Chiesa "orientata e riflessiva", come qualche sociologo la definisce, o, con linguaggio più corrente, ai credenti e praticanti assidui, la categoria di "politico cattolico" sembrava chiara e rassicurante, anche per l’osservatore.
Oggi, però, i cattolici attivi nella politica e nei governi italiani sono per lo più dei praticanti ordinari, non i risultati di trafile virtuose. Sono spesso religiosi "modali", quelli che si dicono "abbastanza d’accordo" nelle risposte ai questionari, quelli della pratica "quasi regolare". Sono anche cattolici che si dichiarano talora "distanti e a disagio".
Per una sociologia della religione emancipata dall’empito profetico conciliare, almeno per la più affinata, che conosce la varietà e complessità della Chiesa di Roma, anche questi cattolici non "virtuosi", "quasi regolari", talora un po' "a modo mio", dovrebbero essere considerati cattolici a pieno titolo, ai quali dedicare analisi adeguate, e non dei semi-cattolici, catastrofico segnale della secolarizzazione avanzante. Non è compito del sociologo discriminare il gregge cattolico secondo modelli interni di eccellenza. E quale eccellenza poi? Quella del solidarista o quella del mistico? Del comunitarista liturgico o del missionario carismatico? Il sociologo, ad esempio, non può avere remore nel definire cattolico un "ritualismo" che permane per robusta tradizione familiare o per il venerato ricordo di una mamma che ci accompagnava in chiesa. Lascerà a qualche parroco dire – non credo sotto impulso dello Spirito Santo – che se si va alla messa "per tradizione" è meglio non andarci.
Il ragionamento cattolico minoritario si fonda su una invecchiata lettura dei sintomi: posto che i cattolici poco assidui o "modali" sono masse in via di allontanamento dalla Chiesa e dalla sua disciplina, si conclude che non ha più senso chiamarli cattolici, né ritenerli politicamente rilevanti come cattolici.
Sennonché le indagini degli ultimi venti anni in Italia invalidano la previsione dell’abbandono progressivo della Chiesa cattolica, di cui le forme deboli di credenza e appartenenza sarebbero fasi o sintomi. La composizione plurale, le disomogeneità e le difformità tra i credenti – che giustamente preoccupano chi si dedica alla cura d’anime – sono stabili da anni, per non dire strutturali. Rappresentano la complessità cattolica, quella propria dell’eccezione italiana brillantemente analizzata da Luca Diotallevi. Una complessità cattolica che, al di là delle sue differenziazioni di forme e di intensità religiosa, ritiene comunque rilevanti la tradizione e l’appartenenza cattolica, con le persone e le istituzioni che le rappresentano e trasmettono.
Solo così posto, il profilo cattolico che investe oltre l’80 per cento della popolazione italiana diviene significativo anche per l’analista della società civile. In altri termini: la varietà delle opzioni religiose corrisponde alla possibilità moderna di differenziarsi da altre persone e da altri modelli. Ma questo differenziarsi non corrisponde a una deriva individualistica postcristiana. Se le religiosità che qualche sociologo chiama "a modo mio" hanno caratteri ricorrenti e riconoscibili, questo implica che ogni "a modo mio" percorre tracciati costanti e neppure molto numerosi, dei quali si possono individuare i modelli. E almeno una parte di questi modelli di religiosità debolmente conformi possono essere considerati un effetto – qualcuno direbbe un successo – dell'azione antisecolarista della Chiesa.


3. Ora, il nuovo blocco elettorale di maggioranza e di governo in Italia appare costituito in maggioranza proprio da cattolici "modali". Ossia da quei cattolici che non siedono nelle prime panche delle chiese, non operano nei consigli parrocchiali, non leggono saggi di teologia, ma credono nella morale cattolica anche se la praticano con difficoltà, fanno frequentare ai figli l’ora di religione nelle scuole (diversamente dai cattolici progressisti, che non lo fanno) e non amano sentire dire dai catechisti che il diavolo non esiste e neppure esiste il peccato.
Vi è in questi cattolici poco assidui un attaccamento al nucleo istituzionale e dogmatico cattolico, magari ereditato dal catechismo, che nei cattolici "qualificati" non c’è, nonostante la maggiore cultura religiosa di questi ultimi. Credo che tra i politici che governano oggi l’Italia siano scarsi gli atei professi alla Piergiorgio Odifreddi, o gli scettici anticattolici alla Corrado Augias. Dal punto di vista socioreligioso l'attuale classe governante è cattolica, cattolica secondo realtà, la realtà composita della "Chiesa di popolo" italiana. È cattolica in quanto consente sull’essenziale della visione cattolica del mondo. Questo consenso non fa, per se stesso, le persone virtuose. Ogni credente, specialmente se umile, sa di essere nel peccato e di non avere garanzia di salvezza personale, se non per la misericordia di Dio e la mediazione della Chiesa. Non è abbastanza istruito da pensare, come il teologo "moderno" Vito Mancuso, che Cristo è una intensificazione dell’energia della vita universale che tutti ci investe e infine ci salverà tutti. I cattolici più vecchi ricordano di aver letto qualcosa del genere nei romanzi del modernista Antonio Fogazzaro.
Così, se è necessario che i parroci richiamino i cattolici a fedeltà e pienezza di amore, è meno necessario che dei politici cattolici "virtuosi" si esibiscano a modello di autentica laicità, di vera cultura sociale cattolica e simili. I cattolici, quanto meno sono "virtuosi" (felice categoria coniata da Max Weber), più sono consapevoli dei loro limiti, più hanno bisogno della Chiesa e sanno di averne. Né potrebbe essere diversamente. È così dalle origini.
Ora, a un semplice esame delle posizioni personali dei ministri e dei quadri dell'attuale governo, è facile trovare tra essi una maggioranza di cattolici, magari distribuita nelle diverse tipologie che da anni i sociologi propongono per cogliere la differenziazione entro e ai margini della "Chiesa di popolo" che costituisce l'eccezione italiana.

4. Da quanto detto, dunque, l'automatismo che in Italia identifica i cattolici con gli eredi della Democrazia Cristiana, ovvero con i membri di organizzazioni diversissime tra loro come l'Azione Cattolica, Comunione e Liberazione, l'Opus Dei, i volontariati e il sindacalismo cristiano, implica un rischio di cecità diagnostica del presente.
In sede di analisi politica dobbiamo non dimenticare ciò che sappiamo in sede socioreligiosa. Cattolici non sono soltanto, o anzitutto, i "virtuosi", ma tutta la costellazione dei credenti. In sede politica pubblica, il ragionamento del ministro del tesoro Giulio Tremonti sulla necessità di un ordinamento cristiano nel cuore dell'Occidente è forse meno significativamente cattolico di quello di un "virtuoso" che invece ama l'invisibilità della "differenza cristiana"? È forse meno cattolica l’effervescenza di un praticante del largo popolo della Lombardia, preso tra lavoro e timori di sicurezza, di quella di un uomo o di una donna che si dedicano alla parrocchia nella presunta prospettiva escatologista della "Lettera a Diogneto"? Sono domande paradossali, ma credo serissime.
La forma "virtuosa" sviluppata nel cattolicesimo politico italiano col nome di "azione cattolica" fu la creazione necessaria, ma contingente, di una Chiesa sottoposta nel XIX secolo alla sfida dei nuovi stati liberali e delle nuove religioni civili laiciste. Ma oggi l'indebolimento dell'imperatività degli stati impone di riconoscere e valorizzare coloro che sono cattolici anche al di fuori di quella passata grande milizia. E proprio questo è stato lo stile di governo della presidenza della conferenza episcopale italiana negli ultimi venti anni.
La CEI del cardinale Camillo Ruini ha operato inoltre con la consapevolezza che quel modello "virtuoso" di militanza cattolica era stato permeato da spiritualismi e utopie che l'avevano spinto fino all'autoannientamento, specialmente dopo gli anni Sessanta, e spesso alimentava l'opposizione interna agli ultimi due pontificati. Anche per questo i papi e la CEI si sono rivolti e si rivolgono preferibilmente al "popolo cristiano" piuttosto che ai "virtuosi", nonostante tutte le fragilità e gli accomondamenti quotidiani del cristiano comune.

5. Sia la base elettorale moderato-conservatrice, sia l'attuale governo italiano possono dunque essere detti cattolici, sia pure in un senso radicalmente diverso rispetto alla passata lunga stagione della Democrazia Cristiana.
Per questo la presenza e la guida della Chiesa sui fondamentali cristiani e umani, se ha oggi lo svantaggio di non disporre della storica intermediazione dei laicati addestrati a questo, ha il vantaggio di rivolgersi in Italia a una società ancora cristianamente sensibile e a quadri di governo non ostili od estranei alla Chiesa, come invece sono le culture politiche marxiste e laiche radicali che la tradizione cattolica "virtuosa" ha più volte legittimato a governare.
Se oggi il Principe non è più cristiano nel senso delle società di Ancien Régime, neppure è anticristiano. Né saranno i cattolici modernizzanti ad imporre quasi da soli, oggi, la finzione di una sfera pubblica laicamente neutralizzata. Non è casuale che i meno capaci di orientare cristianamente l'agire politico, in Italia e in Europa, siano oggi proprio loro, i cattolici "virtuosi" laico-democratici. Nella stagione conciliare essi avevano troppo scommesso, per autenticare la legittimità dei cristiani ad esistere, su una comprenetrazione tra cristianità e modernità che idealizzava il Moderno come nuova cristianità trasfigurata e realizzata.
In un paesaggio religioso e civile come quello italiano, la Chiesa docente è chiamata ad agire politicamente come in una paradossale condizione di nuova cristianità postsecolare. Dovrà agire non attraverso le milizie "virtuose" collaudate nelle stagioni del liberalismo e dei totalitarismi (milizie che si sono spesso contrapposte alla stessa gerarchia sul terreno teologico-politico), ma in un orizzonte universalistico di proposta, di negoziato, di consultazione, e anche di necessario comando. Dico universalistico perché, senza tale respiro rivolto a tutti, la guida cattolica dell'uomo comune (che è anche in larga maggioranza il cattolico comune) rimarrà chiusa negli affetti solidali delle piccole comunità delle parrocchie e delle organizzazioni, e la Chiesa docente non riuscirà ad esprimere posizioni razionali all’altezza del bene di tutti. Rischiando di ottenenere oggi, sul terreno pubblico, meno di quanto ottenne la conclusa tradizione di "azione cattolica".
Per riassumere. Primo: l'immagine di un parlamento e di un governo "senza cattolici", e conseguentemente di una Chiesa senza referenti politici, si alimenta di una diagnosi erronea. Secondo: l’intelligencija cattolica con radici nel dopoconcilio e nella Democrazia Cristiana è largamente assorbita dalla costellazione delle sinistre laiche radicali, con differenziati destini di cultura di opposizione. Terzo: la gerarchia e i cattolici che interpretano la Chiesa nello spazio pubblico devono ridefinire canali e codici di una comunicazione politica autorevole con l'universo popolo cristiano. E con una classe di governo "cattolica" ma non di "azione cattolica".


Meriterebbe però una riflessione, anche su Appunti.
Perché in effetti c’è la tendenza ad identificare i “rappresentanti” (se si può usare questo termine) del mondo cattolico in chi ha militato in associazioni e movimenti, mentre esiste anche un cattolicesimo all’acqua di rose che possiede comunque una sua fisionomia e che forse si sente più rappresentato da altre figure.
C’è di che meditare.
Marco Ciani


Un anno e mezzo fa sapevo di fare parte di una forza di minoranza (la Margherita). Pazienza. In fondo l'alternanza non è un male assoluto. Anzi. Poi però ho strada facendo sono entrato a far parte politicamente di una minoranza della minoranza ("area cattolica" del PD). In realtà però alle primarie del 2007 facevo parte dei riformisti di sinistra della minoranza cattolico-democratica del PD (minoranza della minoranza della minoranza). Caspita! Una cosa comunque stimolante. Secondo questo articolo ora dovrei, per coerenza, disprezzare i catechisti e non mandare i miei figli all'ora di religione, ma sedermi in prima fila in chiesa e leggere mucchi di libri di teologia... Siccome così non è, dovrei quindi essere viceversa etichettabile come "cattolico modale". Ne consegue, per esclusione, che sarei una "minoranza, della minoranza, della minoranza, della minoranza!" (cattolico modale, ma dell'area riformista di sinistra, però della minoranza cattolico-democratica del PD, che oggi è netta minoranza nel paese!). Mah!!!
Delle due l'una: O sono sempre stato di destra senza saperlo, o posso chiedere un colloquio di lavoro a Moira Orfei come acrobata-trapezzista...
Carlo Piccini


Non mi convince... Certo, c'è materia da discutere e forse sarà opportuno farlo.
Ma mi pare che il prof. De Marco delinei la figura di un cattolico di cui mi sono occupato spesso nei miei articoli: un cattolico da "religione civile". C'è una "vaga appartenenza", c'è un'adesione di principio ad alcuni principi dottrinali (che poi l'adesione intellettuale corrisponda anche ad uno sforzo di coerenza nella prassi o nelle scelte morali personali lo lasciamo tra parentesi, perchè il giudizio non ci compete), ma alla fine in tutta la riflessione di De Marco appare chiara una cosa: la fede non c'entra. Basta l'anagrafe parrocchiale, basta una partecipazione saltuaria, basta la dichiarazione... Che uno sia cattolico alla Giovanardi, alla Berlusconi, alla Bindi, alla Dossetti, alla Formigoni... non ha importanza. Basta dichiararsi tali. Non è questione di rappresentanza dei cattolici nella Margherita o nel PD, nell'UDC o nella Lega o nel PdL. Dal punto di vista pastorale (ma credo anche dal punto di vista dell'impegno politico) io credo che dobbiamo andare alla ricerca - e impegnarci a formare - il "cattolico adulto", che abbia una maturità di fede tale che gli dà la capacità di scegliere la "fatica del DISCERNERE", come ho già detto altrove e come alla fine ha ben scritto anche Agostino nell'ultimo editoriale di Appunti alessandrini. Anche se talvolta la gerarchia dà l'impressione di preferire un "cattolico modale" pronto a fare suo ogni imput della Chiesa, senza preoccuparsi nè di discernere nè di mediare...
Sono solo pensieri sparsi, bisognosi di approfondimento, ma ve li butto lì...
don Walter



IL RISCHIO DELL’IRRILEVANZA

C’è un dibattito in corso che non fa notizia di particolare rilevanza, ma che ritorna su alcune riviste e su qualche media di tiratura nazionale, dopo che Giuliano Ferrara, ha denunciato la scomparsa dei cattolici, almeno dei cattolici eredi dall’associazionismo e dei movimenti ecclesiali, dal governo del Paese, dopo l’ultimo trionfo elettorale di Silvio Berlusconi.
Personalmente credo, si tratta ovviamente di una mia opinione, che il problema vada ripreso in una dimensione del tutto diversa. In effetti non interessa tanto o solo se oggi i cattolici abbiano un peso nelle presenze istituzionali, ma se abbiano, come tali, ancora una rilevanza politica ed un progetto politico di ispirazione cristiana da far valere.
Se infatti limitassimo l’incidenza dei cattolici solo all’ipotesi che siano, o meno, presenti nelle istituzioni e nei governi nazionali e locali, dovremmo aderire alle ragioni proposte da qualche sociologo. Secondo costoro sono si assenti dal potere i cattolici eredi della grande tradizione di impegno caritativo, sociale e politico dell’associazionismo ecclesiale (chiamati “virtuosi”: Dio perdoni, almeno in questo caso, la sociologia!), ma sono ben presenti i rappresentanti del “cattolicesimo di Popolo” di cui anche la Chiesa fa sovente richiamo e che il convegno di Verona ha richiamato come categoria.
Certo bisognerebbe distinguere la religiosità popolare autentica dalle derive devozionistiche (troppe Madonne che piangono o troppe stimmate e apparizioni mi lasciano sempre perplesso) e dalle ragioni dei cattolici che fanno riferimento alla Chiesa solo se le ragioni sono le loro ed ancora da quei cattolici che sono fedeli all’insegnamento della Chiesa con parecchie libertà di pensiero e comportamento.
Il discorso però è un altro e, mi permetto di sottolinearlo, si tratta di argomentazione di prospettiva storica. In altre parole, c’è oppure no, una frattura nella continuità storica, circa la presenza dei cattolici nella società italiana?
Ora è di constatazione che, almeno dall’inizio del secolo scorso, ci sono stati due modi di porsi della succitata presenza; due modi che hanno fatto storia ed hanno marcato, fra di loro, un confronto molto spesso inconciliabile. Va subito detto che, se usassimo i parametri della sociologia moderna le due posizioni, pur inconciliabili, costituivano il risultato e la scelta di cattolici provenienti prevalentemente dall’esperienza “virtuosa” e cioè dalle forze del Movimento cattolico(M.C.) ottocentesco che aveva espresso presenze impegnate nel sociale, nel caritativo e nello spirituale, indipendente dal modo scelto per operare.
Una parte di quegli eredi, nel primo decennio del secolo scorso (il XX) scelse un intervento in politica attraverso i blocchi clerico/moderati che permettessero l’inserimento nelle istituzioni per far valere, attraverso la norma giuridica, i principi predicati e proposti dalla Chiesa; si trattava di ripristinare, o tentare il ripristino di uno Stato, almeno in parte, che si facesse paladino dei diritti della Chiesa e che adombrava una lontana parvenza di “Stato cattolico”. L’idea, superata da eventi di straordinaria rilevanza, nel corso di tutto l’ottocento, dalla Rivoluzione francese in poi, allignava ancora nel sogno o nelle illusioni dei promotori dei blocchi di cui si faceva cenno.
Alla fine del secondo decennio del secolo si impose, sia pure per breve tempo, un altro criterio di partecipazione, criterio che riteniamo incompatibile col primo: l’idea del popolarismo, di un partito cioè di cattolici che rinunciavano. per indicazione di Luigi Sturzo, ad uno Stato cristiano, ma chiedevano allo Stato di rinunciare alla strumentalizzazione egemonica della coscienza religiosa.
Il fascismo bloccò in radice la seconda esperienza e dichiarò inutile (almeno nei fatti) la prima, facendosi diretto paladino di alcune garanzie richieste dalla Chiesa, in cambio di una esplicita richiesta di consenso, che non mancò di coinvolgere la Chiesa stessa in non pochi compromessi.
Sono cose ben note, ma vanno sinteticamente richiamate dal momento che costituiscono la premessa di alcune conclusioni che faremo seguire tra poco.
Può considerarsi di generalizzata conoscenza che le due istanze dell’attività dei cattolici in politica marcò nel secondo dopoguerra una singolare convergenza, sia per costituire argine alla forte compagine del partito comunista, sia per dare consistenza al partito nuovo di cattolici, la Democrazia cristiana; ciò permise di creare una compagine fortemente maggioritaria che rappresentò anche interessi molto ampi di categorie che tradizionalmente avevano piuttosto combattuto che appoggiato il MC, ma che vedevano nella DC il contrappeso dialettico al Partito comunista. Il fatto è che le due posizioni tradizionali della presenza cattolica finirono per coesistere e le espressioni più radicali di una presenza di conquista finalizzata ad imporre le logiche di uno stato cristiano si stemperarono e la DC, contenitore di tale coesistenza, riuscì a contenere anche ogni deriva autoritaria di tipo reazionario e clericale che pure continuavano a premere sulle sue scelte; ma si trattava appunto di posizioni, talora eclatanti, ma scarsamente incisive, salvo rare eccezioni, rispetto alle scelte sostanzialmente laiche del partito di cattolici, la DC appunto.
Va aggiunto che le punte radicali della presenza dello Stato cristiano e/o cattolico furono letteralmente sepolte dal discorso di apertura del Concilio Vaticano II; in esso Giovanni XXIII denunciava, in presa diretta i pericoli corsi dalla Chiesa nei periodi in cui subiva l’indebita ingerenza delle autorità civili, le quali “…si proponevano si di proteggere con tutta sincerità la Chiesa (la garanzia delle sue prerogative); ma più spesso ciò avveniva non senza danno e pericolo spirituale, poiché se ne occupavano secondo i calcoli di una loro politica interessata e pericolosa”. Di fatto si indicava, in sede magisteriale, il comportamento del popolarismo sturziano: ovviare allo stato cristiano, ma nel contempo rifiutare la strumentazione egemonica della coscienza cristiana.
Crollata con la DC la coesistenza delle due categorie di presenza dei cattolici, nella vita politica, venuta meno in sostanza, la tradizionale “unità politica dei cattolici”, si sono intraprese strade diverse, nel centrosinistra e nel centrodestra.
Con una precisazione. Né gli uni, né gli altri potevano richiamarsi, almeno nella generalità dei casi alla categoria dei “virtuosi” e mi riferisco ovviamente alla categoria sociologica che si va imponendo, non certo alla coscienza delle singole persone; purtroppo la formazione spirituale, etica, culturale ed anche politica assicurata dall’associazionismo ai cattolici presenti sulla scena politico/istituzionale aveva subito, col passare dei decenni, una cesura.
Ora, a mio parere, il problema sta proprio in questa generalizzata assenza di “virtuosi” che si esprime nella riduzione della politica a semplice gestione del potere.
In ogni caso però le presenze cattoliche del centrodestra sembrano svolgere il ruolo di una cinghia di trasmissione delle domande della Chiesa, senza mediazione culturale e politica e propongono una collaborazione, anche di governo, che richiama in qualche modo la metodologia dei vecchi ed ovviamente superati (?) blocchi clerico/moderati, senza la preparazione “virtuosa” dei protagonisti del primo novecento e si richiamano alla rappresentanza di quella “cristianesimo di popolo” che transige parecchio, anche nei comportamenti, senza badare se proclamati i diritti e le proposte della Chiesa (i cristiani che tali si dichiarano, senza preoccuparsi di esserlo), ne debba conseguire un risultato coerente ed adeguato.
Sulle presenze cattoliche nel centrosinistra il discorso è più complesso. Sia chiaro, anche se gli eredi dell’associazionismo ecclesiale si trovano, in gran numero, su questo versante, si tratta appunto di singole persone. La rappresentanza, anche in questo caso, non può che riferirsi ad un popolo che segue a singhiozzo le prescrizioni della Chiesa, anche qui i “virtuosi” non incidono più di tanto: la formazione è venuta meno per tutti.
E tuttavia se per la presenza nel centrodestra la mancanza di formazione è grave, qui rischia di essere mortale. Si prende atto che è necessaria più che mai una politica del confronto, che le varie ragioni della proposta cristiana devono essere mediate (non compromesse: distinguiamo tra compromesso e mediazione) in un contesto plurale di fatto e che i principi vanno realizzati nel confronto con altre culture politiche e che si punta, rispetto ai principi, al massimo di bene possibile. La conseguenza è molto semplice: la mediazione verso il massimo possibile, presuppone una radicata conoscenza ed una adeguata comprensione intellettuale e pratica del principio di riferimento.
Altro è proporre una legislazione che accontenti la Chiesa, altro è creare un radicamento del valore cristiano con modalità sufficientemente compatibili rispetto alle culture di confronto, da essere accettato, secondo logica del massimo possibile; grazie a tale augurabile radicamento si arriva anche alla proposta istituzionale. Per l’obiettivo di primo livello forse potrebbe bastare la strada del potere (ma se non c’è formazione “virtuosa” non vedo quali esiti ne possano derivare); per l’obiettivo di secondo livello necessita confronto, dibattito, elaborazione, possibili, secondo la Costituzione, nel partito politico, come luogo in cui il cittadino determina la politica nazionale.
Qui la questione non solo è aperta, ma apre scenari inquietanti, perché lo stesso Partito democratico (PD), scelto dai cattolici che vorrebbero fare politica, secondo i parametri che abbiamo chiamato di secondo livello, non decolla, perché si mimetizza sulle ragioni della corsa al potere ed una parte dei sedicenti cattolici che sono presenti nel PD, si adeguano.
Ed allora. Di quale presenza si parla? Io, al momento non ne intravedo, se non in qualche intenzione, magari anche seria.
Qualcuno legittimamente potrebbe pensare il contrario.
Agostino Pietrasanta

venerdì 12 settembre 2008

Accoglienza, sicurezza e legalità per tutti: no alle discriminazioni e al razzismo

Riprendo da MicroMega. Condivido e sottoscrivo!

"Come gruppo di preti abbiamo sentito l'esigenza di incontrarci e di esprimerci reciprocamente ragionevoli speranze insieme a motivi di preoccupazione e disagio. Vogliamo condividere in modo pubblico i pensieri, le considerazioni e le scelte che sono state per noi sostegno nel continuare, anzi intensificare l'impegno per la giustizia, la pace e l'accoglienza.

1. Siamo fortemente preoccupati di quanto sta avvenendo nel nostro Paese, tanto più nel contesto di un dibattito sulla sicurezza caratterizzato da toni e contenuti che ricordano periodi cupi della storia d'Italia e d'Europa: la decisione di prendere le impronte digitali ai bambini Rom ha suscitato giusta indignazione e ha rivelato - se ancora ce ne fosse stato bisogno - la vera faccia di una politica asservita soltanto agli interessi dei ricchi e dei potenti. La complessità del momento storico; gli accelerati e profondi cambiamenti nella nostra società e sul Pianeta; la diffusa incertezza che riguarda il lavoro e la vita quotidiana di tanti cittadini, la rapidità e l'ampiezza del fenomeno migratorio, gli atti di criminalità e violenza possono indurre comprensibili paure cui è necessario far fronte con pacatezza, con analisi e riflessioni, con provvedimenti adeguati.
L'analisi amplificata e strumentale di alcuni singoli episodi non ha consentito di esaminare in modo accurato il migliorato quadro generale dell'ordine pubblico nel nostro Paese; complice una strategia mediatica disattenta alle esigenze dei più poveri è stato generato un clima di paura che tende ad investire tutti i settori della vita pubblica e privata; immediata la tentazione di offrire risposte fondate sulla garanzia delle armi e dell'esercito, sulla penalizzazione pregiudiziale di alcune categorie di persone e sulla crescita del controllo con la conseguente limitazione del diritto alla riservatezza della sfera personale.
In questo modo le cause della paura possono essere facilmente attribuite sempre e solo agli "altri", con continue pericolose generalizzazioni: si alimenta un giudizio negativo nei confronti di tutti gli immigrati irregolari e un'ombra su tutti gli stranieri, si avvallano pregiudizi inaccettabili verso tutti i nomadi e così via. Se si riesce a far credere che l'insicurezza sia provocata sempre e solo da chi viene da altrove, la sicurezza non può che derivare dall'allontanamento; e così la presenza senza permesso sul nostro territorio diventa un reato; invece di arrivare alla loro chiusura e alla realizzazione di strutture diverse, i CPT diventano sempre più simili alle carceri, con detenzioni fino a 18 mesi... E così vengono completamente dimenticati le cause della presenza di migliaia di persone e i viaggi disperati la cui frequente trasformazione in tragedia nel mare o nei cassoni dei camion non fa quasi più notizia sui nostri giornali.
Certo che ci sono delle questioni aperte, ma non possiamo accettare che il dibattito sulla sicurezza possa riguardare soltanto "noi", nelle nostre città: è una condizione che riguarda il diritto di tutte le persone, per il solo fatto che vivono sulla faccia del Pianeta. Del male e del bene possiamo essere tutti protagonisti e responsabili: la sicurezza interessa i cittadini italiani quanto le donne straniere "badanti" nelle case; gli immigrati tutti, qualsiasi sia la loro condizione; i nomadi cittadini italiani e no, i loro bambini/e in particolare; tutti gli operai italiani o stranieri, assunti regolarmente o in nero, coloro che sono in carcere, italiani e stranieri; le donne prostitute; la sicurezza riguarda le donne che in percentuale drammatica subiscono violenza fra le pareti domestiche; gli adolescenti, i giovani, gli adulti coinvolti nella dipendenza dell'alcol e delle droghe; tutte le persone che soffrono solitudine e angoscia fino al suicidio.
L'insicurezza è strutturale, riguarda i milioni di persone impoverite e affamate, oppresse e sfruttate, vittime della guerra e di violenze tremende, condizioni di cui in un modo o nell'altro siamo complici; mentre pretendiamo sicurezza per noi contribuiamo all'insicurezza di gran parte dell'umanità. Riteniamo importante e doveroso affrontare i problemi e nello stesso tempo indicare le esperienze positive in atto, del tutto e volutamente taciute in questi mesi. Ci sembra inaccettabile anche il linguaggio della comunicazione: sembra di vivere in territori e città assediate, infestate dai nemici, di "essere in una guerra" che giustifica la valorizzazione del ruolo dell'esercito.
È demagogico dichiarare pubblicamente che tutte le persone clandestine devono essere allontanate e poi impantanarsi in precisazioni e distinguo relativamente alle "badanti", indispensabili alle nostre famiglie salvo poi ribadire l'allontanamento di tutti; e dimenticare sempre le migliaia di lavoratori nelle campagne e nell'edilizia regolari per il mercato del lavoro, irregolari per la legge. La questione dell'immigrazione segna e segnerà a lungo le nostre società e la convivenza pacifica fra persone diverse per cultura e fede religiosa, dipenderà dalle nostre scelte di oggi. Una doverosa e seria cooperazione internazionale; lo svincolarsi dalle complicità internazionali nell'impoverimento, nell' oppressione, nella violazione dei diritti umani, nelle violenze e nelle guerre devono essere impegni prioritari della politica. E uniti a questi un'assunzione di responsabilità più seria e adeguata nella politica e nella legislazione sui flussi migratori per non favorire, come la legge attuale, la clandestinità; per non considerare gli immigrati una forza lavoro necessaria e poi una presenza indesiderata.
La demagogia e i massimalismi rispondono agli istinti e alle emozioni e non affrontano in modo veritiero e umano i problemi. Le impronte digitali ai bambini rom vengono giustificate con l'intenzione di salvaguardarli: in realtà attuano una discriminazione razzista dal momento che migliaia di bambini e adolescenti del nostro paese dovrebbero essere salvaguardati, specie quelli che vivono in condizioni di degrado e in zone controllate dalla criminalità.

2. Ci riferiamo con convinzione, umiltà a una ricerca che sempre continua al Vangelo di Gesù di Nazaret; con la Chiesa, comunità di fede, ci sentiamo chiamati ad annunciare con coraggio e a testimoniare con coerenza il Vangelo nella storia. Come ribadito dal Concilio Vaticano II, il piano della fede e quello della politica devono essere considerati distinti ma non separati. Per questo non possiamo accettare che certi provvedimenti legislativi, come ad esempio "il pacchetto sicurezza", siano varati evocando l'identità e le radici cristiane in modo ideologico, capzioso ed evidentemente strumentale. Ci chiediamo anche se i 14 milioni di euro stanziati con questa finalità nella Regione Friuli Venezia Giulia - a fronte di un netto e facilmente documentabile calo dei crimini - non avrebbero potuto essere utilizzati per migliorare quella qualità delle infrastrutture e dei servizi che potrebbe garantire una vera prevenzione, concreto antidoto alla possibilità di delinquere.
Il Vangelo di Gesù ci insegna in modo incessante, incalzante e chiaro a praticare la giustizia, l'accoglienza, la pace, l'attenzione ad ogni persona, la condivisione della condizione di chi fa più fatica, di chi è più fragile, debole, in necessità... Questo è il messaggio cui attingere orientamento, luce e coraggio per le scelte politiche più rispondenti ai criteri di dignità e uguaglianza di tutte le persone, come del resto ci richiama anche la nostra esemplare e minacciata Costituzione repubblicana. Non riusciamo a comprendere le parole di compiacimento dei responsabili della Conferenza Episcopale Italiana sul nuovo clima politico esistente nel nostro Paese, peraltro ben presto smentite dall'evolversi della situazione parlamentare: secondo noi non c'è un vero confronto, anzi il dibattito in corso è inquietante per i suoi tratti disumani nei confronti dei diversi, degli stranieri e dei nomadi e per la sistematica identificazione tra i problemi e le persone, tra la soluzione delle questioni ed il rifiuto, la ghettizzazione o l'espulsione.
Ci sono sembrate incoraggianti le parole piene di delicata attenzione e di condivisione dell'Arcivescovo di Milano monsignor Dionigi Tettamanzi anche a proposito della presenza dell'esercito nelle città e anche le dichiarazioni della Fondazione Migrantes e di Famiglia Cristiana. Mai come adesso è importante evidenziare la necessità di segni in grado di concretizzare la fede e gli ideali: nel momento in cui la Chiesa contesta giustamente il reato di clandestinità dovrebbe contemporaneamente ampliare di. molto la disponibilità all'accoglienza nelle tante strutture di sua proprietà; esse potrebbero essere gestite in collaborazione fra volontariato e istituzioni pubbliche, diventando così un'alternativa concreta e sostenibile alla detenzione nei CPT. È preoccupante che questo clima diffuso trovi consenso in tante persone, anche in chi si dichiara cristiano e frequenta la chiesa.

3. Quella della pace è la questione decisiva e dirimente tutte le altre; la si può perseguire soltanto attraverso un'educazione permanente alla pratica della non violenza attiva, al rifiuto di costruire, utilizzare e commerciare armi. Vogliamo ribadire la necessità di una progressiva riconversione ad uso civile dei siti militari - in modo particolare la base Usaf di Aviano - e di quel ripudio della guerra dichiarato nell'articolo 11 della Costituzione: essa produce morti, feriti, distruzioni, devastazioni dell'ambiente vitale; peggiora tutto e nulla risolve. Riconosciamo un segno di ragionevole speranza nella sentenza del Tar che blocca i lavori della base usar di Vicenza, rilevando da una parte l'inconsistenza di una decisione presentata a suo tempo come indiscutibile, dall'altra la gravità dell'impatto ambientai e e l'importanza fondamentale di compiere scelte tenendo conto della manifesta volontà dei cittadini.
Queste nostre considerazioni nascono da una quotidiana condivisione con persone che vivono momenti di amicizia, fatica, accompagnamento e arricchimento umano nella reciprocità: sono giovani, donne e uomini che vivono il cammino di liberazione dalla dipendenza; detenuti nelle carceri; sofferenti nel corpo e nella psiche; sono stranieri, tanti dei quali impegnati con dedizione, generosità, disponibilità operosa; sono persone che vogliono servire seriamente il bene comune nelle istituzioni e nella politica.
Sono considerazioni elaborate nelle nostre comunità locali in relazione con le comunità del Pianeta, nutrite ed interpellate dalla Parola, dall'Eucarestia e dalle provocazioni della storia che chiamano a esserci, a condividere e a prendere posizione."

don Pierluigi Di Piazza (Zugliano)
don Federico Schiavon (Udine)
don Franco Saccavini (Udine)
don Giacomo Tolot (Pordenone)
don Piergiorgio Rigolo (Pordenone)
Andrea Bellavite (Gorizia)
Don Alberto De Nadai (Gorizia)
don Luigi Fontanot (Fiumicello)
don MarIo Vatta (Trieste)
don Albino Bizzotto (Padova)
padre Alessandro Paradisi, monaco benedettino.

domenica 7 settembre 2008

Se vince Obama

Ripropongo l'articolo di Raniero La Valle nella rubrica “Resistenza e pace” in uscita sul prossimo numero del quindicinale di Assisi, Rocca (rocca@cittadella.org).

Se vince Obama, si accende una stella. Infatti vuol dire che le cose possono cambiare e che a vincere non è sempre l’uomo bianco, neanche in America.
Se Obama vince, non è perché ha dalla sua il passato, come Mc Cain ha quello di “eroe” per aver combattuto nella guerra persa del Vietnam; non è perché l’uragano che le sette cristiane avevano invocato contro di lui si è abbattuto invece sulla convenzione repubblicana (ma Dio non era nel vento); non è perché a un certo punto per avere i voti della classe media e della comunità ebraica americana ha dato una sterzata a destra alla sua campagna elettorale e a Gerusalemme ha promesso a Israele ciò che non poteva promettere; se Obama vince è perché una fase si è chiusa e la nuova fase non si può affrontare con le idee e con le armi di prima.
La crisi del Caucaso, più ancora che le sconfitte in Iraq e in Afghanistan, ha mostrato l’esaurimento della orgogliosa pretesa della neo-destra americana di fare suo il mondo dopo la rimozione del muro di Berlino. In effetti qui le condizioni erano le più favorevoli per gli Stati Uniti: la Georgia, uscita dall’URSS e ormai entrata nella sfera americana, e anzi ansiosa di entrare nella NATO; l’egemonia atlantica ormai imperante in tutta l’area est-europea di antica obbedienza sovietica; la Polonia pronta ad accogliere lo scudo spaziale e ogni altra arma “difensiva” antirussa; la Russia ormai ufficialmente declassata, dagli analisti americani, a potenza “regionale”. E se gli Stati Uniti avevano fatto una guerra per il Kosovo, ben poteva la Georgia fare una guerra per l’Ossezia. Ma è bastato che la Russia dicesse di no, che rivendicasse il mandato dell’ONU come legittimazione della sua presenza militare nell’Ossezia del Sud, e che muovesse le sue forze armate, ed ecco che tutto l’Occidente, in preda alla massima confusione, non ha potuto accusare la Russia che di “una reazione sproporzionata”, ancorché legittima; e la Georgia ha perso, e l’America con lei.
La lezione è che la forza non basta più, che nuovi equilibri si vanno creando, e che nessuno può fare quello che vuole. L’era di Bush finisce con la sua “strategia della sicurezza nazionale americana”, la quale consisteva nel fatto che gli Stati Uniti controllassero il mondo intero, e che mai alcun’altra potenza potesse non solo superare, ma neanche eguagliare la potenza americana; l’equazione era che la sicurezza degli Stati Uniti stava nella insicurezza degli altri, e nell’impedire che qualsiasi nuova forma di equilibrio potesse crearsi dopo quello tramontato dei due blocchi. Questo sogno, concepito dopo la scudisciata delle Torri Gemelle, è svanito.
Ma ciò si accompagna alla caduta di un altro sogno coltivato a partire dall’89 dalle potenze vincitrici della guerra fredda: e cioè che la globalizzazione, come realizzazione del capitalismo puro, sarebbe stata la forma definitiva del mondo, ormai pacificato sotto la dittatura universale del danaro. I costi umani, politici, economici e sociali di questo assetto finale della storia erano considerati danni collaterali, e in sé trascurabili, purché non arrivassero alle .prime pagine.
Anche questa costruzione è franata; ma non perché ci sia stata una rivincita degli sconfitti, ma perché questo sistema non è atto a reggere la terra, e la terra esplode sotto le sue mani. Non è solo “il dio mercato” che produce danni irreparabili, come ormai ammette anche Tremonti, improbabile neofita della lotta contro un “fanatico” liberismo economico; ma è tutto il sistema della appropriazione, della produzione, del consumo e della trasformazione che è giunto a sbattere contro un muro invalicabile, che è quello dei limiti di un mondo finito e di una creatura che crea ma nei gemiti di una realtà essa stessa creata. Per rendersi conto della gravità della crisi sistemica che si è prodotta e della portata dei “mali del mondo” basta leggere un agile libro appena uscito di una ambientalista di fama, Carla Ravaioli, dal titolo “Ambiente pace, una sola rivoluzione” (edizioni Punto Rosso, 12 euro). Si può discutere la proposta di cominciare un rientro nei limiti, col disarmo dell’intera Unione europea, ma tutta l’analisi è ineccepibile e altrettanto la tesi dell’urgenza di una drastica inversione di tendenza; altrimenti il sistema per la sua stessa logica sarebbe tentato di salvarsi giocando l’ultima carta delle disuguaglianze, dell’esclusione e della guerra.
Questa riforma non può farsi per via politica senza una profonda revisione delle culture che hanno presidiato fin qui lo sviluppo del mondo. Se vince Obama un mutamento politico e culturale potrebbe cominciare in America; e allora toccherebbe a noi, forze umane e progressiste di ogni Paese, fare da sponda a questa possibile rivoluzione americana. Perché se cambia la politica dell’America, cambia il mondo. Raniero La Valle

mercoledì 3 settembre 2008

Approdo di speranza o tragedia?

Ecco le parole che ha detto il Papa domenica 31 agosto 2008 a proposito del dramma delle "migrazioni", ben altro rispetto alle nostre strumentalizzazioni politiche sugli "immigrati clandestini" (come si ostinano - volutamente e scientemente - a chiamare quelli che attraversano il mare a rischio - volutamente e scientemente - della vita. Ovviamente c'è chi le legge da destra e chi da sinistra. Proviamo a tenerle presenti e a meditarle per quel che dicono, anche se di questi tempi il considerare e meditare è un'operazione da Qoelet: "Vanità delle vanità, tutto è vanità".

In queste ultime settimane la cronaca ha registrato l’aumento degli episodi di immigrazione irregolare dall’Africa. Non di rado, la traversata del Mediterraneo verso il continente europeo, visto come un approdo di speranza per sfuggire a situazioni avverse e spesso insostenibili, si trasforma in tragedia; quella avvenuta qualche giorno fa sembra aver superato le precedenti per l’alto numero di vittime. La migrazione è fenomeno presente fin dagli albori della storia dell’umanità, che da sempre, pertanto, ha caratterizzato le relazioni tra popoli e nazioni. L’emergenza in cui si è trasformata nei nostri tempi, tuttavia, ci interpella e, mentre sollecita la nostra solidarietà, impone, nello stesso tempo, efficaci risposte politiche. So che molte istanze regionali, nazionali e internazionali si stanno occupando della questione della migrazione irregolare: ad esse va il mio plauso e il mio incoraggiamento, affinché continuino la loro meritevole azione con senso di responsabilità e spirito umanitario. Senso di responsabilità devono mostrare anche i Paesi di origine, non solo perché si tratta di loro concittadini, ma anche per rimuovere le cause di migrazione irregolare, come pure per stroncare, alle radici, tutte le forme di criminalità ad essa collegate. Dal canto loro, i Paesi europei e comunque quelli meta di immigrazione sono, tra l’altro, chiamati a sviluppare di comune accordo iniziative e strutture sempre più adeguate alle necessità dei migranti irregolari. Questi ultimi, poi, vanno pure sensibilizzati sul valore della propria vita, che rappresenta un bene unico, sempre prezioso, da tutelare di fronte ai gravissimi rischi a cui si espongono nella ricerca di un miglioramento delle loro condizioni e sul dovere della legalità che si impone a tutti. Come padre comune, sento il profondo dovere di richiamare l’attenzione di tutti sul problema e di chiedere la generosa collaborazione di singoli e di istituzioni per affrontarlo e trovare vie di soluzione. Il Signore ci accompagni e renda fecondi i nostri sforzi!