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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

sabato 29 dicembre 2007

L’anno nuovo

“Indovinami, indovino, tu che leggi nel destino: l’anno nuovo come sarà? Bello, brutto, o metà e metà?”.
Gli avvenimenti di questi giorni, dal Pakistan con i suoi bagliori atomici, ai delitti di Garlasco e Perugia, dalla classe politica che continua a dare uno spettacolo indecoroso fino ai lutti recenti degli operai della Tissen…beh, confesso di provare un poco di malinconia.
Certo, se guardo la mia situazione personale - tocchiamo ferro - non mi posso lamentare.
Ma dove cercare un po’ di speranza per questo nostro triste mondo inquieto?
Perfino Papa Benedetto XVI ha sentito il bisogno di dedicare una enciclica alla speranza, che infatti inizia così « SPE SALVI facti sumus » – nella speranza siamo stati salvati. Dice san Paolo ai Romani e anche a noi.
Purtroppo la lettura della lettera papale non mi ha molto risollevato. Anzi, mi ha pure creato qualche perplessità in più.
Certo. A chi è credente rimane sempre la speranza di una vita migliore nell’aldilà.
Ma nell’aldiquà? Dobbiamo forse rassegnarci?
Guardando mia figlia che ha compiuto due anni da poco e che ormai incomincia a parlare e, pian piano, a capire il mondo, mi chiedevo cosa potrò dirle un domani, quando vedendo scorrere le immagini del telegiornale o di qualche talk show mi dovesse chiedere “caro papà, in che mondo mi hai fatto nascere?”.
Certamente io non sono di quelli che indulgono alla retorica del “una volta era meglio”. Per carità! Ricordo bene i racconti di mia nonna sulle fame patita, le due guerre mondiali, la paura di un olocausto nucleare e via discorrendo. E se ci spostiamo ancora più indietro nel tempo, peggio che andar di notte.
Ma mi sembra che, fino a qualche anno fa, la percezione portasse a dire che complessivamente la situazione del genere umano andasse, pur in mezzo a mille contraddizioni e ricadute, lentamente ma inesorabilmente migliorando.
Ora non più. Questa sensazione non si avverte. E mi pare anche che la privazione di speranza e l’incertezza del futuro abbiano portato la gente ad essere più incattivita, più diffidente, più disumanizzata e cinica.
Mi sbaglio? Magari!
Se penso al nuovo anno, che tra l’altro avrà un giorno in più - augurandoci che anno bisesto non sia anche anno funesto, come vorrebbe il motto popolare - non lo vedo molto bene.
A parte immaginarmi di nuovo il ghigno di Berlusconi a Palazzo Chigi, magari con Dini premiato alla presidenza del Senato per il tradimento annunciato del governo attuale, raffigurazione che già da sola mi sconforta a sufficienza, non so proprio cosa sarà di questa nostra povera Italia e di questo nostro misero mondo.
Qualche amico mi direbbe, servirebbe un’utopia.
Io gli risponderei, lascia stare le utopie. Hanno già fatto danni incalcolabili. Riponile pure nella grande discarica della storia.
E allora questo amico potrebbe ribattermi “allora dimmi tu, sapientino, cosa ci serve”.
A questa provocazione forse gli risponderei che ci servirebbe un po’ più di compassione per il prossimo, un pizzico di fiducia in noi stessi, una dose abbondante di ragionevolezza e qualche esempio da seguire.
Ma non sto parlando di grandi uomini. Non ci servono improbabili eroi. Sto parlando di persone normali. Anche se, in tempi di esplosioni irrazionalistiche e di cialtroneria diffusa, gli uomini normali, pacifici e ragionevoli sono il fenomeno più rivoluzionario che possa esistere.
Sono coloro che cercano, malgrado tutto, di fare bene e onestamente la loro parte, magari preoccupandosi un pochettino anche degli altri.
E questo si può fare in molti modi.
Per esempio, non frodando il fisco. Finanziando un’adozione a distanza. Donando il sangue. Aiutando in parrocchia. Partecipando alla vita politica del proprio comune. Manifestando per una causa o sottoscrivendo petizioni.
Ci sono parecchie piccole cose che messe insieme possono smuovere veramente le montagne.
E che se moltiplicate per tante persone, diventano un’onda gigantesca capace di spostare la rotta di una nave che altrimenti rischierebbe di andare a sbattere sugli scogli.
Se non mi credete, pensate cosa è riuscito a combinare duemila anni fa un tizio con la barba circondato da una dozzina di mezzi sbandati.
Ecco cosa potrei dire a mia figlia, quando avrà l’età per capire, e a me stesso.
Cerca di comportarti bene e pensa a fare meglio che puoi il tuo. Per il resto, vivi in pace con gli altri, aiutali se puoi, e rispettali. E per cambiare il mondo in positivo, incomincia da te.
Alla fine della fiera, anche la filastrocca di Rodari che la maestra mi aveva fatto imparare a memoria in prima elementare terminava dicendo “Di più per ora scritto non trovo nel destino dell’anno nuovo: per il resto, anche quest’anno…sarà come gli uomini lo faranno”.
marco ciani@hotmail.com

venerdì 28 dicembre 2007

Costituzione: questa sconosciuta

Celebriamo il sessantennio della Costituzione della Repubblica senza entusiasmi e senza particolare attenzione: a troppi la Carta fondamentale dello Stato sembra vecchia, superata e non più adeguata alla situazione del Paese. Le cause sono molteplici; e tuttavia, benché si possa ammettere, e generalmente si ammetta, che alcuni istituti dello Stato (il bicameralismo, i sistemi elettorali incautamente riformati, la figura del premier…) siano inadeguati, sono gli impianti fondamentali della nostra Repubblica, sanciti dalla Carta ad essere scarsamente conosciuti e quindi, molto spesso, irrilevanti.

Il fatto è che la scarsa cultura civica della maggioranza degli Italiani consegue proprio una mancata ricezione dei valori che fondano la Nazione italiana, rinata dopo la caduta del fascismo. Si tratta di valori che dovrebbero essere condivisi e che danno senso alla democrazia; una democrazia solidale perché propone e promuove i diritti individuali in spirito di solidarietà, finalizzando la stessa libertà alla crescita comune dei cittadini, anche di quelli che, lasciati alla sola competizione, non sarebbero in grado per vari motivi, di realizzare il pieno ed integrale sviluppo della loro personalità.
Ne abbiamo parlato spesso ed in più occasioni; ora basti la constatazione che questi fondamentali di libertà coniugati con la solidarietà ed i riconoscimenti del merito individuale promosso, non solo e non tanto per il successo del singolo, ma per la crescita della comunità nazionale ed a favore di tutti e dei
singoli cittadini, questi fondamentali (va ribadito)non sono percepiti nella loro giusta dimensione.
Le ragioni sono molteplici; alcune però sono di pura e semplice constatazione di fatto. Intanto la nascita della democrazia repubblicana è nata su fenomeni storici ed eventi fondanti, non riconosciuti dalla totalità della nazione; il 25 aprile, giorno della liberazione dal totalitarismo di Stato e dunque di ripresa del processo democratico è stata percepita come sconfitta da una parte, sia pure minoritaria degli Italiani: non abbiamo, come nazione, un 14 luglio, una data analoga a quella di Francia. In effetti il movimento della Resistenza oltre ai combattenti per la libertà (ottantamila? duecentomila?) ha visto la partecipazione di appoggio o la presenza interessata, o la presenza obbligata di chi era coinvolto suo malgrado nelle vicende della guerra attraverso tutto il Paese. Queste presenze sono state spesso liquidate con l’espressione di attendismo; sta di fatto che hanno creato una consapevolezza, una coscienza di opposizione alla violenza ed alla guerra, un giudizio di condanna della prepotenza totalitaria.
Il riconoscimento di questa coscienza e di questa consapevolezza, da parte del giudizio storico avrebbe potuto creare il filo dell’unità della nazione attorno agli eventi fondativi della nostra democrazia solidale. Purtroppo questo non è avvenuto: i protagonisti diretti di quegli eventi, meritevoli di gratitudine da parte degli Italiani, hanno però ritenuto, e troppo a lungo, di essere gli artefici pressoché esclusivi della rinascita nazionale e, soprattutto degli esiti democratici, assolutamente straordinari dell’Italia.
La conseguenza fu e permane di lungo periodo e si risolve nella scarsa considerazione, da parte di una nutrita maggioranza degli Italiani, di una carta costituzionale che sarà anche da modificare in alcune sue parti, ma che contiene dei fondamenti straordinari di maturità democratica; l’ignoranza, soprattutto generalizzata, non nasce, di solito, soltanto da volontà insufficiente.

Altra questione attiene la minoranza degli Italiani che hanno scelto soluzioni non coerenti e antitetiche a quelle resistenziali e che di conseguenza non si sono ritrovati, di fatto, con le ovvie conseguenze democratiche. Premetto ciò che in altre sedi ho avuto modo di sottolineare: non si possono mettere sullo stesso piano coloro che hanno combattuto per la liberazione dell’Italia dal totalitarismo e coloro che, pur in buona fede, hanno scelto la difesa del nazi/fascismo. E tuttavia, a prescindere dalla buona fede, troppo tardi è stato riconosciuto il loro contributo di sangue e la persecuzione cui furono sottoposti, anche dopo il 1945 e dunque senza più ragioni militari e/o politiche: gli studi e le ricerche sulle foibe ne costituiscono esempio e prova. Un riconoscimento tempestivo ed adeguato, senza escludere il giudizio di riserva sulle scelte fatte da questa parte degli Italiani, avrebbe forse contribuito al recupero dell’unità della nazione attorno ai valori democratici espressi dalla carta costituzionale ed una più incisiva conoscenza della stessa. Purtroppo questo riconoscimento è stato contestuale ad un attacco ai riferimenti fondativi della nostra democrazia, all’omologazione dei giudizi, al populismo più sfacciato ed alla banalizzazione della politica. Forse troppo tardi, certo fuori luogo.
Agostino Pietrasanta

domenica 16 dicembre 2007

Buon Natale!

Concludo la pubblicazione delle "omelie" richiestemi da Adista con quella per Natale. La offro come meditazione per un Natale alternativo rispetto a quello offerto dal contesto e come augurio ai miei pochi affezionati lettori!

È difficile la festa di Natale! Si dibatte ormai tra la retorica del consumismo, la retorica del buonismo, la retorica delle frasi fatte religiose, la retorica non del sentimento ma dei sentimentalismi, la retorica di una gioia a comando che spesso è solo nostalgia della gioia che avevamo da bambini di fronte al differenziarsi del Natale da ogni altro giorno…
Eppure resta vero ciò che scrive San Leone Magno: «Non c'è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e porta la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità: la causa della gioia è comune a tutti. Esulti il santo, perché si avvicina il premio; gioisca il peccatore, perché gli è offerto il perdono; riprenda coraggio il pagano, perché è chiamato alla vita». Forse ragioni di gioia le possiamo trovare proprio nella meditazione di ciò che è quel bambino: il Figlio di Dio che “si fa carne”! Forse ragioni di gioia le possiamo trovare nella valutazione del contesto in cui questo evento inaudito e impensabile da mente umana avviene.
Da alcuni anni cerco di aiutare questa comprensione per la mia comunità realizzando il presepio in una forma non originale ma espressiva: l’altare della mia chiesa diventa la grotta di Betlemme dove trovano posto i protagonisti del fatto, Maria, Giuseppe, il Bambino, l’asino e il bue; davanti all’altare, sui gradini che scendono verso la navata trovano posto i pastori prima e i magi poi; ma dai gradini il presepio deborda nella navata stessa, come per abbracciare e includere in sé tutti coloro che sono venuti magari convinti di festeggiare un compleanno, o perché richiamati da nostalgie di infanzia, o perché, segnati dalla vita, provano anche questa possibilità di un eventuale momento di serenità. Ma ciò che voglio aiutare a capire con questo semplice strumento è la sostanza del Natale: il Figlio di Dio si è fatto carne, si è fatto uomo, ha amato la vita dell’uomo, oserei dire che ha “invidiato” la nostra vita, tanto da volerla condividere; ma si è fatto carne nel “verso” della storia dell’uomo, non nel “dritto”! Come quando contempliamo un arazzo: è solo il confuso, caotico, apparentemente irrazionale e brutto a vedersi intreccio di fili del “verso” che dà corpo alla bellezza, alla nitidezza, alla gioia di guardare finalmente il “dritto”. Così è per il presepio, o meglio per l’evento rappresentato dal presepio: una festa che include, una festa che abbraccia tutti quale che sia la condizione di vita di ognuno.

Del resto, consideriamo il contesto: una grotta, ricovero di animali domestici. Poesia? No, puzza! I protagonisti: Maria, una ragazza madre che avrà indubbiamente dato molto da parlare alle pettegole e ai benpensanti di Nazareth; Giuseppe, un giovane padre che non riesce a fornire alla sua sposa che sta per partorire niente di meglio di una stalla; i pastori, reietti, emarginati, gente esclusa dai rapporti sociali e religiosi perché di poca onestà, sempre pronti ad approfittare delle proprietà altrui per mantenere in vita in quell’arida terra la loro unica ricchezza, il gregge; di più, assolutamente improponibili e impresentabili perché di indubbia immoralità, data la loro convivenza con il loro gregge! E poi un bambino, in una mangiatoia, un bambino segno di fragilità, di debolezza, di povertà, di dipendenza totale: è proprio il rovesciamento della logica umana per la quale contano la ricchezza, il potere, gli onori, l’autorità… è un fatto che sconvolge il nostro comune modo di pensare, anche religioso! Perché il farsi carne di Dio in questo modo dà fiato e speranza ai poveri della terra, ai derelitti, a quelli che non contano, agli esclusi, ai reprobi, ai moralmente impresentabili. Ecco, a Natale tutti sono inclusi, tutti hanno il diritto di esserci, tutti hanno diritto a un pezzo di pane e di speranza e di accoglienza, tutti sono a diritto nel presepio: il tossico e la prostituta, chi ha perso fiducia, chi è in carcere o è uscito per l’indulto ed è guardato come se anche di questo fosse colpevole, chi prende continuamente porte in faccia o è messo da parte, le coppie “regolari” e le coppie “di fatto”, l’omosessuale che si sente discriminato ed emarginato e guardato con sospetto e l’eterosessuale che cerca faticosamente di imparare ad amare, magari sbagliando i percorsi, lo straniero, come i magi, con la loro religiosità aperta alla ricerca, i credenti non sazi e sicuri nei loro “punti fermi”, ma sempre in cammino un po’ a tentoni, i mal credenti con l’insoddisfazione per i vuoti che trovano in sé, gli atei non “devoti” al loro clericalismo ma perché atei più per disperazione che per convinzione, poiché la loro onesta ricerca è finita in “sentieri interrotti”… Tutti possono tornare a casa lasciando risuonare la parola più bella che risuona a Natale: «Non temete!». «Come Cristo da ricco che era si fece povero, così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria della terra, bensì per diffondere anche col suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione: essa riconosce nei poveri l'immagine del suo Fondatore» (Lumen Gentium, 8). E dunque, buon Natale ai poveri, agli ultimi, agli sconfitti. Per noi, è nato un Salvatore: Dio abita la nostra debole umanità. E non è assente per nessuno.

IV domenica di Avvento

Due protagonisti, Giuseppe e Maria, ma in realtà uno solo: Dio, che prepara un evento di salvezza. Un evento che matura nella sofferenza umana e psicologica di due persone, come spesso avviene per i progetti di Dio. Due persone, un uomo “giusto”, una donna povera, che vivono un dramma personale. Come sempre nella storia della salvezza Dio si manifesta attraverso strumenti poveri, strumenti deboli; si manifesta attraverso la collaborazione dei “piccoli”. Mi colpisce il fatto che en-trambi, Giuseppe e Maria, sono “interpreti” silenziosi, né l’uno né l’altra dicono una parola. Un fatto che darà agio a zelanti predicatori di addebitare loro ogni interpretazione, ogni stato d’animo, ogni psicologismo… e darà modo di esaltare la loro esemplare “obbedienza” così attuale in un tempo in cui in ogni campo in cui si svolge la nostra vita tutti cercano il nostro “obbediente silenzio”: silenzio nella vita ecclesiale, silenzio nella vita politica, silenzio a riguardo delle scelte economiche, silenzio a riguardo della giustizia, silenzio a riguardo della verità che non va cercata attraverso domande, dubbi, indagini, verità parziali, ma deve essere tacitamente accolta così come ti viene data da chi “la possiede” come un dato.
Una prima sottolineatura: la via della sofferenza ci è spesso indicata dalla Scrittura come il nostro modo tipico di collaborare con Dio nella realizzazione del suo progetto di salvezza; forse questo pensiero può dare sostegno e forza ai molti che vivono con sofferenza spirituale questo tratto di sto-ria sociale ed ecclesiale.
Una seconda sottolineatura: il silenzio, oggi per noi, è ancora una virtù? È di fronte a Dio e al dipa-narsi dei suoi misteriosi eventi che Maria e Giuseppe tacciono, non dicono una parola, sembrano come in ombra; ma è per non occupare il posto centrale. La loro posizione è relativa all’Emmanuele, condividendone la situazione e il destino, il rifiuto e l'accoglienza. Sono obbedienti, non protagonisti, ma neppure sono timidi e passivi strumenti nelle mani di un Altro: in realtà sono collaboratori, cooperatori, in qualche misura corresponsabili dell’Evento. In un mondo, sociale ed ecclesiale, di arroganti, di giudici severi degli altri ma arrendevoli, miti e lassisti con se stessi, in un mondo dove la verità è “posseduta” ed usata come clava, in un mondo dove tanti urlano per non far sentire il nulla che hanno da dire, il silenzio è proprio una virtù? Diceva il card. Martini in un me-morabile discorso del 1995, citando S. Ambrogio: «C'è un tempo adatto per tutto: un tempo per ta-cere e un tempo per parlare. Devi tacere quando non trovi un interlocutore disponibile; devi parlare quando il Signore ti concede una lingua sapiente, così da rendere efficace il tuo discorso nel cuore dei tuoi ascoltatori» (Explanatio Psalmi XLIII, 72); e continua: «È necessario, da una parte, prendere atto che non è dato oggi di perseguire l'obiettivo di cristianizzazione della società con strumenti forti del potere; dall'altra, preservare con la massima cura e quasi gelosia la differenza e la peculiarità della Parola cristiana rispetto alle parole correnti, sapendo che proprio così la Parola sarà efficace anche per la salvaguardia e la promozione dell'ethos pubblico di una nazione». Ottima meditazione è comunque tutto il discorso, di cui suggerisco la meditazione (http://www.chiesadimilano.it) per dare il giusto valore spirituale al “silenzio”, senza farne un alibi alla propria pavidità ed al proprio opportunismo e senza delegare ad altri la parola. Viviamo in un tempo in cui si parla molto (forse troppo) della Chiesa e la Chiesa parla molto (forse troppo) di sé stessa, a volte con l’obiettivo di una “cristianizzazione della società con gli strumenti forti del pote-re”; e dunque, proprio per preservare con la “massima cura e gelosia la differenza e la peculiarità della Parola cristiana rispetto alle parole correnti”, oggi il silenzio non è più una virtù! È necessario parlare, è necessario ridare primato a Dio, all’evangelizzazione, all’imprevedibilità delle strade in-dicate dalla Parola, come era imprevedibile e “diverso” dai calcoli umani il “futuro, l’Avvento pro-gettato da Dio per Maria e Giuseppe. Il futuro pensato da Dio non è mai in continuità con il presente dell’uomo. I suoi progetti richiedono strappi, rotture, dialettica. La fede in Lui richiede disponibilità ad uscire dallo status quo rassicurante. Il cristiano e la Chiesa non possono trincerarsi nel chiuso della propria sicurezza dottrinale e nella “mummia” di una “tradizione” malintesa per proteggere la propria identità ed un ruolo, un peso morale ed un rilievo sociali che offrono sicurezza, prestigio e privilegi. Giuseppe, per obbedire all’imprevedibilità di Dio, ribalta un progetto di vita familiare probabilmente già articolato nei dettagli pensati e sognati; Maria per la stessa imprevedibilità sa rischiare la solitudine, l'abbandono, e sa prestare il corpo e la mente perché siano luogo d'innesto di un futuro sognato da Dio. Ma il sogno di Dio era “farsi uomo” e rimanere fra gli uomini. Come entrare noi pure nel “sogno di Dio”? Non ponendoci mai lontano dagli uomini né fuori dal mondo, ma vivendo nel concreto una totale disponibilità ad aiutare questo mondo e questa umanità che Dio ama, amando le diversità e l’imprevedibilità del futuro che Dio pazientemente costruisce.

martedì 11 dicembre 2007

L'era della violenza

(pubblicato su Appunti alessandrini, n. 3)

Chi persiste nel rischiare quotidianamente la depressione e si informa, ha la sensazione di vivere oggi in un mondo estremamente violento. Non solo nel ricco, sazio e assediato Occidente: è tutto il villaggio umano che è intriso di violenza. Ci bruciano ancora le immagini dei funerali del Maresciallo Daniele Paladini di Novi Ligure, morto da poco in un attentato nei pressi di Kabul, in Afganistan. Ogni giorno è una litania: periodici omicidi di o tra giovani bene, normali; orribili delitti familiari; episodi cosiddetti di “bullismo” a scuola, ma che manifestano in realtà un'aggressività che sconfina nel crimine; la densa e caliginosa nebbia del “terrorismo” che ricopre ogni angolo del mondo; l’uccisione di un tifoso che scatena la reazione violenta di facinorosi e teppisti, degenerazione dei movimenti del tifosi del calcio italiano, ma solo ultimo di un lungo elenco di episodi di teppismo e delinquenza legati al calcio, tanto che frequentemente cronaca sportiva e cronaca nera sono tutt’uno; non fanno più cronaca, se non c’è un esito cruento o non c’è la responsabilità di uno “straniero”, i casi quotidiani di violenza sessuale; si compone così un enorme mosaico di violenza fisica e di violenza psicologica. Nonostante l’alto livello di civilizzazione e di sicurezza personale e sociale (altre epoche hanno conosciuto violenze più efferate e più frequenti e mai il mondo è stato così sicuro come adesso), ci sentiamo insicuri e minacciati, la parola ricorrente è insicurezza, paura. Come spiegare la violenza che domina e avvelena tutta la società? È indubbio lo scarso valore dato alla vita dell'uomo da quella concezione che vede l'uomo, padrone del mondo, al centro dell'universo, capace di disporre la realtà esterna a proprio piacimento; la nostra cultura ha fatto crescere nel suo seno l’assioma di Protagora: «L’uomo è la misura di tutte le cose», ritenendo erroneamente che questa potesse essere la radice di un autentico Umanesimo. Questa concezione ha portato gli uomini a centrarsi su se stessi, a ripiegarsi solo sulla propria vita e sul proprio modello di società, sul proprio personale benessere; ha spinto ad agire per ribaltare tutto quanto la società aveva costruito nell'ambito della morale, del diritto, delle regole di condotta in genere. Il bisogno di uscire fuori dai parametri sociali comuni, di evadere a qualunque costo, ha portato all'uso della droga, alla violenza come mezzo di evasione e di ribellione ai quadri sociali esistenti, alla necessità del facile guadagno, al disprezzo per la vita. Questo clima ha arrecato un affievolimento anche dei vincoli familiari, alla violenza contro tutti e contro se stessi. Di più la fine delle ideologie, l'indebolimento delle fedi religiose, la secolarizzazione, fanno sì che ci sentiamo piuttosto disorientati nei confronti delle norme e dei valori. Tutti finiamo per orientarci ad un edonismo spicciolo, ad una ricerca ossessiva del piacere e del divertimento immediati, ai soldi, alla carriera, al potere: ma è l’esito ovvio di una società che presenta come modelli di “uomo riuscito” quelli che sommano in sé e mostrano e incarnano questi versanti della vita che non oso chiamare “valori”. «Se Dio non esiste, tutto è permesso» diceva Dostoevskij. Così tendiamo a rimuovere, con un'aggressività che a volte sconfina nel crimine, ogni ostacolo che si frappone alla realizzazione del nostro desiderio. A ciò aggiungiamo il fatto di vivere in società sempre più solitarie ed anonime, di essere soggetti ad un potere sempre più impersonale che ci fa sentire inermi e impotenti, il potere economico ci rende un’entità insignificante nella grande equazione dell'economia mondiale: basta un niente, una crisi passeggera, e di colpo molti sono estromessi, reietti, perdenti, emarginati, precari. Il dio-Mercato è il moloch che educa alla violenza e il vero nome dell’insicurezza è Precarietà; arginare e ridurre le ingiustizie e le ineguaglianze sociali, mitigare le situazioni di sofferenza e povertà è dare sicurezza, eliminare le radici della violenza. Non da oggi diciamo che proporre la sola guerra come soluzione dei problemi di larga fetta dell’umanità, è terreno di cultura per nuova e più aspra violenza e che spesso quelli che onoriamo come eroi sono in realtà essi stessi vittime delle facili e ottuse scelte di guide grandi solo nella loro miopia; non da oggi diciamo che costruire le proprie fortune politiche (o le proprie “fortune”) creando e costruendo mediaticamente un “nemico” da combattere e abbattere ad ogni costo, ha un terribile impatto educativo sulla società; non da oggi diciamo che la “caccia all’untore” in cui è stato trasformato il gigantesco e ineliminabile fenomeno migratorio non può che far crescere il razzismo e insieme la fiducia nella violenza e nella forza bruta: ne sono testimoni i muri delle nostre civilissime città, testimoni non muti di una follia già conosciuta nella storia! La peste della violenza la portiamo dentro di noi, non sta nei lavavetri, nei rom, nei rumeni, nei tossici, nelle prostitute, nei magrebini, nei musulmani, in chi non ha casa né lavoro né pane né dignità riconosciuta. Giorgio Bocca diceva che questo desiderio di pena di morte, di chiusura delle frontiere, oggi di deportazione in massa degli stranieri, di fiducia cieca nella forza, questo trasformare la solidarietà in buonismo da deridere, è “voglia di fascismo”. La rinuncia a pensare, a capire, l’affidarsi ad una cultura fatta di slogans, la scelta della menzogna come principio di azione politica, il rinascente culto della personalità, il bisogno e poi il servile ossequio di un capo, mi fanno pensare che forse non ha torto… dwf

III domenica di Avvento

Come si fa ad avere un cuore paziente nel tempo dell’attesa? Fatichiamo a vivere questa attesa come una mamma attende la nascita del suo bambino. Fatichiamo a vivere questo nostro travagliato tempo di “crisi” come una “crisi” di crescita e non di agonia. Non possiamo non interrogarci: «Ho visto giusto? Ho scelto bene? Non ho preso un abbaglio? Le mie ansie, i miei disagi, le mie rabbie non sono forse mancanza di fede? Il sentire la difficoltà di essere “cattolico”, oltre al peso delle fragilità e del peccato, non scuotono nel profondo la mia fede?». Comprendo i dubbi di Giovanni Battista: è in carcere, sa di rischiare la testa per la rabbia di una concubina e per l’ipocrisia di un potente che non accetta la denuncia della sua ipocrisia, ha vissuto tutta la sua aspra e faticosa vita per preparare la strada al Messia… come non essere perplesso e dubbioso? Il Messia non ha i suoi toni, non tuona contro la nequizia dei tempi, non attacca frontalmente i nemici della Legge di Dio e coloro che lo hanno imprigionato, parla con toni forti ma con tenerezza verso la debolezza umana, parla di perdono dei peccati, di amore verso i nemici, di perdono sic et simpliciter, non minaccia vendette, rivalse, e se vuol accendere un fuoco non è per incenerire qualcuno e per spaventare, ma vuol accendere il fuoco dell’amore… Gesù, invece, propone un perdono incondizionato, rimette le colpe, non minaccia né attua vendetta, dice che quel fuoco lo vuole accendere, certo, ma a partire dall'amore, non certo dal timore. Troppo diverso questo Messia dal Messia atteso da Giovanni e da Israele, troppo diverso. Invece di bruciare la pula e ripulire l’aia fa del bene, risana corpi e cuori, proferisce non condanne ma beatitudini, frequenta dubbi personaggi che dovrebbe invece minacciare e condannare.
Il mondo è carico di ambiguità, il pensiero diffuso è “debole” e segnato dal relativismo e dal “cancro del soggettivismo”, abbiamo bisogno di “punti fermi”, di verità assolute. Allora ha ragione la Chiesa nelle sue gerarchie, nella sua secolare forma istituzionale a incarnare i toni, talvolta aspri e acidi, di Giovanni Battista, per separare chiaramente il grano dalla pula, per stabilire che chi non è con noi è contro di noi, per individuare e segnalare i “nemici della Chiesa” che, indubitabilmente, sono anche “nemici di Dio”… Come facciamo a non sentire falsi i toni di questa liturgia: “Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino”, quando non la gioia prevale, ma il dubbio, l’incertezza, la depressione? «Guarda i segni della presenza di Dio, scruta la storia e la vita con la pazienza dell’agricoltore e sappi cogliere i segni della salvezza!» è la risposta. Gesù non rimanda al Tempio, ai sacerdoti, ai proclami morali e moralistici, ai solidi “punti fermi” della Dottrina e della Tradizione, ma invita a guardare ai “fatti”, ai “fatti di Vangelo”, non alle strategie missionarie e al prestigio delle istituzioni religiose, perché il Vangelo accetta e vuole essere messo alla prova dei fatti! Non in sacrestia dobbiamo cercare i segni, non nel personale addetto al culto: “Andate a cercare i segni tra i ciechi, i sordi, gli zoppi, i muti; documentatevi presso gli stranieri, i Rom e i magrebini, presso i poveri, presso chi ama la giustizia e pratica la solidarietà autentica, perché è lì che troverete. Lì dove qualcuno opera per liberare l’uomo, che sente suo fratello, dai mali inveterati, dove versa “olio e vino” sulle ferite fisiche o interiori di un essere umano, dove qualcuno si accosta a sollevare un altro da situazioni di abbattimento, di sconforto, di sofferenza acuta (magari provocata da scelte indubbiamente sbagliate), dove qualcuno fa rifiorire nell’esistenza e sperimentare nonostante tutto la gioia di essere amato. Leggete questi segni dove scorgete segni di gratuità (siano essi di credenti, di mal credenti o di non credenti), dove vedete gente che si consuma nel dono di sé e nella speranza di un futuro per l’uomo, squarci di fraternità in un mondo di solitudini e di egoismi. Non cercate i segni della presenza del Regno nei convegni, nei documenti, nelle parole anche solenni ed altisonanti, ma nella Parola che ti aiuta a discernere gli scarni segni del Regno in tanti che non perdono tempo a proclamarsi cristiani, ma vivono da cristiani, magari convinti di non esserlo! Non cerchiamo conferme e speranza nei gesti eclatanti: ci sono dei "miracoli" che si rifanno alla carità, all'amore, al servizio dei fratelli che tutti possono compiere ogni giorno, ogni attimo della nostra vita. Questi segni parlano da soli e diventano segni di credibilità, di speranza, di gioia, di autenticità. La Parola ci farà pure comprendere che non è nella logica del successo che troviamo conferme, ma nel segno più grande dell’amore di Dio e del suo Regno che viene: la croce di Cristo che ha l’apparenza di un radicale fallimento!

mercoledì 5 dicembre 2007

II domenica di Avvento

Insoddisfazione, disagio, crisi, insofferenza, bisogni insaziati, desiderio di cambiamento: sono concetti che ricorrono nelle odierne pagine bibliche che prospettano pure due linee di cammino della storia. La linea della “speranza”: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse» (Isaia); la linea del castigo, divino o umano che sia: «Già la scure è posta alla radice degli alberi» (Giovanni Battista). Riecheggia la similitudine con l’attuale situazione storica, ma i Grillo non sono né Isaia né Giovanni Battista!
I due profeti affrontano una situazione di grave crisi, l’insoddisfazione per lo stato attuale delle cose; si fanno voce di una schiera di malcontenti e di insofferenti, di tanti che non capiscono il fatto che Dio permetta un tale degrado; stigmatizzano che la proclamazione dei valori e della legalità servano solo a tacitare o a manipolare il giudizio degli uomini. Ma i due profeti non invitano all’antipolitica o alla restaurazione: invitano alla conversione! In realtà né l’uno né l’altro sono profeti di restaurazione, di minacce, di sventure; non ci consegnano a pseudo-profezie o a pseudo-profeti incarnati di volta in volta da qualche leader politico, da qualche sovrano, da qualche leader religioso. Non avendo il coraggio di affrontare a viso aperto la nostra inautenticità, le nostre meschine invidie, i nostri bassi bisogni insaziati ci fa piacere che qualcuno si scagli contro gli anonimi (ma noi li identifichiamo bene!) «ipocriti e vipere», che diventano un’ottima copertura per le nostre falsità, soprattutto quelle religiose.
La parola forte e inquietante del Battista che invita alla conversione è una parola che si rivolge prima di tutto ai “devoti”, ai “praticanti” per convincerli che non basta essere praticanti ma “credenti”! e il “credente” autentico è uno che ha “una felice relazione con Dio”. La Chiesa stessa (tutta la Chiesa, nelle sue gerarchie e nel popolo di Dio) deve capire e far suo questo appello a “conversione”. Giovanni dirotta il fascino della sua persona e del suo annuncio verso il Cristo, perché è a lui che bisogna riferirsi e il riferimento a lui comporta il proprio mettersi in secondo piano al compimento dell’annuncio (dobbiamo aiutare le persone a giungere “sulla soglia di Dio” e poi, noi, scomparire) e diventa un punto di partenza per incarnare la sua Parola, che richiede fatica, impegno, rinuncia al quieto vivere, uscire dalle proprie appaganti sicurezze religiose (dai “punti fermi” rassicuranti), incontrare la vita perché in essa si scrivano righe di Vangelo, richiede anche uno schierarsi, perché il Verbo di Dio si è “fatto carne” nel “verso” della storia e non nel “dritto” dei benpensanti.
C’è bisogno di profeti, di uomini “normali” che sappiano parlare in nome di Dio, che sanno leggere il presente non da profeti di sventure, ma da uomini capaci di leggerlo alla luce della fede. Non basta ancorarsi alle tradizioni religiose o liturgiche («Abbiamo Abramo come padre!") o ad una “religione” e religiosità esteriori, di facciata, fatte di valori proclamati ma non incarnati («Fate frutti degni di conversione»). Il Figlio di Dio che nasce in una stalla richiede cambiamento, scelte di vita, esige che ci schieriamo, perché il regno di Dio è salvezza, giustizia, pace e riconciliazione per i poveri e gli oppressi. Celebrare l’Avvento significa sentirci responsabili verso il futuro, nostro e di ogni essere umano. Forse la storia non ha un senso, ma il nostro dare “carne” al Vangelo di Gesù, lottando per rendere giustizia, per proteggere i deboli contro i prepotenti, per fare pace con tutti, dirà che questo senso le verrà dato. dwf