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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

giovedì 27 ottobre 2011

Stato palestinese? IL DISCORSO DEL PRESIDENTE

di Walter Fiocchi - www.appuntialessandrini.wordpress.com

Un Presidente debole e indebolito che fa un coraggioso discorso all’Assemblea Generale dell’Onu; un Primo Ministro potente dal punto di vista economico e militare che fa un roboante e ipocrita discorso nella stessa sede; potremmo aggiungere il retorico e vergognoso discorso di Obama, con un unico orizzonte: quello dei calcoli elettoralistici. Avevamo sperato ben diversamente! L’unica positività mi pare stia nel discorso di Abu Mazen e nella sua richiesta al Consiglio di Sicurezza: il popolo palestinese chiede il riconoscimento di uno Stato sovrano e indipendente, a pieno titolo parte della comunità internazionale e delle sue istituzioni, e la totale applicazione della Risoluzione ONU del 4 giugno 1967.
Ora sono tre le soluzioni sottoposte sulle quali l’Assemblea generale dovrà pronunciarsi.
La prima è la possibilità di concedere alla Palestina uno status di “Osservatore permanente” come per la Santa Sede, che consentirebbe all’Autorità palestinese di partecipare alle decisioni – e ai fondi - delle agenzie Onu e di poter ricorrere alla Corte Internazionale dell’Aja per denunciare crimini e soprusi perpetrati da Israele. Per questa ipotesi si sono chiaramente schierati tra gli altri, la Francia e l’Italia.
La seconda consiste nella ferma e risoluta applicazione della Risoluzione Onu del 1967 che prevedeva la costituzione di due Stati sovrani definendone anche i confini territoriali, da allora ripetutamente violati dai coloni israeliani. Governi come Svezia, Portogallo, Belgio e Spagna non fanno mistero della loro predilezione di questa ipotesi.
Infine, sostenuta dagli Usa e dallo stesso Ban KiMoon, resta la terza via che prevede il ritorno al tavolo dei negoziati per trovare un “compromesso” tra le richieste di Israele e quelle dei palestinesi. A questa ultima ipotesi ha aderito David Cameron, premier inglese dando così l’ennesima dimostrazione della scarsa credibilità politica della Unione Europea.
Per la prima volta, e non era scontato, Abu Mazen ha avuto il coraggio di dire tutto in faccia al mondo. Non ha eluso, come ha sempre fatto, le questioni fondamentali: il diritto al ritorno dei rifugiati, la colonizzazione razzista, selvaggia e violenta della Cisgiordania, il destino di Gerusalemme est e l’occupazione militare dei territori palestinesi. Ha dichiarato che
“l’occupazione è in corsa contro il tempo per ridisegnare i confini del nostro territorio e imporre un fatto compiuto sul terreno che mina il potenziale realistico per l’esistenza dello stato di Palestina”. Ha denunciato con forza la violenza dei coloni in Cisgiordania, le incursioni, le limitazioni, gli arresti e gli assassinii che l’esercito compie anche nelle aree formalmente sotto il controllo dell’Autorità palestinese, oltre che in quelle che Israele gestisce direttamente (nei Territori
occupati). Non si torna al tavolo dei negoziati sino a quando il Governo di Tel Aviv non avrà messo fine all’occupazione “colonialista e militare” perpetrata dai coloni; non eliminerà il muro costruito sui confini dei due Stati; non rilascerà i prigionieri politici detenuti nelle sue carceri; non riconoscerà i pieni diritti dei rifugiati palestinesi dentro lo Stato israeliano;
non accetterà la sovranità dello Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est.
L’unica strada percorribile penso sia quella di tener duro sulla linea del riconoscimento internazionale, perché ogni trattativa diretta con gli israeliani non ha prodotto né una sola strada in più, né un goccio d’acqua in più, non un prigioniero libero, nessuna libertà di movimento e nessuna sicurezza per i Palestinesi. Mahmud Abbas (Abu Mazen) si è intestardito nella ricerca di trattative dirette, ma è ormai chiaro anche a lui che gli israeliani hanno lavorato per indebolirlo sempre di più e convincendolo a fare per essi il “lavoro sporco”: spesso è la sicurezza palestinese che esegue gli arresti e le retate dei militanti (non armati!) in nome e per conto di Israele! Il tema dei rifugiati (ormai 5 milioni) è stato toccato, ma
molti Palestinesi ritengono che l’eventuale riconoscimento sui confini del 1967 cancellerebbero il diritto al ritorno e arduo sarebbe trovare un compromesso accettabile.
Mahmoud Abbas ha fatto un discorso brillante, ma ora deve costruire un accordo di riconciliazione tra le diverse fazioni politiche e creare un Consiglio Nazionale realmente rappresentativo di tutte le anime politiche. Deve promuovere senza ambiguità e riserve la resistenza nonviolenta popolare con la forza della convinzione e non con la forza della polizia.
E Israele? Il discorso di Netanyahu ha solo confermato la sua pochezza.
L’editorialista di Ha’aretz, Ari Shavit, noto per il suo incondizionato supporto al governo quando è attaccato da Paesi esteri, sembra spaventato dalla cecità di Netanyahu e del suo team: “Sotto la leadership di un premier testardo e di un ministro degli Esteri irresponsabile, la politica di sicurezza nazionale sta cadendo a pezzi.” Il governo israeliano si ostina in una doppia negazione: la negazione della “primavera araba”, che modifica e modificherà tutti i rapporti nella regione
e i rapporti internazionali, e la negazione degli effetti regionali e internazionali dell’Operazione Piombo Fuso, il massacro orchestrato dall’ esercito israeliano a Gaza tra il 2008 e il 2009. Scrive il giornalista di Ha’aretz, Gideon Levy: “Israele sta ora mangiando i frutti amari di Piombo Fuso che è stata la più importante svolta nelle relazioni con il mondo e con la
regione a causa di una politica brutale e violenta. Il risultato è che i soli due Paesi che l’hanno sempre accettata, Turchia ed Egitto, stanno ora bruciando le loro relazioni con Israele".

La morte di Fernando Charrier. Il vescovo del lavoro e della pace

Da http://www.adistaonline.it/index.php

«Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno», diceva il Vangelo di domenica scorsa. Non ho potuto fare a meno di ricordare proprio sotto questo aspetto il Vescovo Fernando Charrier che ha concluso il suo itinerario terreno la mattina del 7 ottobre. Mi pare davvero una delle “cifre” di lettura del ministero e del magistero di mons. Charrier, prima e durante l’episcopato. “Addio al vescovo del lavoro Charrier, il coraggio della sfida ai potenti” titolava un giornale. Forse non era per lui importante il coraggio della “sfida”, ma il coraggio della parresia, della franchezza, il coraggio della verità, il coraggio di parlare senza sottintesi né calcoli opportunistici, con il linguaggio della profezia e non con quello della diplomazia, senza tener conto dei moti­vi di opportunità, delle convenienze, degli interessi, degli equilibri, dei giochi politici e degli interessi “ecclesiastici”. L’unico interesse di Gesù è il bene dell’uomo. E quando l’unico interesse è il bene dell’uomo si può annunziare la via di Dio secondo la verità. E chi mette il bene dell’uomo al centro del suo interesse annunzia la via del Vangelo secondo verità; perché questo era il senso del “Vangelo sociale” come lo leggeva Mons. Charrier; “prima di tutto l’uomo”, il bene dell’uomo, perché se non si parte di qui, se pure pensassimo di mettere al centro “l’interesse di Dio”, rischieremmo di annunciare quelle che sono espressioni del proprio potere religioso o politico, della propria sete di prestigio, della ricerca del proprio interesse, personale o di gruppo.
Per Charrier era indispensabile, come Vescovo, immedesimarsi nell’azione amorevole di Dio; lieto annunzio ai poveri, proclamazione di liberazione per i prigionieri, messa in libertà degli oppressi, promulgazione dell’anno di misericordia. Il servizio episcopale esigeva per lui un cuore dilatato dall’amore per tutti coloro ai quali era stato mandato, credenti, non credenti, mal credenti, cercatori comunque di Dio anche se e quando non se ne rendevano conto... Questo “primato dell’uomo” faceva sì che fosse in lui radicata la tolleranza, il rispetto di tutte le idee: proponeva la sua, ma ascoltava e onorava quelle degli altri, con deferenza, con amicizia, con una sensibilità che lo portava a non imporsi mai, a vivere le vicende degli altri con partecipata amicizia e talora con angosciata condivisione. Il rispetto dei valori creduti da altri, anche quando lo lasciavano pensoso e perplesso, ne facevano un uomo ed un pastore libero; e in questa prospettiva di libertà si radicava la sua scelta sincera di rispetto dei laici e delle loro libere opzioni in politica. Radicalmente convinto che in ordine ai problemi della politica i laici dovessero ascoltare dai pastori i principi, ma dovessero affrontare la presenza nelle istituzioni con la fatica, l’intelligenza, l’impegno della loro autonomia. Ricordo gli anni della crisi politica seguita a “mani pulite”, la crisi dei partiti, la crisi e la morte della stessa Democrazia Cristiana, il partito dei cattolici e non come qualcuno pensava e/o sogna ancora oggi “il partito cattolico”: questo sì di parte, settario, integralista e integrista, dato che “partito” e “cattolico” sono due termini inconciliabili, se è vero che “cattolico” significa “universale”, per tutti, a favore di tutti, “dalla parte dell’Uomo” ancora una volta. In quel versante ripeteva spesso: «Mi importa poco che finisca l’esperienza del “partito dei cattolici”, forse un periodo storico semplicemente si conclude. Quello che mi preoccupa e mi opprime è che vada piuttosto dispersa l’esperienza politica dei cattolici, il loro impegno nella Politica (“forma alta della Carità cristiana”, come si esprimeva Paolo VI), l’esperienza e il ricco patrimonio culturale e di vita del “cattolicesimo democratico”».
I drammi del mondo lo angosciavano; l’orrore della guerra lo segnava quasi visibilmente in una tristezza intrisa di umana sofferenza; quando quasi tutti in occasione della “guerra del Golfo” prendevano le distanze dalla posizione profetica di Giovanni Paolo II, e i più nella Chiesa usavano il cauto linguaggio della diplomazia, volle che il settimanale diocesano aprisse a tutta pagina con un titolo e un editoriale che suonava: “Noi stiamo con il Papa!”, e non fu apprezzato... Le iniziative per la pace, le marce per la pace di capodanno, volevano essere una testimonianza ecumenica, un segno di attenzione alle sofferenze degli uomini, senza discriminazione alcuna né verso credenti di altre fedi, né verso i non credenti o, come diceva, coloro che ”non ritengono di condividere la mia fede”... Come quasi nessun apprezzamento riscosse il suo chiaro e franco intervento, condiviso con Mons. Valentinetti allora Presidente di Pax Christi: «Desideriamo riaffermare, come comunità cristiana, la necessità di opporsi alla produzione e alla commercializzazione di strumenti concepiti per la guerra. Ci riferiamo, in particolare, alla problematica sorta recentemente sul nostro territorio piemontese relativa all’avvio dell’assemblaggio finale di velivoli da combattimento da effettuarsi nel sito aeronautico di Cameri (Novara)... Abbiamo, la speranza che si arrivi ad un ripensamento». Insorse allora il mondo politico, quello imprenditoriale e sindacale, e anche, purtroppo, quello ecclesiale o, meglio, “ecclesiastico”, forse affrettando il suo “pensionamento”; mentre fu evidente una certa “afasia” all’altro estensore della presa di posizione, Mons. Valentinetti...
“Vescovo sociale”, lo chiamò papa Woitiła durante un’udienza: definizione che per molti volle invece significare “Vescovo di parte”! Ma sì, era di parte! Come lo è il Vangelo, come lo era quello che lui chiamava “il mio Maestro”: nato tra gli ultimi, tra gli emarginati, straniero seppur in patria, nato “nel verso della storia”; vissuto camminando tra gli ultimi, frequentando “mele marce”, amico degli “scomunicati” del suo mondo religioso e politico; morto come l’ultimo degli ultimi, con il supplizio della “feccia dell’umanità”. Tutto per l’uomo, dalla parte dell’uomo, “prima di tutto l’Uomo” era un suo slogan, che voleva però tradurre in scelte, anche della sua Chiesa, senza farla diventare “crocerossina dell’umanità”, ma “Chiesa del grembiule”, Chiesa che “lava i piedi”, Chiesa che non ha paura di macchiarsi gli abiti di sangue soccorrendo l’uomo ferito sulla strada da Gerusalemme a Gerico rendendosi “impura” per il culto, Chiesa che sa sporcarsi camminando nel fango dell’alluvione, Chiesa che ha il coraggio di prendere posizione a favore dell’accoglienza, del rispetto di ogni fede religiosa, della pace, della giustizia... Come Gesù: dalla parte dell’uomo, pena l’insignificanza e la vacuità di una Chiesa rinchiusa nel culto, nelle devozioni o nei devozionismi, nei cerimoniali che non trovano poi “incarnazione” nei fatti e nelle scelte.
Forse molti non se ne rendono conto, ma dagli anni ’70 ad oggi pagine preziose di lettura e di annuncio del “Vangelo sociale” (ma ne può esistere uno diversamente aggettivato?) sono state scritte attraverso e da Mons. Charrier, pagine importanti per la Chiesa e per la società italiane. Spero che questa eredità non vada perduta.
don Walter Fiocchi

UN VESCOVO SULLA STRADA DI GERICO - L’eredità di Mons. Charrier

Ancora un ricordo di Mons. Charrier. Su www.issuu.com/appuntialessandrini.

Credo che il destino degli uomini grandi sia quello di non essere capiti e accettati; e credo che ciò valga ancor più per un grande Vescovo.
Della grandezza di Mons. Charrier dice a sufficienza la sua biografia, per quanto scarne e scevre da ogni magniloquenza siano le biografie di cui disponiamo.
Per ciò che attiene al non essere capito e accettato lo dicono tanti episodi, tante prese di posizione, tanti ossequi formali e un po’ ipocriti che spesso sono stati la costante del suo ministero e del suo magistero. Nulla hanno a che fare con la “genetica” solitudine di un Vescovo, anche di un Vescovo che pure fa della sua vita una continua comunicazione, un continuo entrare in relazione vera e profonda con le persone che incontra, il tormento del dialogo con tutti, il “farsi tutto a tutti”... Molti, anche laici, senza un particolare rapporto con la vita ecclesiale, non hanno mancato di rilevare l’impressione che Mons. Charrier sia stato capito, stimato, ascoltato e apprezzato più al di fuori del cosiddetto “mondo cattolico” che nel suo ambiente “vitale”: in altre occasioni – lo confesso - con un po’ di cattiveria ho affermato che spesso il “mondo cattolico” sa più di “sottobosco cattolico”, un sottobosco dove l’altezza massima è quella dei cespugli e delle felci, che crescono e vegetano nell’umido e nell’ombra, ma in un orizzonte assai ristretto; solo le piante di alto fusto vedono lontano, vedono il complesso del bosco e, se piante di montagna vedono un vasto panorama.
In taluni ha prevalso l’ottusità personale o la malafede o l’inconsistenza culturale: costoro l’accusavano di essere “uomo di parte”, intendendo per parte una parte politica. Lui ribatteva: «Io credo nella democrazia; in questo versante della storia credo fermamente che la democrazia sia la “miglior forma di governo”»; del resto era un principio che praticava anche nel governo della Chiesa locale. L’evento sinodo (XVI Sinodo diocesano) ne fa testimonianza: con i fatti e con le scelte ci ha fatto comprendere che se l’ultima parola era del Vescovo, le decisioni maturavano nel dibattito, nel confronto, nella raccolta delle varie opinioni, nella sollecitazione di idee e suggerimenti. Richiamava la responsabilità di tutti: aveva ben chiaro il principio che “il Vescovo non ha l’insieme di tutti i carismi, ma il carisma dell’insieme”, e al di là dell’evento straordinario del Sinodo, questa esperienza hanno potuto fare coloro che hanno con lui collaborato nei vari Consigli diocesani. E in questo modo e in questa direzione agiva anche nei confronti delle Istituzioni civili e politiche: nella chiara e rigorosa distinzione dei ruoli, nella ricerca di dialogo, nella denuncia delle carenze, nell’offerta di cordiale collaborazione senza invasioni di campo né ricerca di privilegi. Ma sì, era di parte! Come lo è il Vangelo, come lo era quello che lui chiamava “il mio Maestro”: nato tra gli ultimi, tra gli emarginati, straniero seppur in patria, nato “nel verso della storia”; vissuto camminando tra gli ultimi, frequentando “mele marce”, amico degli “scomunicati” del suo mondo religioso e politico; morto come l’ultimo degli ultimi, con il supplizio della “feccia dell’umanità”. Tutto per l’uomo, dalla parte dell’uomo, “prima di tutto l’Uomo” era un suo slogan, che voleva però tradurre in scelte, anche della sua Chiesa, senza farla diventare “crocerossina dell’umanità”, ma “Chiesa del grembiule”, Chiesa che “lava i piedi”, Chiesa che non ha paura di macchiarsi gli abiti di sangue soccorrendo l’uomo ferito sulla strada da Gerusalemme a Gerico rendendosi “impura” per il culto, Chiesa che sa sporcarsi camminando nel fango dell’alluvione, Chiesa che ha il coraggio di prendere posizione a favore dell’accoglienza, del rispetto di ogni fede religiosa, della pace, della giustizia... Come Gesù: dalla parte dell’uomo, pena l’insignificanza e la vacuità di una Chiesa rinchiusa nel culto, nelle devozioni o nei devozionismi, nei cerimoniali che non trovano poi “incarnazione” nei fatti e nelle scelte.
Ricordo gli anni della crisi politica seguita a “mani pulite, la crisi dei partiti, la crisi e la morte della stessa Democrazia Cristiana, il partito dei cattolici e non come qualcuno pensava e/o sogna ancora oggi “il partito cattolico”: questo sì di parte, settario, integralista e integrista, dato che “partito” e “cattolico” sono due termini inconciliabili, se è vero che “cattolico” significa “universale”, per tutti, a favore di tutti, “dalla parte dell’Uomo” ancora una volta. In quel versante ripeteva spesso: «Mi importa poco che finisca l’esperienza del “partito dei cattolici”, forse un periodo storico semplicemente si conclude. Quello che mi preoccupa e mi opprime è che vada piuttosto dispersa l’esperienza politica dei cattolici, il loro impegno nella Politica (“forma alta della Carità cristiana”, come si esprimeva Paolo VI), l’esperienza e il ricco patrimonio culturale e di vita del “cattolicesimo democratico”». Posizione ben diversa e, credo, ancora di piena attualità, quando nella Chiesa risuonano altre e autorevoli voci che affermano: «Il “cattolicesimo democratico”? Quella è una “cosa” che deve morire!». Pochi anche su questo versante l’hanno compreso. Ancor meno hanno raccolto il messaggio. Pochissimi l’hanno seguito...
Ma ora inizia il tempo della “distillazione”, del discernimento. Ci ha lasciato un patrimonio enorme, in gran parte ancora inesplorato. Accettiamo la sua eredità. dwf

“IO VENERO IL VESCOVO CHE È IN ME”


La voce alessandrina 14 ottobre 2011

Eravamo agli inizi degli anni ’70; da poco ero in seminario a Venegono; erano tempi “caldi” dal punto di vista sociale ed ecclesiale, facendo seguito al Concilio, al ’68, e ai prodromi degli “anni di piombo”. Mi è rimasta sempre impressa nella mente e nel cuore una frase pronunciata, quasi gridata, nel Duomo di Milano gremitissimo per una celebrazione, dal Card. Giovanni Colombo, che disse: «Io venero il Vescovo che è in me!».
Poche settimane trascorse con Mons. Charrier dopo il suo ingresso in Diocesi, anzi potrei dire pochi giorni di collaborazione, e subito mi tornò in mente quella frase del Cardinale, che mi sembrava, e col tempo è diventata una certezza, ben si attagliasse per il Vescovo.
Io posso immaginare quel che avviene nell'intimo di qualcuno che è nominato Vescovo di una diocesi: il suo cuore si dilata a misura del compito ricevuto e la sua vita cambia. Quando il Papa chiama un sacerdote all’ordinazione episcopale si rinnova la chiamata di Gesù a uno di quegli uomini che poi divengono suoi apostoli. E la convinzione, la certezza, che i Vescovi succedono agli apostoli come pastori e hanno la missione di perpetuare l’opera di Cristo, divenne quasi un abito indossato da Mons. Charrier in ogni momento, un abito mai smesso, come invece smetteva celermente gli abiti solenni ed esteriori che il ruolo gli assegnava.
Nel “Vescovo che era in lui” non venerava tanto l’autorità, l’ufficio di governo che gli era stato assegnato; lo infastidiva il fatto che qualcuno in sua presenza ringraziasse le Autorità civili, politiche, militari e religiose! “Ma quale Autorità religiosa? Il Vescovo è servitore, non Autorità!”. Per lui il Vescovo era piuttosto pastore, colui che si prende cura di un gregge, uno chiamato a essere profeta come Isaia, a esserlo come Gesù che riferì a sé, nella sinagoga di Nazareth, le parole del libro: «Lo Spirito del Signore è su di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-29). “Predicare un anno di grazia”, cioè di misericordia, è la parola che Gesù pronuncia prima di chiudere il volume del profeta Isaia. Non aggiunge l’espressione più aspra: «Un giorno di vendetta per il nostro Dio» (cf Is 61,2). Per Mons. Charrier era indispensabile, come Vescovo, immedesimarsi nell’azione misericordiosa di Dio; lieto annunzio ai poveri, proclamazione di liberazione per i prigionieri, messa in libertà degli oppressi, promulgazione dell’anno di misericordia. Sentiva che l’opera di Dio nella sua missione consisteva nel rivelare la misericordia del Padre, nell’essere davanti agli uomini annuncio del perdono, della salvezza che vengono da Gesù Cristo, una salvezza che per il Vescovo Fernando era prima di tutto pienezza di umanità. Come Vescovo aveva in mano il bastone dei pastori del popolo di Dio e al dito un anello, segno dello sposalizio con la Chiesa alla quale era stato inviato; aveva ricevuto il Vangelo sulle spalle, il libro della Parola; nella potenza dello Spirito santo si sentiva mandato a tutto il mondo, per predicare il Vangelo di quell’amore manifestato nella passione e nella morte di Gesù. Il servizio episcopale esigeva per lui un cuore dilatato dall’amore per tutti coloro ai quali era stato mandato, credenti, non credenti, mal credenti, cercatori comunque di Dio anche quando non se ne rendevano conto...
Tante volte ha parlato del primato della carità, ma più che parole era per lui sentirsi immerso nel vortice di questo amore che aveva invaso la sua esistenza e che voleva diventare, a partire da lui, calore e fuoco che riscaldasse tutti coloro che incontrava. Era questo stesso amore che predicava quando parlava della sua famiglia, dalla sua comunità, del suo cammino vocazionale, iniziato entrando in Seminario, ma sviluppatosi poi lungo le strade su cui lo Spirito lo aveva condotto, nella sua Pinerolo prima, poi a Roma, poi nelle Acli, e nel mondo del lavoro, nel Movimento Operaio, alla Cei con la pastorale sociale e del lavoro, la giustizia e la pace. Era questo amore che vedeva presente nei suoi genitori, nella sua mamma, in coloro che lo amavano dentro e fuori i legami familiari. Un amore che sentiva come contestazione del mondo, delle sue incertezze, delle sue diffidenze, delle apostasie che minacciano ogni cammino quotidiano; vissuto non come “giudizio e rifiuto” del mondo, che amava con passione, ma come necessità di “andare controcorrente” per aiutare il mondo – gli uomini e le donne – a non percorrere “sentieri interrotti”, ma a realizzare un progetto di società alternativo, secondo il “sogno di Dio”. Essere Vescovo lo sentiva come necessità di donare un amore che è dono della vita.
Questo era “l’abito” che il Vescovo non smetteva mai di indossare: nell’ufficialità degli incontri e delle celebrazioni, nelle udienze in Vescovado come nelle visite pastorali, nei convegni, nelle conferenze, nelle infinite riunioni in Diocesi o a Roma, quando qualcuno gli strappava un sorriso o una aperta risata, come nei momenti di tristezza e dolore, nei momenti di svago, di incontro con qualche amico di una vita, ma anche nel privato del suo studio, della sua camera, della cucina del Vescovado (luogo di incontro, di chiacchierate libere, di affetti, di amicizia, di “casa di tutti”): sempre, anche nei lunghi viaggi, nel fare il punto delle cose con il suo segretario, nel momento della tavola condivisa con Elena... sempre emergeva questo sentirsi “portatore del Vescovo”. Non era né burbero, né severo (e ben lo sa chi avrebbe potuto aspettarsi dure reprimende o punizioni da lui), non serioso né freddo, come pure diceva di essere (fosse stato freddo non avrebbe sofferto per l’ulcera), non distaccato né mai indifferente: «Io venero il Vescovo che è in me!», da questo pensiero – mai espresso a parole – era abitato, sempre, in ogni momento pubblico o privato.
“Abito” che gli faceva dire parole che risuonavano tristi, ma che erano invece parole che rappresentavano l’essenza dell’inculturazione del messaggio cristiano nella società contemporanea, una società bisognosa di conforto, di speranza, di fraternità così insanguinata, com’era e com’è dalle contraddizioni e dall’odio. Parole profetiche in una Chiesa che dopo il Concilio sentiva ancora alla ricerca di un’identità. Parole sempre intrise di un umanesimo cristiano che anteponeva la centralità, la dignità e la libertà dell'uomo a quelli che talvolta sentiva come rigidi dogmi della Chiesa, stilati pure da uomini fragili e perfettibili (spesso diceva di fronte a certe situazioni: “Pazienza... questo è il lato umano della Chiesa...). Parole per far camminare la sua Chiesa sulle strade degli uomini proponendo essenzialmente il Vangelo come base di una vita buona, non ricette univoche, astratte dalla vita, pensate a tavolino e calate dall’alto, perché la vita buona, ne era profondamente convinto, nasce dal rispetto della libertà e dalle scelte adulte delle persone: “Dalla libertà e dalla volontà” era una sua frequente espressione.
«Vi ho amati e vi amerò sempre» abbiamo letto sul numero speciale di Voce. Qualcuno ha scritto, parlando di un carissimo amico di Mons. Charrier, Mons. Tonino Bello: «Vorrei dire a tutti, ad uno ad uno, guardandolo negli occhi: “Ti voglio bene”, così come, non potendo stringere la mano a ciascuno, però venendo vicino a voi così personalmente, vorrei dire: “Ti voglio bene”. Sono, queste, le ultime parole rivolte da un vescovo alla sua chiesa. Parole che hanno dato luce ad un cammino non sempre facile. “Ti voglio bene”: è l'espressione finale di un impegno personale (capace di annullare qualsiasi barriera convenzionale) mai esauritosi».
Un corpo fragile ma inesausto perché sempre, in ogni momento, doveva lasciar agire e parlare “il Vescovo che era in lui”.
dwf