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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

mercoledì 31 dicembre 2008

Hamas: tra servizi sociali, religione e terrorismo

Accanto ai due comunicati stampa sotto riportati e dopo aver trangugiato l'informazione radiotelevisiva, dominata dalla scandalosa parzialità di Claudio Pagliara (che questa mattina ha ricevuto in diretta su Rai Uno i complimenti per la straordinaria obiettività da quell'altro campione di coerenza che è Capezzone...!), ripropongo un articolo scritto un paio di anni fa, quando Hamas vinse le democratiche elezioni palestinesi, ma i democratici paesi dell'Occidente rifiutarono ogni rapporto di dialogo e collaborazione, accodandosi alla politica israeliana. Forse può aiutare a ridare un minimo di comprensione a ciò che accade, senza nascondere che una frangia di Hamas è a favore del terrorismo antisraeliano e della guerra totale (suicida); ma che il terreno di cultura della crescita dell'estremismo è stata propiro l'ottusa politica di chiusura e intransigenza e del governo israeliano e dei governi dell'Occidente, con a ragion del vero, un'unica eccezione (subito isolata) che è quella del nostro ex ministro degli Esteri, Massimo D'Alema.

Un nuovo spettro s’aggira per l’Occidente: la vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi. I commenti, più o meno inorriditi si sono sprecati; i proclami colmi di fermezza si sono inseguiti da una Cancelleria all’altra; i cordoni delle borse si sono chiusi; i “fini” diplomatici nostrani si sono armati di piccone abbandonando le sottigliezze da penne d’oca che la diplomazia ha sempre usato. Obtorto collo tutti hanno dovuto sussurrare che però è stata una vittoria della democrazia: tutti gli osservatori hanno riconosciuto la correttezza e la piena legalità del voto palestinese. Eppure erano suonate grosse campane nei mesi scorsi, non solo campanelli: nelle elezioni amministrative che si sono svolte nelle città palestinesi Hamas era già emerso come forza politica determinante; possibile che nessuno si sia accorto che addirittura a Betlemme (che come altre dieci città palestinesi – tra cui Ramallah – ha per diritto e per decreto dell’Autorità Palestinese il sindaco cristiano) anche un gran numero di cristiani ha votato per Hamas? Se l’avessero rilevato forse tutti avremmo capito che non basta una lettura giornalistica per decifrare la realtà di questa organizzazione così composita e complessa da non poter essere ridotta alla semplificazione “Hamas = terroristi”. Perché Hamas non è certo un’associazione di boy scout, ma organizza anche i boy scout; non è un’associazione culturale, ma organizza e gestisce buona parte delle attività culturali; non è un ente di beneficenza, ma distribuisce molti fondi in soccorso di emergenza e in beneficenza; non è un organismo religioso islamico, anche se ha una forte ispirazione religiosa; predica la jihad, ma solo nei confini della Palestina e contro un ben individuato nemico, lo Stato di Israele; non è un assessorato ai servizi sociali, ma organizza mense, ambulatori, scuola e doposcuola, associazioni e attività sportive nelle zone più disastrate, reperimento di alloggi a chi è senza tetto; non è un esercito, ma ha un certo numero di armati; non è un gruppo terroristico anche se ha organizzato attentati terroristici contro la popolazione israeliana… Di più, per Hamas vale l’equivalenza: Hamas sta ad Israele come Bin Laden (o Saddam Hussein) sta agli Stati Uniti; nel senso che negli anni ‘70 e ‘80 Hamas era ufficialmente registrato e riconosciuto in Israele; fu Begin, appena eletto Primo ministro per il Likud nel 1977, a dare l’assenso alla registrazione in Israele della “Associazione Islamica”, movimento collegato ai Fratelli Musulmani e fondato dalla sceicco cieco Ahmed Yassin, estremista religioso della striscia di Gaza. E sebbene Israele non abbia mai sostenuto direttamente Hamas, le permise di esistere per opporsi al movimento laico al-Fatah di Yasser Arafat. Il gruppo si astenne dalla politica du-rante gli anni ‘70 e i primi anni ‘80, concentrandosi su problemi morali e sociali come attacchi alla corruzione, l’amministrazione di fondazioni pie e organizzando progetti comunitari. Verso la metà degli anni ‘80, tuttavia, Ahmed Yassin cominciò a predicare la violenza immediata, e per questo motivo venne arrestato da Israele; fu rilasciato quando promise di fermare la predicazione, e sotto questa premessa lo Stato ebraico permise a Hamas di continuare le sue attività.
Hamās è l’acronimo per Harakat al-Muqāwwama al-Islāmiyya, (Movimento di Resistenza Islamico), e il nome è la parola araba usata comunemente per “entusiasmo”. La sua ala militare usa spesso nomi differenti. Lo Statuto di Hamas, scritto nel 1988, dichiara che il suo obiettivo è di “sollevare la bandiera di Allah sopra ogni pollice della Palestina”, cioè di eliminare lo stato di Israele, e di rimpiazzarlo con una teocrazia islamica. Rispetto ai movimenti cosiddetti integralistici musulmani che propugnano la lotta in tutto il mondo islamico, Hamas limita rigidamente, per Statuto, la sua attività di lotta alla sola Palestina. L’acronimo “Hamas” apparve per la prima volta nel 1987 in un volantino che accusava i servizi segreti israeliani di minare la fibra morale dei giovani palestinesi, anche con la diffusione della droga, per poterli reclutare come collaborazionisti. L’uso della forza da parte di Hamas apparve quasi contemporaneamente alla prima Intifada, iniziando con “azioni punitive contro i collaborazionisti”, progredendo verso obiettivi militari israeliani ed infine con azioni terroristiche che prendevano di mira i civili, poiché per Hamas anche i civili israeliani sono “bersagli militari” in virtù del fatto di appartenere ad uno Stato altamente militarizzato con la coscrizione obbligatoria per tutti, con richiami in servizio fino ai quarant’anni.
Ma io credo che la netta vittoria di Hamas sia alla fine il frutto di una “perversa” dal punto di vista della possibilità di pace) strategia politica del governo israeliano e della miopia occidentale: l’una e l’altra hanno fatto sì che Hamas, fino a due o tre anni fa forte, ma circoscritto a Gaza, abbia esteso la sua influenza anche nei Territori occupati della Cisgiordania. Come dice un amico palestinese di Gerusalemme: «Hamas l’hanno costruita e finanziata gli israeliani, l’hanno sostenuta fino ad oggi e hanno contribuito alla corruzione dell’Anp (=Autorità Nazionale Palestinese). Adesso hanno tutte le carte in regola per fare, di nuovo, esattamente tutto quello che gli pare. Non mi sorprenderei se tornassero a bombardare Nablus, Jenin, o magari Hebron. Quello che è sicuro è che i palestinesi non ce la fanno più. Vivono da decenni in una situazione di guerra, stretti tra il diritto internazionale e il diritto di Israele non tanto ad esistere, ma a completare il proprio piano sionista di costruzione di uno stato ebraico che vada dal Giordano al Mediterraneo. Vivono abbandonati al loro destino senza che nessuno si curi di ripristinare il loro diritto di popolo ad esistere. Sono stanchi anche della politica dell’Anp, corrotta e fatta di belle macchine, ville di lusso, dollari e cocktail, mentre i campi profughi vomitano fango e povertà». Del resto è noto che il Casinò di Gerico, che fino alla seconda Intifada (settembre 2000), introitava un milione di dollari a sera per 365 sere all’anno, è stato costruito e gestito con una partecipazione israeliana (tra cui uno dei figli di Sharon!). E la persistente miopia occidentale che ragiona solo per ultimatum, invece di far leva sulle contraddizioni interne al movimento stesso, invece di sostenere i moderati e i pragmatici di Hamas, invece di favorire l’inquadramento paramilitare degli armati di Hamas nelle forze di sicurezza palestinesi, ora feudo di al-Fatah, invece di sforzarsi di capire che per un orientale forti ed estreme affermazioni verbali accompagnate da un contrastante comportamento nei fatti serve soprattutto “per non perdere la faccia”, continua a minacciare la fine degli aiuti economici che vorrebbe dire fame per la popolazione, continua a non capire che in questo modo finirà per spingere Hamas e molti suoi seguaci, vecchi e nuovi, nelle braccia dell’estremismo islamico: Iran, Siria, Emirati, Arabia Saudita diventerebbero gli unici finanziatori e condizionatori, anche in senso ideologico, di un popolo che dal suo “padre fondatore”, Yasser Arafat, è stato “educato” ad una rigorosa e tollerante “laicità”. Gli stessi Stati che hanno steso una coltre di silenzio e di indifferenza sulle risoluzioni Onu, che hanno tollerato e giustificato la persistente illegittimità e illegalità nei comportamenti del governo di Israele, non hanno ora certamente titoli di credito nei confronti dei palestinesi; gli Stati che hanno alzato la loro voce, giustamente, per condannare l’uccisione di 1500/1800 israeliani e hanno taciuto sulla morte di molte migliaia di palestinesi (bambini, giovani, adulti, vecchi, quasi tutti civili come le vittime israeliane). Ritengo invece significativo quanto detto in un comunicato di Amnesty International, che indica vie percorribili verso la pace se c’è l’impegno di tutti: «Dirigenti e portavoce di Hamas hanno spesso condannato gli attacchi israeliani contro i palestinesi come violazioni del diritto internazionale. Al contempo, però, hanno cercato di giustificare l'uccisione di civili israeliani come modalità di resistenza all'occupazione. Hamas deve riconoscere che il proprio comportamento rappresenta a sua volta violazione del diritto internazionale, sia quando agisce contro la popolazione israeliana che contro quella palestinese… Hamas dovrà inoltre presentare proposte concrete, in linea con gli standard del diritto internazionale, per porre fine alla violenza tra le fazioni e spezzare il ciclo dell'impunità che da troppo tempo protegge gli autori di uccisioni e di altri abusi dei diritti umani, e impegnarsi a emanare leggi che portino giustizia e rafforzino i diritti umani della popolazione palestinese… Contemporaneamente, le autorità israeliane dovranno impegnarsi a rispettare il diritto internazionale e la comunità internazionale, comprese le Nazioni Unite e l'Unione europea, dovrà fare i passi necessari per assicurare che ciò accada. In particolare, Israele dovrà porre fine alle esecuzioni extragiudiziali e alle altre uccisioni illegali di palestinesi, alla distruzione e alla confisca di case e terreni palestinesi, all'espansione degli insediamenti, alla costruzione del muro o recinzione di 600 chilometri attraverso la Cisgiordania, alle chiusure e ai blocchi che limitano in modo arbitrario il movimento dei palestinesi nei Territori Occupati e il loro accesso al lavoro, all'educazione e ai servizi sanitari. La comunità internazionale non può continuare a ignorare il fatto che queste violazioni alimentano il ciclo della violenza. Subordinare i diritti umani a considerazioni politiche finirà solo per compromettere la prospettiva di una pace e di una sicurezza durature tra israeliani e palestinesi». dwf

Davide e Golia

Il Coordinamento provinciale per la Palestina, nato due anni fa sulla spinta delle numerose iniziative di gemellaggio e di solidarietà fattiva con Città palestinesi attuate sul territorio provinciale, iniziative tutte sostenute dal desiderio di “costruire ponti” tra i due popoli che abitano l’antica Palestina, dall’urgenza di soccorrere, per quanto possibile, la miseria in cui vivono gli abitanti dei Territori Palestinesi, stretti nella morsa di una dura occupazione militare, imprigionati dal Muro di segregazione, oppressi dalla mancanza di lavoro e da una qualsiasi prospettiva di futuro se non nell’emigrazione incoraggiata e favorita dall’unica autorità efficiente che è quella israeliana, inermi di fronte al controllo, al condizionamento e all’efficace uso di una informazione massmediale propagandistica, sbilanciata e in larga parte falsa – e in questi giorni di vera e propria guerra, un’informazione embedded, intruppata, unilaterale e gestita politicamente non solo in Israele,
sente l’urgente necessità e dovere di rivolgere un urgente appello al rappresentante del Governo Italiano, S. E. il Prefetto di Alessandria, perché si faccia portavoce presso il Governo stesso del sentimento di disagio, angoscia e preoccupazione vissuto dai suoi componenti e dalle persone che essi rappresentano.

Nessuno ricorda che a Gaza vivono 1,5 milioni di palestinesi, di cui più della metà sono famiglie di profughi delle passate guerre arabo-israeliane. Gaza ha una delle maggiori densità di popolazione al mondo (poco meno di 2000 abitanti per km2 e uno dei più alti tassi di crescita demografica.
• Che la maggior parte degli abitanti vive con meno di due dollari al giorno e la disoccupazione supera il 50%. Periodiche e frequenti chiusure delle frontiere da parte di Israele hanno pressoché totalmente ridotto l'accesso al lavoro e al commercio transfrontaliero.
• Che nel settembre 2005 Israele ha completato il ritiro dei suoi soldati e coloni dalla Striscia consegnandola interamente all'Autorità nazionale palestinese (Anp), ma il ritiro condotto unilateralmente, senza previi accordi tra l’Autorità israeliana e quella palestinese per attuare un graduale passaggio di poteri, ha di fatto – e crediamo volutamente – consegnato la Striscia di Gaza ai militanti della fazione integralista islamica palestinese di Hamas.
• Che da allora Israele ha chiuso ermeticamente i suoi confini con Gaza per isolare Hamas, riducendo le forniture di carburante, impedendo la circolazione delle persone, l’afflusso dei più elementari generi di sopravvivenza (cibo, acqua, medicinali…), negando la possibilità del ricorso alla risorsa della pesca con un totale e armato controllo dell’accesso al mare.
• Che le organizzazioni internazionali hanno condannato il blocco di Gaza, che per Israele è invece una misura necessaria per tentare di impedire il lancio di razzi dalla Striscia contro i suoi cittadini.
• Che il principio biblico “occhio per occhio, dente per dente”, principio di equilibrio che prevede che la “vendetta” sia proporzionata all’offesa, è chiaramente disatteso vista la enorme sproporzione di armamento e di efficacia bellica (il razzo Qassam è un razzo di costruzione artigianale in acciaio, riempito di esplosivo, sviluppato dalla organizzazione palestinese Hamas. Il Qassam a differenza del missile, ampiamente utilizzato dall’esercito israeliano, non è guidato, è a corto raggio, dal basso potenziale esplosivo, con un alto tasso di errore tanto che spesso termina la parabola contro abitazioni di palestinesi. Essendo scarsamente intercettabile, arreca danni assai limitati e comunque non paragonabili a quelli delle armi convenzionali di cui dispone l'esercito israeliano, ma ha forte impatto sulla popolazione israeliana che vive nelle zone limitrofe che ha risentito di ben poche perdite, ma soprattutto di un costante senso di insicurezza).
Riteniamo che la civiltà giuridica nasca con la rottura della catena delle vendette.
Hamas è un movimento fondamentalista, che non rigetta la pratica del terrorismo. Israele è uno stato di diritto, che non rigetta la pratica del terrorismo. Ma quando si uccide non si uccide un movimento sociale, non si uccide un ordinamento giuridico, non si uccide una visione del mondo religiosa, non si uccide una organizzazione politica: si uccidono esseri umani. Si uccidono sempre esseri umani. Ogni uccisione, ed a maggior ragione ogni atto di terrorismo e ogni atto di guerra sono contro l'umanità intera.
Israele è una democrazia, ma anche Hamas ha democraticamente vinto le elezioni palestinesi – non ritenute irregolari dagli osservatori internazionali. Denunciamo però la miopia dei governi dell’Occidente, che non hanno saputo favorire il dialogo con la numerosa componente democratica, pragmatica e antiterrorista di Hamas, movimento estremamente composito, e non riducibile alla definizione di gruppo “terrorista”.
Siamo preoccupati perché negli stati europei che per secoli hanno praticato la persecuzione antiebraica, fino alla Shoah, possa crescere oggi, con la connivenza di settori delle Istituzioni, una persecuzione antiaraba e antimusulmana in cui razzismo, pregiudizio culturale e religioso e sfruttamento servile della forza lavoro migrante si intreccino con esiti perversi.
Chiediamo che cessi l'occupazione del Territori e nasca lo stato di Palestina, sovrano e democratico.
Cessi la minaccia di sterminio alla popolazione ebraica di Israele, e possa quel paese vivere in pace e sicurezza.
Cessino in Israele le politiche razziste e persecutorie verso la popolazione palestinese.
Cessi ovunque il sostegno ad ogni terrorismo, e ad ogni guerra.
Si sviluppi la democrazia in Medio Oriente con l’apporto politico, e non con la vendita di armi o con uno sbilanciamento diplomatico a favore di Israele da parte dell’Europa.
Nell'ora del dolore di questo si sia consapevoli: che vi e' una sola umanità, che ogni vittima ha il volto di Abele. Che nelle iniziative di solidarietà umana e nelle lotte di umana liberazione sempre deve esservi coerenza tra i mezzi e i fini: salvare le vite, non sopprimerle; rispettare i diritti e la dignità di ogni essere umano, non calpestarli.

Il Coordinamento Provinciale per la Palestina

Fermatevi subito, fermiamoci tutti!

COMUNICATO STAMPA di PAX CHRISTI ITALIA

"Quello in corso a Gaza è un massacro, non un bombardamento, è un crimine di guerra e ancora una volta nessuno lo dice". P. Manauel Musallam, parroco a Gaza, 28 dicembre 2008
Un inferno di orrore, morte e distruzione, di lutti, dolore e odio si sta abbattendo in queste ore sulla Striscia di Gaza e sul territorio israeliano adiacente.
A voi, capi politici e militari israeliani,
chiediamo di considerare che insieme ai ‘miliziani’ di Hamas state colpendo, uccidendo e ferendo centinaia di civili palestinesi. Non potete non averlo calcolato. Non potete non sapere che a Gaza non esistono obiettivi da mirare chirurgicamente. Non potete non aver messo in conto che da troppo tempo è la popolazione di Gaza a vivere sotto embargo, senza corrente elettrica, senza cibo, senza medicine, senza possibilità di fuga. Le vostre crudeli operazioni di guerra compiono opera di morte su donne, bambini e uomini che non possono scappare né curarsi e sopravvivere, essendo strapieni gli ospedali e vuoti i forni del pane. Ascoltate i vostri stessi concittadini che operano nelle organizzazioni israeliane per la pace: “Siamo responsabili della disperazione di un popolo sotto assedio. Hamas da settimane aveva dichiarato che sarebbe stato possibile ripristinare la tregua a condizione che Israele riaprisse le frontiere e permettesse agli aiuti umanitari di entrare. Il governo d'Israele ha scelto consapevolmente di ignorare le dichiarazioni di Hamas e ha cinicamente scelto, per fini elettorali, la strada della guerra”.

FERMATEVI SUBITO!
A voi, capi di Hamas,
chiediamo di considerare che i vostri razzi artigianali lanciati verso le cittadine israeliane poste sul confine, sono strumenti ulteriori di distruzione e, per fortuna raramente, di morte, e creano inutilmente paura e tensione tra i civili. Sono una assurda e folle reazione all'oppressione subita, che si presta come alibi per un’aggressione illegale. Se foste più potenti, capi di Hamas, vorreste forse raggiungere i livelli di distruzione dei vostri nemici? E non essendolo, a che scopo creare panico, odio e desiderio di vendetta nei civili israeliani che vivono a fianco alla vostra terra? Quali strategie di desolazione, disumane e inefficaci, state perseguendo?

FERMATEVI SUBITO!
E noi donne e uomini che apparteniamo alla ‘società civile’,
FERMIAMOCI TUTTI!
Sostiamo almeno un minuto accanto a tutti i civili che soffrono. Alle centinaia di ammazzati palestinesi, che per noi non avranno mai nome e volto, come alle due vittime israeliane. Alle centinaia di feriti palestinesi e ai fortunatamente pochi feriti israeliani. A chi ha perso la casa. A chi non può curarsi.
E poi, tutti insieme, alziamo la voce: non è questa la strada che porterà Israele a vivere in pace e sicurezza. Non è questa la strada che porterà i palestinesi a vivere con dignità in uno Stato senza più occupazione militare, libero e sovrano.
I media italiani in questi giorni hanno purtroppo mascherato una folle e premeditata aggressione -e soprattutto l'insopportabile contesto di un assedio da parte di Israele che per mesi ha ridotto alla fame un milione e mezzo di persone- scegliendo accuratamente alcuni termini ed evitandone altri.
La maggior parte dei quotidiani e telegiornali ha affermato che “è stato Hamas a rompere la tregua”. Invece il 19 dicembre è semplicemente scaduta una tregua della durata concordata di sei mesi. L'accordo comprendeva: Il cessate-il-fuoco, la sua estensione nel giro di qualche mese alla Cisgiordania e la fine del blocco di Gaza. Questi impegni non sono stati rispettati da Israele (25 palestinesi uccisi solo dalla firma dell'accordo) e quindi Hamas non l'ha rinnovato. Ancor più precisamente, già ai primi di novembre, Israele aveva rotto la tregua con una serie di attacchi a Gaza uccidendo altri 6 palestinesi.
Aiutiamoci allora a valutare criticamente le analisi spesso falsate dei media per dare maggior forza ad altre voci diventate grida: Solo poche ore fa, proprio a Gaza, il Patriarca di Gerusalemme celebrava la Messa di Natale riprendendo il suo Messaggio natalizio:“Siamo stanchi. La pace è un diritto per tutti. Siamo in apprensione per l'ingiusta chiusura imposta a Gaza e a centinaia di migliaia di innocenti. Siamo riconoscenti a tutti gli uomini di buona volontà che non risparmiano sforzi per spezzare questo blocco.”
La strada intrapresa invece, lastricata di sangue e macerie, condurrà la gente qualsiasi al macello. E i suoi capi alla sconfitta. In primo luogo alla sconfitta umana.

Pax Christi Italia, 28 dicembre 2008

domenica 28 dicembre 2008

Dove porta il "tanto peggio, tanto meglio"

Dopo aver sentito gli osceni servizi radio-televisi di Claudio Pagliara, corrispondente RAI da Gerusalemme, disonore della categoria dei giornalisti, che mentre è in corso un'autentica "mattanza" si preoccupa di informare i telespettatori italiani che in Israele domina un clima di serena tranquillità, nonostante l'incombente minaccia del lancio di nuovi razzi Kassam (ricordate la storia di Davide e Golia?), mi sento di pubblicare un editoriale tratto da "notizie minime della non violenza in cammino", in gran parte condiviso.




Dove porta il "tanto peggio, tanto meglio"? Chiunque guardi nel proprio cuore lo sa.
Certo, vale per tutti il diritto alla legittima difesa. Certo, nella genealogia dei torti subiti e delle ragioni della propria paura chiunque puo' risalire molto, molto lontano. Ma Gandhi disse una volta che l'antico principio dell'occhio per occhio alla
fine rende tutti ciechi. E la civilta' giuridica nasce proprio con la rottura della catena delle vendette.
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Hamas e' un movimento fondamentalista, che non rigetta la pratica del terrorismo.
Israele e' uno stato di diritto, che non rigetta la pratica del terrorismo.
Ma quando si uccide non si uccide un movimento sociale, non si uccide un ordinamento giuridico, non si uccide una visione del mondo religiosa, non si uccide una organizzazione politica: si uccidono esseri umani. Si uccidono sempre esseri umani.
E il fatto che ad essere uccisi siano sempre esseri umani, non simboli o strutture, non forme o sistemi, ma sempre esseri umani, ebbene, questo dovrebbe essere argomento definitivo per espellere dal novero degli strumenti della politica la pratica dell'uccidere. Poiche' essa dal punto di vista dell'umanita' sempre fallisce il suo scopo preteso, ovvero sempre raggiunge lo scopo reale di massacrare essa umanita'. Ogni uccisione, ed a maggior ragione ogni atto di terrorismo e ogni atto di guerra - che dell'uccisione di molti esseri umani consistono - sono contro l'umanità intera.
Gli stati europei sono, con pochi cambiamenti in verita', gli stessi che per secoli hanno praticato la persecuzione antiebraica, fino a quel culmine che e' stata la Shoah. Gli stessi stati europei in cui ancor oggi si pratica, con la connivenza di
fondamentali istituzioni quando non su loro iniziativa, una persecuzione antiaraba e antimusulmana in cui razzismo e oppressione di classe, pregiudizio culturale e religioso e sfruttamento servile della forza lavoro migrante si intrecciano con esiti di perversa ferocia.
I regimi dei paesi arabi - generalmente corrotti e autoritari, quando non esplicitamente totalitari - hanno quasi tutti e quasi sempre (per infami calcoli di presunto interesse strategico e di effettuale costruzione del consenso interno) contribuito di fatto alla persecuzione del popolo palestinese e propagandato, quando non direttamente praticato, l'odio e la persecuzione del popolo ebraico; e nulla ha danneggiato di piu' la lotta di liberazione nazionale del popolo palestinese che la parola d'ordine della distruzione dello stato di Israele.
Della totalitaria teocrazia iraniana non mette conto dire. Ne' dell'imperialismo statunitense, i cui efferati crimini sono sotto gli occhi di tutti.
Che la destra italiana oggi finga di non essere antisemita dipende solo dall'esistenza dello stato di Israele: non ci fosse Israele, riprenderebbero i pogrom. Chi dimentica questo e' un mascalzone. Che anche in non piccola parte della sinistra italiana sia fortemente presente uno scellerato sentire antisemita che arriva fino all'inconsapevole ma effettuale riciclaggio degli slogan nazisti e' una tragica, abominevole realtà.
Della chiesa cattolica e' inutile dire: io sento ancora l'odore della carne bruciata negli autodafe'.
Che i responsabili e i complici dei massacri in Afghanistan non abbiano voce in capitolo e' chiaro: la loro voce reca vomito di sangue.
Che gli ideologi che predicano irrealistiche scempiaggini non abbiano voce in capitolo e' chiaro: mentre loro fantasticano, esseri umani vengono uccisi.
E si potrebbe - si dovrebbe - continuare. Ma per ora fermiamoci qui. Per giungere a quale conclusione? Che la pace e il diritto cominciano dove cessano le uccisioni.
Che ogni omicidio e' un atto di terrorismo contro l'intera umanita'. Che una persona uccisa e' gia' l'orrore assoluto. Che solo la nonviolenza puo' salvare l'umanità.
E alle sorelle e ai fratelli palestinesi e israeliani, e della diaspora ebraica e di quella palestinese, ed a quante e quanti con loro si battono con la forza della verita', con la scelta della nonviolenza, perche' cessino guerre e uccisioni, perche' ogni popolo ed ogni persona possa vivere in libertà e dignità, attestiamo ancora in queste tragiche ore il nostro affetto e la nostra gratitudine.
Ed alle organizzazioni ed ai governi che continuano in mille forme, le più flagranti e le piu' subdole, ad uccidere e uccidere e uccidere, questo vogliamo dire: che essi non rappresentano i popoli e le persone, popoli e persone che chiedono innanzitutto il rispetto di quel fondamentale diritto umano che tutti gli altri diritti umani promuove e consente: il diritto a non essere uccisi.
Cessi l'occupazione del Territori e nasca lo stato di Palestina, sovrano e democratico. Cessi la minaccia di sterminio alla popolazione ebraica di Israele, e possa quel paese vivere in pace e sicurezza. Cessino in Israele le politiche razziste e persecutorie verso la popolazione palestinese. Cessi ovunque il sostegno ad ogni terrorismo, e ad ogni guerra. Si sviluppi la democrazia in Medio Oriente. La democrazia: antifascista, antimilitarista, antimaschilista.
La pace si costruisce con mezzi di pace. Le armi sono il nostro comune nemico.
Nell'ora del dolore di questo si sia consapevoli: che vi e' una sola umanità, che ogni vittima ha il volto di Abele. Che nelle iniziative di solidarietà umana e nelle lotte di umana liberazione sempre deve esservi coerenza tra i mezzi e i fini: salvare le vite, non sopprimerle; rispettare i diritti e la dignita' di ogni essere umano, non calpestarli.

giovedì 25 dicembre 2008

Natale 2008 - Omelia

Da alcuni anni l’altare della chiesa diventa la grotta di Betlemme dove trovano posto i protagonisti del fatto, Maria, Giuseppe, il Bambino, l’asino e il bue; da-vanti all’altare, sui gradini che scendono verso la navata trovano posto i pastori prima e i magi poi; ma dai gradini il presepio deborda nella navata stessa, come per abbracciare e includere in sé tutti coloro che sono venuti magari convinti di festeggiare un compleanno, o perché richiamati da nostalgie di infanzia, o perché, segnati dalla vita, provano anche questa possibilità di un eventuale momento di serenità. Ma ciò che voglio aiutare a capire con questo semplice strumento è la sostanza del Natale: il Figlio di Dio si è fatto carne, si è fatto uomo, ha amato la vita dell’uomo, oserei dire che ha “invidiato” la nostra vita, tanto da volerla condividere; ma si è fatto carne nel “verso” della storia dell’uomo, non nel “dritto”! Come quando contempliamo un arazzo: è solo il confuso, caotico, apparentemente irrazionale e brutto a vedersi intreccio di fili del “verso” che dà corpo alla bellezza, alla nitidezza, alla gioia di guardare finalmente il “dritto”. Così è per il presepio, con i pastori, i poveri, gli emarginati, i moralmente indegni, e poi i Magi, seguaci di un’altra religione o “liberi pensatori”… o meglio per l’evento rappresentato dal presepio: una festa che include, una festa che abbraccia tutti quale che sia la condizione di vita di ognuno. E così Natale diventa l’occasione per ripensare alla luce di questo mistero gli eventi e gli avvenimenti che hanno segnato la nostra vita, la nostra coscienza lungo questo anno, e che ci portiamo dentro anche mentre siamo qui e guardiamo qualcosa che forse non comprendiamo fino in fondo, non sappiamo se davvero c’entri con la nostra vita quotidiana, con le ansie e le paure che ci portiamo dentro anche in questa notte, con i nostri cuori magari feriti da cose che non possiamo semplicemente cancellare o dimenticare, neppure per un’ora: le nostre scelte di vita, i nostri sbagli piccoli o grandi, le ferite che abbiamo procurato a noi stessi o agli altri…
E penso che dopo il segno del presepio, della stalla di Betlemme, di un Bambi-no sulla paglia, lo stile del Figlio di Dio fatto carne non è cambiato: la sua mis-sione finirà su una croce; e anche l’evento “inaudito” della sua risurrezione non sarà seguito dall’inaugurazione vittoriosa del suo Regno, ma da un “cantiere” per la costruzione di questo Regno, che è la Chiesa. Così la composizione sociale dei testimoni del messaggio di Cristo non cambia; pastori, pescatori, uomini e donne carichi dei limiti della natura umana, a volte poveri di vera umanità… Scrive il card. Martini: «Un tempo avevo sogni sulla chiesa. Una chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà, una chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo. Sognavo che la diffidenza venisse estirpata. Una chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto. Una chiesa che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli o peccatori. Sognavo una chiesa giovane. Oggi non ho più di questi sogni…». Nel mondo occidentale, un gran numero di comunità stanno "morendo" spiritualmente. Per molti battezzati il cristianesimo si riduce a poco più di un ornamento, a un abbellimento di momenti emergenti della propria storia di vita. La Chiesa diventa una specie di azienda che offre dei servizi in vista dell’elevazione religiosa della vita. Le persone non sono forse alla ricerca del senso della loro vita? La Chiesa dovrebbe offrire ad esse un aiuto. Lo deve fare. Però ciò non dovrebbe verificarsi secondo il modello dei nostri grandi supermercati, dove ognuno gira col suo carrello e sceglie la merce che gli aggrada e di cui ha bisogno. Nell’enorme supermercato, qual è diventata la nostra società, si trova, vicino alla pressoché incalcolabile offerta di prodotti, anche un angolino nel quale vengono offerti ai singoli dei prodotti "religiosi". Il cristianesimo non è in primo luogo una dottrina o una serie di norme morali, una serie infinita di no come pare essere la morale “gridata” dalla Chiesa di oggi, ma una storia vivente, alla quale possiamo prendere parte. Molti cristiani non riescono più a credere che anche oggi Dio agisce in mezzo a noi. Ma che Dio anche oggi agisca alla stessa maniera di allora, che egli voglia agire nel mondo per mezzo nostro e delle nostre comunità, tutto ciò è diventato per molti battezzati com-pletamente estraneo. Essi percepiscono le storie bibliche come storie lontane, che appartengono al passato e che non hanno quasi più niente a che fare con la loro vita. Non vi è mai stato un tempo nel quale si sia avuto un così ampio spazio per l’insegnamento della religione, così tanta didattica dell’ insegnamento religioso e un così grande lavoro di formazione biblica come si ha oggi, e così tanta informazione “religiosa”, o meglio, sulla Chiesa. E tuttavia la fede svanisce sempre di più. I Vangeli informano sul modo con cui Gesù incontrò degli uomini e delle donne. Gesù ha radunato delle persone e con esse, che non erano né dei santi né dei geni particolari, ha dato origine a qualcosa di nuovo. La cosa più importante, anche oggi, consiste nell’ascoltare e nel guardare là dove Iddio crea qualcosa di nuovo. Egli infatti continua ad agire. La miseria della Chiesa sta anche nella sua superiorità arrogante nei confronti della pluralità di culture e di modi di pensare di questo tempo.
Ci sentiamo avvolti dalla complessità ma dobbiamo leggere i drammi e le spe-ranze che viviamo e ci portiamo dentro. Ogni giorno ci accompagna il pensiero delle migliaia di persone uccise dalla fame, dalla sete, da mancanza di medicine a causa della ingiustizia strutturale provocata dal disumano sistema economico. E insieme viviamo lo sconcerto per le tante forme di violenza, per la fabbricazione e il commercio delle armi, per le guerre insensate, omicide, distruttive, per le diverse forme di terrorismo.
Non posso passare sotto silenzio la grande preoccupazione per l'accresciuta o-stilità nei confronti dell'altro, dello straniero, del nomade, di chi fa più fatica a vivere per tribolazioni psichiche e fisiche, per condizioni di marginalità di cui il carcere è istituzione emblematica. Sento nitidamente la presenza del razzismo in dichiarazioni e proposte politiche in un clima diffuso che si esprime negli sguardi, nelle parole, negli atteggiamenti della quotidianità. È razzismo culturale la proposta di classi differenziate di alunni stranieri e italiani perché riconosce la diversità per discriminarla, con un segno indelebile nell'animo dei ragazzi come il propugnare odio contro le moschee, espressione di un diritto di libertà religiosa che è diritto fondamentale della persona. E' razzismo politico non riconoscere pari diritti e opportunità insieme a uguali doveri alle persone immigrate fra noi. Esprime una visione della società davvero grossolana e illusoria l'attribuzione di un potere salvifico, per altro molto costoso, alle telecamere e alla video sorveglianza che garantirebbero la nostra sicurezza; invece di porre attenzione, e su questo investire, alla formazione delle coscienze, ad esperienze culturali di relazione, di reciprocità, di inclusione. Non posso non constatare la demagogia e l'incoerenza fra promesse massimaliste di espulsione di tutti gli stranieri irregolari e poi la presenza di circa un milione di loro irregolari per la legge, ma regolari per il mercato del lavoro, necessari a questo sistema economico. Possiamo forse dimenticare la preoccupante crisi economica che può risultare drammatica per centinaia di migliaia di lavoratori, per fasce intere della popolazione che già si trova in situazione di povertà?
In questo periodo tre date significative illuminano il presente e il futuro: il 70° anniversario della promulgazione delle leggi razziali da parte del regime fasci-sta; è giusto e doveroso ripensare a come siano state preparate e accettate, alle complicità e ai silenzi di tanti che non si sono opposti; coinvolge nella re-sponsabilità della vigilanza e della denuncia di parole e atteggiamenti che sembrano far eco a quelle decisioni così discriminatorie, sprezzanti e disumane.
C'è poi il 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che evidenzia la possibilità di bene dell'essere umano nell'intuire, prospettare e di-chiarare i principi di una umanità veramente umana e nello stesso tempo l'in-coerenza ad attuarli nelle scelte personali, istituzionali e politiche.
Ed infine sta per concludersi l'anno del 60° anniversario dell'entrata in vigore della nostra Costituzione Repubblicana, la magna charta di una democrazia ri-spettosa dell'unità nella diversità, di un'autentica uguaglianza di diritti e doveri tra tutti i cittadini, del ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie tra i popoli.
I diritti fondamentali delle persone riguardano la vita e la morte nel loro intrecciarsi continuo. Situazioni emblematiche, di cui i mezzi di informazione si sono ampiamente occupati, provocano in noi una riflessione sofferta e rispettosa della storia delle persone e alcuni interrogativi etici laceranti. Il primato oggettivo della "verità", comunque sempre da cercare ed approfondire, è tale da sopprimere la libertà di coscienza personale? E come questa può essere rapportata al sentire di una società, nel pluralismo delle ispirazioni e delle convinzioni? La sacralità della vita riguarda la sua totalità: la corporeità e la dimensione profonda dell'anima, dello spirito. L'attenzione e la cura alla vita umana inducono ad una prudenza nei confronti della scienza e delle sue tecnologie, a una sorta di timore che non intende limitare la ricerca e la sperimentazione, ma continuamente riporre la questione etica, senza apriorismi e fanatismi. Tanti, troppi sono stati colpiti dalla sconcertante presa di posizione delle gerarchie vaticane, che hanno fatto dire ad alcuni che il Vaticano preferisce che gli omosessuali vengano impiccati, pur di non correre il rischio che si sposino civilmente. Che c’entra questo con la “libertà religiosa” e con il “rispetto della vita”? L’incarnazione del Figlio di Dio è un invito ad essere pienamente umani, mai disumani. E certe posizioni che suonano contro l’umanità inficiano anche quell’enorme prestigio morale che la Chiesa si era guadagnata con Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II, insieme a tanti coraggiosi ed eroici vescovi, preti e laici. Forse c’è l'esigenza di porsi molto di più in ascolto della vita e di tutte le sue situazioni e per questo di aprirci con rispetto a diverse possibilità.
O ci sono questioni morali che non sono di competenza della libertà di coscienza di ciascuna persona? E davvero ci si può sostituire a Dio affermando di conoscere la sua volontà riguardo alla sofferenza e alla morte delle persone? E perché non vivere con lui una relazione di fiducia, di accoglienza del nostro vivere e morire, di una vita che continua diversamente nel suo Mistero?
Come prete sono preoccupato per la “religione civile” che si sta affermando, che rende la Chiesa necessaria a questo sistema come il sistema lo è per la Chiesa; essa in questo rapporto perde la forza umile della profezia, la fedeltà e il coraggio nell'annuncio e nella testimonianza del Vangelo. Gesù di Nazareth ci rivela continuamente il Dio incarnato, il Dio della storia, delle relazioni, dell'accoglienza, del perdono, della guarigione, della salvezza nel senso più profondo e pieno della parola.

Colgo però dentro alla complessità i segni di una speranza ragionevole nell'im-pegno quotidiano e fedele di tante persone, famiglie, comunità che giorno dopo giorno esprimono amore, amicizia, disponibilità all'accoglienza dell'altro, gratuità; e nei luoghi di lavoro una professionalità motivata, competente, significativa. Ricordo coloro che in diversi luoghi per questo rischiano la vita e che continuano ad esprimere la loro idealità e il loro impegno dopo aver subito violenze, oppressioni, uccisioni di familiari e amici superando il dolore e facendolo diventare proposito di riscatto, di giustizia, di verità, di lotta contro l'impunità. Riconosco come un segno dei tempi l'elezione di Obama, l'entusiasmo della gente che ha riconosciuto in tale evento la realizzazione del "sogno" di Martin Luther King, un afro-americano Presidente degli Usa, capace finora di un linguaggio che unisce idealità e concretezza, speranza e dinamismo. La realtà dunque non è immutabile, i realisti e i cinici non sempre hanno ragione: l'audacia nella speranza è indispensabile per coinvolgerci ed impegnarci a contribuire ad una umanità umana.
Si dovrebbero favorire situazioni nuove: è positivo il movimento dei giovani studenti delle Scuole superiori e dell'Università perché ricco di motivazioni, di contenuti, di modalità non violente, propositive: il desiderio di esserci, di po-tersi esprimere sul proprio futuro chiedendo di non essere estraniati e derubati, dell'esprimere il protagonismo positivo della vita, della ricchezza di idealità, di disponibilità, della richiesta di attenzione, di ascolto, di interlocuzione. La mancanza di risposte o la loro ottusità e grossolanità esprime mancanza di prospettiva, di speranza, opportunismo, calcolo, cinismo. Stiamo con i giovani, partecipando alle loro paure, difficoltà, tribolazioni, alle loro speranze, alle loro potenzialità positive. Riponiamo in loro fiducia e siamo loro grati perché ci aiutano a guardare la vita, la storia, la fede anche con i loro occhi, il loro cuore, la loro intelligenza dinamica.
Mi sento di condividere con tutte le donne e tutti gli uomini fatiche, tribolazioni, speranze; con chi vive l'esperienza esplicita della fede in dialogo e collaborazione con le donne e gli uomini delle altre fedi religiose; e con chi senza chiamare Dio per nome o senza riferirsi a Gesù Cristo si riconosce nei nomi con cui la loro presenza è indicata nella Bibbia, nei Vangeli così come nelle altre fedi spirituali: giustizia, pace, accoglienza, perdono, verità, disponibilità, gratuità, fedeltà, coerenza.
La memoria provocatoria e consolante del Natale, di Dio che si fa totalmente uomo entrando nella storia dalla periferia, dalla grotta degli animali, non dal centro del potere politico-economico-militare-religioso, ci coinvolge nella pro-spettiva e nell'impegno di una società e di un mondo più giusti, di una Chiesa più evangelica ed umana. dwf

martedì 23 dicembre 2008

Auguri di Buon Natale!

Anima mia canta e cammina,
anche tu fedele di chissà quale fede
oppure tu uomo di nessuna fede
camminiamo insieme
e l’arida valle si metterà a fiorire.

Qualcuno,
Colui che tutti cerchiamo
ci camminerà accanto.

David M. Turoldo

Questi versi squarciano i sentieri solitari segnati dalla paura.
Affondati nella più semplice delle soluzioni:
la denuncia della diversità e non l’ascolto della differenza.
O, meglio, la convivialità delle differenze di don Tonino Bello:

«Il genere umano è chiamato a vivere sulla terra ciò che le tre persone divine vivono nel cielo: la convivialità delle differenze.
Che significa?
Nel cielo, più persone mettono così tutto in comunione sul tavolo della stessa divinità, che a loro rimane intrasferibile solo l'identikit personale di ciascuna, che è rispettivamente l'essere Padre, l'essere Figlio, l'essere Spirito Santo.
Sulla terra, gli uomini sono chiamati a vivere secondo questo archetipo trinitario: a mettere, cioè, tutto in comunione sul tavolo della stessa umanità, trattenendo per sé solo ciò che fa parte del proprio identikit personale.
Questa, in ultima analisi, è la pace: la convivialità delle differenze.
Le stesse parole che servono a definire il mistero principale della nostra fede, ci servono a definire l'anelito supremo del nostro impegno umano.
Pace non è la semplice distruzione delle armi. Ma non è neppure l'equa distribuzione dei pani a tutti i commensali della terra.
Pace è mangiare il proprio pane a tavola insieme con i fratelli.
Convivialità delle differenze, appunto».


Interiorizzare, capire e dire questo messaggio sarà davvero fare un Buon Natale, per me, per te, per questa società che non si alza e non cammina.

don Walter

Marcia per la Pace

Nei giorni scorsi si sono incontrati alcuni degli “antichi” organizzatori della tradizio-nale Marcia per la Pace del 31 dicembre. Da parte di tutti si è espressa l’intenzione di riprendere l’iniziativa, dopo la “pausa” dello scorso anno, che è però stata colmata da una lodevole (ed equilibrata) iniziativa da parte di alcune forze politiche e Associazioni. Ritenendo che l’iniziativa politica, in questo caso, possa essere un limite che può creare difficoltà a qualcuno, si di è pensato di riprendere i fili interrotti, allargando il più possibile la platea degli aderenti.
Tra gli organizzatori delle passate edizioni, nate su iniziativa della Diocesi di Ales-sandria, nella persona del Vescovo Mons. Charrier, si contavano oltre a varie Associazioni (Associazione per la Pace e la nonviolenza, Calebasse, Amnesty International, Emergency, Centro Pace Rachel Corrie e varie Aggregazioni cattoliche), anche il Centro Culturale Islamico, la Comunità Israelitica, la Comunità Valdo-Metodista e, tra le Istituzioni, il Comune e la Provincia di Alessandria. Tutti sono stati nuovamente invitati. La Diocesi organizza, come specifico e tipico per i credenti, un momento di preghiera in Cattedrale a partire dalle ore 22.00, ma vede come positiva e costruttiva l’adesione dei singoli, dei Gruppi e delle Associazioni cattoliche.
Si è giunti così alla definizione delle modalità di svolgimento della

MARCIA PER LA PACE – 31 dicembre 2008
con il patrocinio dell’Amministrazione Provinciale di Alessandria

• Tema: Gli OBIETTIVI DEL MILLENNIO proposti dall’ONU totalmente disattesi in questo primo scorcio di secolo, con sotteso il tema dei Diritti dell’Uomo, nel 60° anniversario della “Dichiarazione”.

• Ora: inizio alle ore 20.30; conclusione 21.45 circa.

• Ritrovo: presso la CARITAS in Via delle Orfanelle, 25 (angolo Via Lumelli). Saluti delle Autorità e primo intervento.

• Percorso: C.so Virginia Marini - C.so Cavallotti - C.so Crimea - C.so Roma - Via Bergamo - Via Trotti - Via Vochieri - P.tta della Lega - Via dei Martiri - Piazza della Libertà (durante il percorso saranno presentati brevi flash sui singoli “Obiettivi del Millennio”: Eliminare la fame e la povertà estrema; Educazione universale; Parità tra uomo e donna; Salute dei bambini e delle bambine; Salute materna; Combattere l’hiv/aids e le altre malattie; Sostenibilità ambientale; Partnership globale).

• Conclusione: davanti a Palazzo Ghilini (se possibile sotto l’androne); Inter-venti conclusivi.
Come saluto e augurio l'Associazione Interculturale Arcobaleno offrirà agli interve-nuti the arabo.


Hanno dato la loro adesione:
CGIL – CISL – UIL
ANOLF
Amnesty International
Ass. per la pace e la nonviolenza
Ass. AlessandriAcolori
Ass. Amici di W. Rivera
Ass. Arcobaleno
Ass. EuroBalcan
Ass. Idea
Ass. verso il Kurdistan
Calebasse
Centro Culturale Islamico
Centro Pace Rachel Corrie (Ovada)
Comunità di Sant’Egidio
Comunità Valdo-Metodista
Consulta per la Pace (Casale Monf.)
Consulta per le Aggregazioni Laicali
Ics – Ist. per la Cooperazione allo svi-luppo
Il Porcospino
Rete Radiè Resch

Ulteriori adesioni saranno comunicate durante la Marcia.

venerdì 19 dicembre 2008

Shoah: contesto ed orrore


Non mi sento di escludere che Gian Franco Fini abbia cercato un tornaconto politico: in fondo richiamare le responsabilità diffuse, complesse ed innegabili (anche e sicuramente, ma non prioritarie, della Chiesa) nelle tristissime vicende delle persecuzioni contro gli Ebrei, può servire per consolidare una patente di conversione democratica, a fronte di una storia personale, almeno sullo specifico, non precisamente coerente. Nel contempo non si può negare ciò che afferma l’organo ufficiale della S. Sede, quando reagisce ricordando al presidente della Camera che l’iniziativa delle leggi razziali sta in capo alle scelte del fascismo e del suo duce, di quel fascismo in cui lo stesso Fini, ovviamente in anni successivi ed in contesti istituzionali diversi, è cresciuto sulla scena politica.
In tutto questo però si ripropone una polemica fatta di accuse e contro/accuse, di attacchi e di repliche “piccate” che raramente vanno al nocciolo della questione. Perché ancora una volta si potrebbe perdere un’ottima occasione per affrontare il problema col presupposto di almeno di tre chiavi di lettura di cui oggi si potrebbe o si dovrebbe tener conto: la contestualizzazione della vicenda, la sua dimensione straordinaria, il tentativo o meglio il pericolo di rimozione che le accuse improvvisate e polemiche finiscono per indurre e supportare.
La contestualizzazione. La storia dell’antigiudaismo e della conseguente intolleranza nei confronti delle comunità ebraiche si dipana, con diversa intensità, attraverso i secoli della storia cristiana, accompagnata dagli eventi di scontro e di frattura e di violenza che l’intolleranza religiosa in generale ha prodotto. Resta però, per quanto attiene l’antigiudaismo, una specificità che mi permetto di ridurre schematicamente: proprio mentre nel passaggio della modernità, alle soglie della storia contemporanea, le culture prevalenti aprirono il discorso della tolleranza nel fatto religioso, nei confronti del popolo ebraico e delle sue comunità, gli atteggiamenti non cambiarono. In questo contesto la convergenza dell’antigiudaismo cristiano e di quello delle culture dell’occidente rimase un dato di constatazione: gli Ebrei o perché considerati eredi di un popolo deicida, o perché ritenuti pericolosi per i possibili sovvertimenti indotti dal loro enorme potere economico, o perché temuti per la loro cristallizzazione ideologica, andavano combattuti ed emarginati. In sostanza bisognava renderli innocui.
In questa dinamica antiebraica mancava, in ogni caso, se non marginalmente, l’elemento dirompente che sarà introdotto, dopo le esperienze del positivismo dalle proposte della razza e del sangue e che sarà istituzionalmente realizzato dal totalitarismo di Stato: una realizzazione che sulla base appunto della lotta razziale puntava non all’emarginazione, ma all’eliminazione del popolo ebraico. Sono cose ben note, ma vorrei richiamare che il programma razziale di eliminazione cade in un terreno sicuramente fertile, e tuttavia non assimilabile all’antisemitismo fondato sulla razza, ovviamente ritenuta inferiore: l’antigiudaismo, appunto. Ora successe che i protagonisti responsabili dell’antigiudaismo, almeno in generale, non si siano accorti per tempo che l’elemento razzista non si fermava ad una difesa dallo strapotere ebraico, ma puntava ad una sua eliminazione: all’eliminazione della razza inferiore. Tra i suddetti protagonisti vanno citati anche i popoli cristiani che (lo ha affermato sullo scorcio del secolo ventesimo Giovanni Paolo II) non si sono opposti adeguatamente allo sterminio del popolo ebraico; e tra le istituzioni si annovera anche la Chiesa (o piuttosto le Chiese), che non fu mai razzista e combatté il razzismo con documenti ufficiali, ma non mancò di portare elementi importanti all’antigiudaismo, assieme però alle fondamentali culture dell’occidente. Ed anche la Chiesa non si accorse per tempo che, nella formazione del totalitarismo di Stato, la tradizione antigiudaica aveva prodotto un terreno fertilissimo all’antisemitismo fondato sulla lotta razziale. In sostanza l’antigiudaismo non era razzista, ma favoriva il razzismo.
Per la verità, anche se con qualche ritardo, se ne accorse Pio XI, tanto che fece scrivere e tentò di far pubblicare un’enciclica, la “Humani generis unitas” sull’antisemitismo fondato su concezioni razziste inaccettabili e da condannare come responsabili della frattura nell’unità del genere umano. L’enciclica però non fu mai promulgata, per resistenze anche interne alla Chiesa e per la sopravvenuta morte del Papa nel febbraio del 1939; segno; anche questo delle difficoltà a comprendere l’entità del fenomeno razziale, nella lotta agli Ebrei soprattutto, anche se non esclusivamente.
Per un giudizio adeguato bisognerebbe, appunto tener conto di questa complessità cui appena ho potuto fare cenno: contestualizzare, appunto.
Contestualizzare, però non significa giustificare. Si possono ricercare e valutare le ragioni, le strutture, le tradizioni culturali di lungo periodo che hanno indotto una mentalità di riserva, di opposizione e di malanimo nei confronti degli Ebrei, ma ciò non significa giustificare la incapacità di comprendere ciò che stava preparando il salto negativo e radicale tra l’antigiudaismo e l’antisemitismo e non aver intuito per tempo che il primo poteva aiutare il secondo ad avviare un programma di eliminazione di un popolo. Dall’intolleranza si passava alla distruzione e non si trovano, sulla strada di questo passaggio, voci rilevanti di dissenso e neppure di lucidità. Gli spiriti illuminati che capirono furono pochi, inascoltati ed anche la loro voce non poté anticipare i tempi più di tanto: e si potrebbe presumere che (qui l’opinione è assolutamente personale), anche se ascoltati, non necessariamente avrebbero potuto sortire effetti significativamente positivi, anche in considerazione della tempestività con cui il nazismo arrivò al programma razziale.
Sappiamo quali furono gli effetti di fatto: la distruzione di intere comunità; comprese alcune, a noi molto care e vicine, come quella alessandrina ridotta a poche unità di persone, a cui, legati da amicizia, anche personale, esprimiamo (oggi potrebbe essere ritenuto facile!) una umanissima solidarietà.
Resta confermata, la solidarietà dimostrata da parecchie comunità cattoliche e dalla stessa Chiesa istituzione, quando ormai il programma di eliminazione era in corso; solidarietà che si espresse negli aiuti alle popolazione ebraiche ed alla loro protezione, anche nei luoghi di culto: Su questo piano il riconoscimento è ormai condiviso.
C’è un terzo elemento che richiamo brevemente: il pericolo della rimozione.
Cominciamo intanto col dire che il fenomeno va visto nella sua consistenza e nella sua dinamica ideologica, salvo pericoli di ricadute.
La prima scelta sta nel chiamare le cose col loro nome: l’eliminazione degli Ebrei, voluta dal nazismo è una “Shoah”, una distruzione radicale di un’etnia e non un olocausto, nonostante le motivazioni che hanno introdotto quest’ultimo termine, che adombra un significato di valenza sacrificale e religiosa. La “Shoah” è senza senso, è l’orrore dell’inutile eliminazione è la caduta i cui responsabili non possono trovare nessuna spiegazione, se non la loro abiezione morale. Qualcuno potrebbe dire che le espressioni non contano, contano i fatti che hanno provocato sei milioni di morti probabili tra gli Ebrei. Personalmente dissento da questa opinione: anche le parole hanno una loro forza ed un loro risultato di valore; non sarebbe inutile tenerne conto, anche nelle attività scolastiche.
Seconda scelta. Trattare problemi come questo, con attenzione ai fatti ed ai fenomeni ed alla loro complessità; il richiamo celebrativo non può essere rimosso, ma affidi la complessità della valutazione alle sedi della ricerca. Altrimenti provoca la risposta polemica che finisce sempre di trovare ascolto, almeno per gli interessi di parte.
La terza scelta riguarda la scuola. C’è un’urgenza che mi è capitato di richiamare in altre sedi: che su tutte le questioni, ed anche su questa, i risultati della ricerca arrivino puntualmente alla didattica. L’alternativa cade nella trattazione di qualsiasi argomento e dunque anche di questo, in una prospettiva obsoleta, manualistica e debolissima nei confronti della propaganda e sempre esposta al pericolo della rimozione delle questioni e dei problemi reali.
Agostino Pietrasanta

Perché dobbiamo dirci cristiani

Ripropongo la Lettera-prefazione del papa Benedetto XVI al saggio del sen. Marcello Pera pubblicata da Il Corriere della sera di domenica 23 novembre 2008 con il titolo:
Il dialogo tra le religioni non è possibile. La fede non si può mettere tra parentesi. Di seguito la presa di posizione di don Paolo Farinella, prete di Genova, una delle sopravvissute voci profetiche nella Chiesa di oggi...


Caro Senatore Pera, in questi giorni ho potuto leggere il Suo nuovo libro Perché dobbiamo dirci cristiani. Era per me una lettura affascinante. Con una conoscenza stupenda delle fonti e con una logica cogente Ella analizza l’essenza del liberalismo a partire dai suoi fondamenti, mostrando che all’essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell’immagine cristiana di Dio: la sua relazione con Dio di cui l’uomo è immagine e da cui abbiamo ricevuto il dono della libertà. Con una logica inconfutabile Ella fa vedere che il liberalismo perde la sua base e distrugge se stesso se abbandona questo suo fondamento. Non meno impressionato sono stato dalla Sua analisi della libertà e dall’analisi della multiculturalità in cui Ella mostra la contraddittorietà interna di questo concetto e quindi la sua impossibilità politica e culturale. Di importanza fondamentale è la Sua analisi di ciò che possono essere l’Europa e una Costituzione europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità. Particolarmente significativa è per me anche la Sua analisi dei concetti di dialogo interreligioso e interculturale.

Ella spiega con grande chiarezza che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari. Del contributo circa il significato di tutto questo per la crisi contemporanea dell’etica trovo importante ciò che Ella dice sulla parabola dell’etica liberale. Ella mostra che il liberalismo, senza cessare di essere liberalismoma, al contrario, per essere fedele a se stesso, può collegarsi con una dottrina del bene, in particolare quella cristiana che gli è congenere, offrendo così veramente un contributo al superamento della crisi. Con la sua sobria razionalità, la sua ampia informazione filosofica e la forza della sua argomentazione, il presente libro è, a mio parere, di fondamentale importanza in quest’ora dell’Europa e del mondo. Spero che trovi larga accoglienza e aiuti a dare al dibattito politico, al di là dei problemi urgenti, quella profondità senza la quale non possiamo superare la sfida del nostro momento storico. Grato per la Sua opera Le auguro di cuore la benedizione di Dio.
Benedetto XVI


A tutte le Amiche e Amici,
Come tutti (o quasi) sapete il Benedetto XVI con una iniziativa che crea un precedente pericoloso, ha scritto una prefazione in forma di lettera ad un saggio del sen. Marcello Pera, il capostipite degli “atei devoti” in Italia. In questa lettera il papa fa una equazione tra cristianesimo e liberalismo, ponendo così le premesse teoriche per una religione civile e giustificando tutte le ingiustizie economiche di cui è causa il liberalismo che genera l’aberrazione economica del libero mercato. Poiché non rappresento alcuno e non voglio dare adito ad accuse di complotto, dopo essermi consultato con alcuni amici, per la terza volta, mi assumo personalmente e pubblicamente la responsabilità di contestare al papa affermazioni opinabili e criticabili, sulle quali egli non esercita alcun magistero. Sì, su tante materie, anche il papa sbaglia: sbaglia quando vuole riportare la liturgia al passato; sbaglia quando permette di fare leggere pubblicamente la Bibbia a personaggi politici che sono la negazione della Parola di Dio; sbaglia quando fa affermazioni che contraddicono il Concilio ecumenico Vaticano II e sbaglia quando contraddice se stesso, come dimostro nell’appello pubblicato.

Poiché nel mondo cattolico, non ho visto eccessive prese di distanza dalla prefazione del papa al saggio di Pera che secondo me è grave e densa di conseguenze negative, offro a quanti lo vorranno un breve testo di risposta. Chi lo condivide, può firmarlo, chi non lo condivide può passare oltre. Le firme raccolte non hanno lo scopo di essere spedite, ma hanno solo la funzione di una testimonianza personale davanti alla propria coscienza, alla Chiesa e al Mondo. Verrà un giorno in cui i credenti e anche i non credenti di questi tempi verranno accusati di avere taciuto, rassegnati di fronte ad una situazione disastrosa di Chiesa e di civiltà. Non voglio essere tra gli accusati, ma voglio porre una pietra a sigillo di una presenza sofferta, eppure piena di speranza.
Invito tutti coloro che sono attenti e sensibili a queste cose a diffondere il documento ...
A tutti e a tutte un abbraccio sincero

Paolo Farinella, prete - Genova

martedì 16 dicembre 2008

Apologia del '68?

E' uscito oggi il nuovo supplemento di Appunti alessandrini, AP - Supplemento, che uscirà più o meno regolarmente a metà mese. Viene pubblicato in esso, oltre all'importante editoriale di Agostino Pietrasanta, un mio articolo sul "famigerato" 68. Esigenze di spazio hanno costretto a ridurlo più o meno a metà, considerando solo un aspetto di quegli anni e di quel "movimento", quello più legato al mondo cattolico. Ripropongo qui l'articolo nella sua integralità, come riflessione nella ricorrenza del quarantesimo di quell'evento.

Non sono un sessantottino. Nel senso che il ’68 l’ho vissuto, ma non l’ho fatto: a quel tempo ero un diciottenne tutto preso da una ricerca vocazionale, decidere cioè che fare della mia vita e del mio futuro. E quando è iniziato “l’autunno caldo” del ’69 io entravo nel Seminario di Milano… Ma sia pure da “spettatore”, avevo intorno in quegli anni tanti che partecipavano da attori alle lotte, alle speranze, ai sogni, alle illusioni e anche alle successive degenerazioni e non potevo in qualche misura non essere coinvolto. Tanto che quando sento il ministro La Russa, tra i tanti, dire che i critici dei militari nelle strade a far servizio d’ordine pubblico sono “i sessantottini”, mi sento tirato in causa. Da personaggi poi che il ’68 l’hanno fatto manganellando chi non la pensava come loro… ”Sessantottini” è una parola che circola da quarant’anni ormai quasi sempre con un significato negativo, soprattutto negli ultimi anni segnati da un clima di revisionismo storico, con molte punte di disonestà intellettuale causata da meschini interessi elettorali. E pur sapendo che per chi ha vissuto quegli anni l’analisi mescola l’obiettività con il coinvolgimento emotivo perché per molti quel periodo è coinciso con la giovinezza, vorrei tentarne una valutazione per non lasciare che il quarantesimo anniversario non sia celebrato solo dai tanti che sono in-tervenuti in questo dibattito al solo scopo, sia da destra che da sinistra, di de-nigrare, affossare, mistificare, ridimensionare, sminuire o ridicolizzare la portata rivoluzionaria di tale periodo; o sostanzialmente dicendo: “La generazione del '68 è stata bella, come lo sono i sogni, sì, è stata "la meglio gioventù", ma oggi è definitivamente tramontata, ora sono altri tempi, teniamoci il riformismo, il "mercato", la globalizzazione, Berlusconi, e amen!”.
Quello che ancor oggi va sotto il nome di “'68” riguarda un processo storico che in realtà copre più anni, prima e dopo quella data, fu un fenomeno di por-tata internazionale, che anzi per molti aspetti si configurò in una dimensione mondiale, sia pure con caratteristiche molto diverse fra un paese e l'altro, tra un continente e l'altro. È questo il motivo per cui si può parlare di un fenomeno “epocale” (senza che questa costatazione comporti necessariamente un giudizio di valore). Dopo il 1968 c’è stato il 1969, e prima il 1967 e tutti gli anni che hanno fatto del 1968 quello che è stato. Ma il 1968 fu l’epicentro di una svolta, di un cambiamento fondamentale; segnò la nascita del nostro mondo postmoderno. Nel 1968 scoppiò in tutta la sua virulenza la questione nordirlandese; l’ETA scelse la lotta armata; Robert Kennedy viene drammaticamente assassinato, preceduto circa due mesi prima dall’assassinio di Martin Luther King e l’ “I have a dream” di King non resta una frase morta, messa li senza significato e senza futuro, ma diventa soprattutto tra tanti giovani di tutto il mondo una bandiera, un concetto di aggregazione e nello stesso tempo di cambiamento, come l’ “american dream” di John e Robert Kennedy; è anche l’anno in cui il Biafra stava combattendo una sanguinosissima e destinata alla sconfitta guerra di indipendenza dalla Nigeria, che impediva ogni aiuto alla piccola regione de-vastata dalla fame; in Cecoslovacchia i carri armati sovietici reprimono nel sangue la contestazione non violenta della “primavera di Praga”; il 2 ottobre l’esercito messicano sparò su una manifestazione di studenti alla vigilia delle Olimpiadi di Città del Messico: furono uccise tra le duecento e le trecento per-sone; sempre in quell’anno diventa pubblica la notizia che a My Lai, in Viet-nam, la 23a divisione di fanteria statunitense aveva massacrato circa cinque-cento civili disarmati, tra cui vecchi, donne e bambini, tra atroci e bestiali vio-lenze. L'Italia ebbe una sua peculiarità nel contesto europeo e visse una sorta di “'68 prolungato”. Detto in estrema sintesi, il “'68 lungo” italiano si articolò nel '67 come “l'anno del Vietnam”, nel '68 come “l'anno degli studenti” e poi nel '69 come “l'anno degli operai”. Una vera e propria “rottura” si determinò con la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, da cui ebbe inizio la strategia della tensione e delle stragi e che segnò la “perdita dell'innocenza” di una intera generazione, che si trovò per la prima volta in modo così brutale e tragico a fare i conti con la violenza politica.
In questo contesto la speranza di molti fu di andar oltre la crisi. Ma con un forte e ideologico desiderio di far piazza pulita del passato e della tradizione, senza avere in tasca qualche scampolo di progettualità: sembrava che il positivo potesse sorgere per miracolo dalla distruzione. Molti enunciavano: «Prima di tutto occorre distruggere, poi si vedrà». Nuclei fondamentali vennero presi di mira attraverso una critica non senza fondamenti ma spesso esasperata, mettendo in discussione una dopo l'altra le strutture e le istituzioni: famiglia, scuola, fabbrica, quartieri cittadini, informazione, repressione, rapporti sessuali, rapporti generazionali, carceri, manicomi, forme della politica e anche le forme della religione (non a caso, si è manifestata con forza e diffusione anche una “contestazione ecclesiale” negli anni del dopo-Concilio e il cosiddetto “dissenso cattolico”). Solo oggi intravediamo che si cercò di cambiare l'uomo, e che la «questione antropologica» iniziò proprio allora. Non molti se ne accorsero; forse qualche filosofo, in specie Marcuse col suo “L'uomo a una dimensione”, im-mediatamente accolto come un libro profetico. Le sue tesi ci appaiono ora usurate, eppure il tema era stato posto individuandone il centro: il grande dibattito sull'uomo. Il '68 ha cercato di cambiare l'uomo, e in certo modo vi è riuscito. Il '68 non ha avviato una rivoluzione politica (nonostante il gran parlarne), poiché non ha prodotto nessuna nuova istituzione politica. Ha piuttosto innescato una trasformazione spirituale, ponendosi come un evento di crisi nel senso originario del termine, ossia uno spartiacque che divide il prima e il dopo. Uno dei suoi obiettivi polemici fu la realtà stessa della tradizione, sostituita dal cambiamento permanente. Si verificava così la verità di un detto pensato per altre rivoluzioni: in tempo di rivoluzione tutto ciò che è antico è nemico. Da questo atteggiamento derivava anche la priorità della critica sull'edificazione, del negativo sul positivo. Il contro era uno scopo in sé, qualcosa che si giustificava da solo e che rinviava ad un domani indeterminato il momento positivo. Ma è indubbio che allora i giovani avevano un gran voglia di partecipare e un grande senso critico e oggi invece il senso critico non ce l'hanno più. Così il ’68 appare interpretabile come un fenomeno di modernizzazione sociale, culturale e politica, all'insegna soprattutto di una dimensione “anti-autoritaria”. Si potrebbe dire che il movimento del '68 è stato il primo grande fenomeno di “globalizzazione” e di mondializzazione che si sia manifestato: un fenomeno culturale e politico, ma anche di costume e di stili di vita, verificatosi ben prima che prevalesse la globalizzazione di carattere economico-finanziario. Un grande limite fu però che un movimento che rappresentava, nelle sue espressioni più autentiche e significative, il massimo di “anticipazione del futuro”, si ritrovò ad adottare, da un certo momento in poi, il linguaggio ideologico del marxismo e del leninismo, in tutte le loro varianti.
Gli anni ’60-’70 andrebbero poi ripercorsi dalla parte dei cattolici e si scopri-rebbe che il contributo dato è molto importante. Nel 1965 si chiude il Concilio Vaticano II che racchiuse in sé molta profezia e molta “anticipazione” di cam-biamenti ancora in embrione, ma già vivi e attivi nella storia; nel 1967 Paolo VI pubblica l’enciclica Populorum Progressio con una nuova visione mondiale: “Lo sviluppo dei popoli, in modo tutto particolare di quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà; una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono con decisione verso la meta di un loro pieno rigoglio…”; e dedica il 1 gennaio 1968 alla Giornata Mondiale della Pace persuaso che la pace “si fonda soggettivamente sopra un nuovo spirito, che deve animare la convivenza dei Popoli, una nuova mentalità circa l'uomo ed i suoi doveri ed i suoi destini” e non su una “falsa retorica di parole”. Molte pagine richiederebbe lo studio e l’analisi delle ripercussioni non solo ecclesiali che hanno avuto figure che qui possiamo solo nominare: don Lorenzo Milani e la Scuola di Barbiana (è del ’67 la “Lettera ad una professoressa”); padre Ernesto Balducci; Andrea Riccardi che iniziò ad andare nella periferia romana, tra le baracche che in quegli anni cingevano Roma, e cominciò un’attività che successivamente divenne la Comunità di Sant’Egidio; In Sicilia, a Partinico, Danilo Dolci sperimenta il metodo “maieutico”, che valorizza la cultura e le competenze locali, il contributo di ogni collettività e ogni persona; a Nomadelfia, comunità di famiglie vicino a Grosseto fondata da don Zeno Saltini nel 1948, nasce la scuola “familiare”: secondo don Zeno la peculiarità di questa scuola è “vivente”, perché ogni momento della vita è scuola in quanto l'ambiente familiare, sociale e naturale nel quale i ragazzi vivono è di per sé educativo. Con Livio Labor le ACLI maturano la scelta di puntare su un rinnovamento della presenza politica dei cattolici, una presenza che deve incamminarsi sul sentiero delle riforme, attraverso forme di animazione culturale e pressione sociale. Vittorio Bachelet con l’Azione Cattolica è protagonista della scelta religiosa, scelta della mediazione culturale e sociale come stella polare dell’impegno cristiano nel mondo: "Se per impegno politico si intende fare il galoppino elettorale di qualcuno o di qualche gruppo, l'Azione Cattolica non pensa davvero che questo sia il suo compito. Se invece è l'aiuto e l'invito ri-spettoso a riferire il proprio impegno e la propria azione alle grandi matrici della ispirazione cristiana, a realizzare l'unità tra fede, vita e azione e ad assumere con coerenza le proprie responsabilità, allora si tratta di quel compito di formazione delle coscienze che ci è proprio". Sempre nel 1968 Gioventù Studentesca cambia nome e assume quello di Comunione e Liberazione, fondata da don Luigi Giussani, che pone al centro dell’agire umano l’esperienza cristiana: “Autenticità, esigenza d’autenticità: questo è il valore che è stato nel cuore di allora, della “sommossa”. Pensiamo alla nostra presenza nella Chiesa, per esempio: capite che noi siamo trattati da contestatori? Noi, per gli altri, fino a un certo punto, siamo parte del fenomeno del ’68: i contestatori” (ne è passata di acqua sotto i ponti… nda). È interessante segnalare la posizione di dialogo assunta in quegli anni dalla “Pro Civitate Christiana”, fondata da don Giovanni Rossi ad Assisi. I giovani “non chiedevano una Chiesa senza autorità, ma solo un diverso esercizio dell’autorità”, sottolinea padre Giuseppe De Rosa su “Civiltà Cattolica”, attraverso nuove e più efficienti strutture di comunione che li rendano corresponsabili e partecipi della vita della Chiesa. Un capitolo a sé me-riterebbe poi uno studio, approfondito e sereno dell’esperienza dei “preti ope-rai” e di tutta la vasta area del cosiddetto “dissenso cattolico”, che molto spesso fu portatore di autentiche esigenze evangeliche (e conciliari) che la Chiesa “Istituzione” non aveva (e non ha) il coraggio di fare sue.
Chiudo non con un giudizio complessivo, impossibile, ma con una citazione che è nostalgia per un aspetto che oggi scarseggia, purtroppo: “Quello che entusiasma del 1968 è che, allora, settori significativi della popolazione rifiutarono ovunque il silenzio sulle tante cose sbagliate che c’erano nel mondo”. dwf

mercoledì 10 dicembre 2008

Se il Vescovo fa il tifo per Maometto

Dopo il piccolo panorama di reazioni al discorso del Card. Tettamanzi che ho già offerto, su segnalazione dell'amico Dario Fornaro, propongo anche un articolo di Mario Cervi da www.ilgiornale.it che merita davvero una citazione! Consiglio anche di leggere sullo stesso sito i commenti dei lettori: un bel panorama di cattolici pieni di spirito di Vangelo. Tutti a piangere sulle chiese vuote, ma se le chiese piene di un tempo hanno prodotto simili cristiani...

Da sinistra, il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni,il cardinale Paul Poupard, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo inter-religioso, il segretario del Centro culturale islamico Abdellah Redouane, l’imam Sami Salem della moschea di Roma e il sindaco di Roma Walter Veltroni, durante la stretta di mano collettiva e simbolica che ha concluso in Campidoglio la cerimonia, promossa da Veltroni per presentare la nuova rivista Conoscersi e convivere, dedicata al dialogo culturale e religioso, Roma, 19 settembre 2006


Per Sant’Ambrogio, l’arcivescovo di Milano cardinale Dionigi Tettamanzi si è rivolto ai suoi fedeli con un discorso nutrito di citazioni suggestive e di grandi insegnamenti della Chiesa. Il linguaggio del pulpito e delle pastorali mi ha sempre affascinato, per il suo continuo appellarsi a una fede millenaria. Provo perciò disagio - da laico - nel muovere osservazioni ad alcuni passaggi che mi sembra scadano dal verbo religioso all’imperversante «politicamente corretto». Tettamanzi insiste sull’esigenza del «dialogo»: aggiungendo che esso «esige come condizione fondamentale l’attenzione all’altro, la propensione ad ascoltarlo e perfino comprenderlo, anche quando non se ne condividono le vedute».
Giustissimo. Ma, con tutto il rispetto, questa è la semplice enunciazione di principi liberali piuttosto collaudati e risaputi, anche se in realtà non sempre applicati. È bene che anche la Chiesa li ribadisca. Ma penso che i credenti veri s’aspettino dal pastore un messaggio trascendente, un richiamo a verità eterne. I precetti di buona creanza civica li può declamare - il più delle volte senza crederci - qualsiasi comiziante. So che il famoso dialogo manda in sollucchero una certa sinistra sempre rivendicante una sua superiorità culturale e morale, eppure spesso incline all’insulto. Ma il fariseismo degli antipatici non è mai piaciuto al gregge dei devoti, degli umili, se volete degli ingenui. Mi auguro che non piaccia nemmeno al cardinale.
Oso un altro appunto. Dopo frasi ispirate, l’arcivescovo Tettamanzi si occupa d’un problema pratico: dove trovare «tempo e spazi adeguati» per rendere più umana la vita quotidiana? Ed ecco l’amara diagnosi. «Abbiamo bisogno di luoghi di preghiera in tutti i quartieri della città. Ne hanno un bisogno ancora più urgente le persone che appartengono a religioni diverse da quella cristiana, in modo particolare all’Islam». Una crociata - scusate la contraddizione - per le moschee? L’arcivescovo si batte per i luoghi di culto d’una religione che, là dove ha potere, considera reato il proselitismo cristiano?
Aborro sia i veti sia i ghetti. E non voglio aver l’aria di dare suggerimenti a chi di sicuro non ne ha bisogno. Ma le chiese cristiane vuote o semivuote, le vocazioni sacerdotali languenti, gli attacchi - nel nome d’un anticlericalismo d’antàn - a simboli e riti del cattolicesimo sono forse più che le moschee e prima che le moschee temi di dibattito attuale e drammatico. O, se Tettamanzi preferisce, di dialogo.
Mario Cervi

lunedì 8 dicembre 2008

La Città rinnovata dal dialogo

Milano, Basilica di Sant’Ambrogio
5 dicembre 2008
Primi Vespri della solennità di Sant’Ambrogio
Discorso alla Città


Carissimi,
nel nome di sant’Ambrogio, patrono della nostra Città e della nostra Diocesi, rivolgo a tutti e a ciascuno di voi il mio saluto sincero e affettuoso.
Il santo, che in questi giorni ricordiamo e celebriamo, ha contribuito in modo straordinario a rendere unica e grande la storia di Milano. Anche oggi la sua testimonianza si offre a noi come prezioso apporto per continuare, grazie anche all’innegabile impegno dei cristiani, l’opera di costruzione di una comunità civile sempre più aperta e accogliente, amante della vera libertà, solidale, attenta alle esigenze di tutti, specie dei più deboli, capace di speranza e di coraggio.
Un compito, questo, che ci interpella tutti e che – ne sono sicuro – è la principale preoccupazione degli amministratori locali e di quanti sono investiti dell’alta missione di governare e di sovrintendere alla res pubblica.
Sull’esempio di Ambrogio - uomo, vescovo, santo, che scelse di rimanere in continuo dialogo con la “sua” Città -, vorrei anch’io offrire il mio contributo, riflettendo questa sera con voi sul fondamentale tema del dialogo, vera e propria emergenza del nostro tempo, a Milano e non solo.


1. L’UOMO SAPIENTE E GIUSTO È L’UOMO DEL DIALOGO

Il dialogo non è uno tra i tanti atteggiamenti che l’uomo può assumere e vivere, ma è un tratto fondamentale, costitutivo, oso dire ontologico, della sua umanità. Il dialogo deve essere assunto come atteggiamento stabile nell’uomo: non sempre è dote innata, bensì – più spesso - è virtù che l’uomo sapiente sa ricercare e coltivare, anche a prezzo di fatica.
Così sant’Ambrogio scrive dell’uomo sapiente, commentando il versetto biblico «Lo stolto muta come la luna» :

«Il sapiente non è abbattuto dal timore, non è mutato dal potere, non è esaltato dalla prosperità, non è sommerso dalla sventura. Dove c’è la sapienza, c’è la virtù dell’animo, ci sono la costanza e la fermezza. Il sapiente, dunque, è immutabile nell’animo, non è diminuito né accresciuto dal mutar delle cose né “vacilla come un bimbo così da essere sballottato da ogni vento di dottrina”, ma rimane perfetto in Cristo, “fondato nella carità”, “radicato” nella fede. Il sapiente dunque ignora i cedimenti delle cose e non sa essere mutevole d’animo, ma “risplenderà come il sole di giustizia”, che rifulge nel regno di suo Padre» .

Di nuovo, anche quest’anno, ci guida nelle nostre riflessioni il paradigma dell’uomo sapiente secondo Cristo, un uomo che in momenti a volte oscuri e critici resta immutabile nell’animo, non viene sballottato da ogni mutevole pensiero o dottrina, ma permane radicato nella sua fede e nella sua carità, segue sempre la bussola della giustizia. È certamente un ideale forte, questo, in un tempo di ideali deboli e sfocati, ma l’uomo che vediamo dedito al dialogo non può che essere così, libero e ben saldo nella sapienza.
Questa non è patrimonio esclusivo dei colti o degli studiosi, ma è per tutti, anche per i poveri, i semplici, gli umili, perché – lo riconoscono i credenti – scaturisce dalla sapienza di Cristo. Essa ci aiuta a “distinguere”, a capire in profondità il tempo, a discernere ciò che è bene da ciò che è male, a dare il vero peso alle realtà e alle vicende della vita, a muoversi secondo le ispirazioni che Dio suscita nella coscienza, a confrontarsi con gli altri.
Una sapienza che è profondamente alleata con la giustizia, come ci ricorda sant’Ambrogio nel suo libro sui “Doveri”:

«Risulta dalla Scrittura divina, più antica dei filosofi, che la sapienza non può esistere senza la giustizia, perché dove si trova una si trova anche l’altra. Con questa sapienza Daniele smascherò le menzogne di una falsa accusa per mezzo di un interrogatorio approfondito, sicché le risposte dei calunniatori si contraddissero tra loro. Fu compito della prudenza smascherare i colpevoli con la testimonianza della loro stessa voce, ma fu anche compito della giustizia mandare al supplizio i colpevoli e salvare l’innocente» .

E, dunque, la sapienza costruisce percorsi di giustizia, “regola” la vita sociale, difende l’innocente, tutela il più debole. Non è oggi questo uno dei compiti primari della civiltà e delle istituzioni? E di ciascuno di noi, che non si esercita in un amore generico bensì si fa operatore di giustizia e, per ciò stesso, diventa costruttore di pace e di speranza?
L’uomo sapiente e giusto sta “saldo nel suo cuore”, come ancora scrive il nostro patrono:

«State dunque saldi nel vostro cuore, affinché nessuno vi faccia vacillare, affinché nessuno possa farvi cadere (…). In voi non ci sia pigrizia, non ci sia bocca maligna, lingua piena d’amarezza. Non vogliate sedere in un’assemblea di uomini vani (…). Non vogliate ascoltare i detrattori del prossimo, perché, mentre ascoltate gli altri, non siate indotti a criticare anche voi il prossimo (…). Sta ritta invece la vedetta previdente, la sentinella vigilante, che monta di guardia all’accampamento (…). Chi sta ritto, sta attento a non cadere; chi sta ritto, non sa criticare; infatti le dicerie sono proprie degli sfaccendati, per opera dei quali si seminano le critiche, si diffonde la malignità…» .

Come non riconoscere in quest’uomo “saldo nel suo cuore” l’uomo del dialogo: l’uomo che non accetta le insinuazioni maligne; l’uomo vigilante, che sta di sentinella perché la sua sapienza non cada, per non divenire iniquo, per amare il suo prossimo?
Cristo stesso si offre a noi come mirabile esempio di uomo in dialogo: con il Padre anzitutto, con le persone del suo tempo, con chi gli era discepolo, con chi lo minacciava, con chi aveva visioni della vita e della storia differenti dalla sua. Un dialogo che in Gesù, pienezza di verità e sapienza incarnata, è appassionato e rispettoso appello alla libertà dell’altro, perché decida sempre per il vero e per il bene.


2. ALLA RICERCA DI UN DIALOGO POSSIBILE

Avendo nel cuore la presenza di Cristo, testimonianza intramontabile dell’uomo in dialogo, ripenso all’uomo sapiente descritto da Ambrogio. E più d’una domanda mi colpisce e inquieta: “È ancora possibile un dialogo?”, anzi: “È ancora possibile il dialogo?”, non un dialogo qualsiasi, ma il dialogo. E ancora: “Quanto siamo oggi disponibili a dialogare o almeno a considerare il dialogo uno strumento importante per il nostro vivere personale e sociale?”.

È possibile, oggi, dialogare a Milano?

Guardando alla nostra amata Città mi si ripropongono domande analoghe: “Sappiamo dialogare a Milano?”, “Crediamo nel dialogo, insostituibile atteggiamento per abitare insieme, tutti, a pieno titolo, la nostra Città?”, “Quanto, dunque, ciascuno di noi è disponibile al dialogo?”.
Osservando la nostra Città, incontrandola nei suoi quartieri, nelle sue parrocchie, nelle sue associazioni, nelle sue espressioni di impegno sociale e civile, visitandola nei luoghi dell’educazione e della sofferenza, ne ricavo sempre di più l’immagine di una grande città fatta da tante piccole isole, spesso non comunicanti tra di loro.
Le periferie distanti dal centro (e non solo spazialmente), le istituzioni percepite come lontane dai cittadini, i giovani che rischiano di essere separati dagli adulti, i “nuovi venuti” non in piena comunicazione con chi è milanese da più tempo, chi ha un lavoro sicuro e ben remunerato disattento a chi è precario o disoccupato, chi ha una casa da abitare con la propria famiglia ignaro del grave disagio di chi non riesce ad ottenerla, chi è sano e a volte è insensibile rispetto a chi vive il dramma della malattia…
Anche la stessa “nuova” toponomastica sembra suggerire, al di là della necessaria e ordinata organizzazione delle funzioni urbane, questa divisione: la città della moda, la città della salute, la città dei servizi, la città della fiera, quella della tecnologia, i nuovi quartieri “esclusivi” ben isolati e protetti dai confinanti.
Quante fatiche subisce il dialogo nella nostra Milano!

Il mistero della reciprocità

A quali condizioni il dialogo è possibile?
Il dialogo autentico esige come condizione fondamentale l’attenzione all’altro, la propensione ad ascoltarlo e perfino a comprenderlo, anche quando non se ne condividono le vedute.
Si tratta di un esercizio ascetico vero e proprio, che ha bisogno di pratica continua e di verifiche costanti, di un’umiltà grande per ricominciare ogni volta da capo.
Non è semplice dialogare. Non è facile. Mette in gioco tutto di noi stessi: l’identità, la storia, la persona. La relazione nel dialogo non può essere generica: ha bisogno di un “tu”, ma anche di un “io”, di una persona che, non avendo paura dell’altro, si lascia coinvolgere in questa affascinante esperienza che rende unico e contraddistingue l’essere umano dal resto del creato. Il libro biblico di Genesi, al suo inizio, mostra come Adamo diventi pienamente uomo quando può entrare in dialogo con Eva, suo simile, e con Dio, il Creatore: l’uomo è costitutivamente un essere-in-dialogo .
Il dialogo ci immette nel mistero della reciprocità, nel mistero della prossimità umana e cristiana. Ciascuno, dialogando, mostra il proprio volto più autentico.
Ma quanto siamo disponibili a lasciarci coinvolgere in questo mistero, ad affrontare la sfida della prossimità, quel “farci prossimo” all’altro – sconosciuto e ferito – come il buon samaritano? .
Ci è chiesto un cammino personale. L’uomo infatti – pur avendone in sé dei tratti innati - a dialogare impara. Impara cioè a comprendere l’altro. E comprendere esige una disponibilità iniziale che ci fa lasciare alle spalle ogni egoismo ed ogni individualismo, anche i più nascosti ed i più sconosciuti. È necessario un cammino interiore progressivo, deciso e ordinato.

La virtù della comprensione

Per il dialogo è richiesta in particolare la virtù della comprensione, virtù negletta nell’era in cui sembra trionfare ogni genere di egoismo.
Scrive Romano Guardini:

«L’inizio di ogni comprensione sta nel fatto che uno consenta all’altro la libertà d’essere quello che è; che non lo consideri con l’occhio dell’egoismo prescrivendogli dalla prospettiva del proprio interesse ciò che ha da essere, ma con l’occhio della libertà, la quale dice anzitutto: Sii quello che sei; e solo dopo: Ed ora vorrei sapere come sei e perché. Ogni comprensione [...] presuppone che si consenta all’altro il suo diritto a sé medesimo: che non lo si guardi come un elemento del proprio ambito vitale, di cui ci si serve, ma come un essere che possiede un centro originario, un suo ordine di vita, desideri e diritti propri» .

Per iniziare il dialogo occorre riconoscere e rispettare la libertà dell’altro, consentirgli di essere se stesso, senza imposizioni e pretese. Non è dialogo quello che costringe e riduce l’altro ad essere come lo vorremmo, a nostra immagine e somiglianza: è invece da scoprire sempre nella sua irripetibile unicità. Ad immagine e somiglianza di Dio, ci porta ad affermare la fede cristiana. Solo l’occhio della libertà riconosce la persona, la sua unicità. Solo così può cominciare il dialogo.
Ogni volta che le nostre azioni, i nostri appelli, i nostri provvedimenti (parlo come pastore, ma so di interloquire con amministratori, educatori, genitori…) lasciano trasparire solo la domanda “Perché fai questo?”, inchiodando l’altro al suo gesto, fosse anche al suo errore, in realtà - prima di riconoscerlo come persona nella sua unicità e irripetibilità – non lo stiamo forse riducendo alla nostra misura?
La domanda sul “perché” è legittima e necessaria, ma non può essere così “rapida” da schiacciare la persona e la sua libertà: il dialogo esige anche tempo, quel tempo che è sempre più scarso, pressati come siamo da mille cose e mille impegni. Ma concederci più tempo ci aiuterebbe a metterci di fronte a noi stessi, a guardarci dentro, a fare chiarezza, a scorgere le nostre debolezze e ad assumerci le nostre responsabilità!
Solo a queste condizioni il dialogo diventa possibile. Ovviamente ciò che vale per i singoli, vale anche, se pure con modalità differenti, per le diverse componenti sociali, per le diverse generazioni, per le parti politiche, per i popoli, i laici e i credenti, le diverse razze, nelle istituzioni, dentro la Chiesa…
Nella comprensione dell’altro e riconoscendo la sua libertà, non ci sarà mai la pretesa dell’asservimento al proprio punto di vista, ma l’incontro cordiale e attento, che cerca di comprendere le ragioni dell’altro anche quando non si condividono. Un simile incontro è l’occasione opportuna per testimoniare con rispetto i propri valori e per costruire tutti insieme la Città che tutti vogliamo, una Città sempre più a misura d’uomo.

La Città chiamata all’incontro delle genti e delle culture

Intraprendiamo insieme, con determinazione, il cammino del dialogo. Lo ritengo urgente: la nostra Città ne ha un bisogno profondo, forse mai come oggi.
Solo in un clima di dialogo autentico e vero, non con gli slogan e con i proclami estemporanei, potremo rinnovare la Città e iniziare così la costruzione della Milano del futuro.
Nel dialogo e nell’incontro la Città mostrerà il suo volto più vero, più amabile e, in definitiva, il suo volto autentico. È una Città, la nostra, da sempre chiamata all’incontro delle genti e all’incontro delle Città: in questo si giocherà la sua identità e metterà in evidenza la sua anima. È una Città che non può mancare un appuntamento così importante e che può dare molto nell’incontro con le culture e le genti. Milano è un crocevia naturale, sede di incontro, di scambio tra persone e culture e tradizioni diverse: e questa naturalità nei secoli si è saldata con l’identità cittadina.
Ma una città che assume come proprio tratto sintetico, distintivo, il volto del dialogo, non corre il rischio di divenire un luogo senza identità precisa?
No, sono fermamente convinto che il dialogo rafforza l’identità, la arricchisce, la rinnova, la proietta verso il futuro. La paura di indebolire o di perdere, nel dialogo, la nostra identità non è forse segno di una identità già indebolita, se non addirittura estenuata, all’insegna del “Tutto è eguale. Tutto è relativo”? Siamo stati disposti ad un percorso debole nella storia occidentale, perché abbiamo ritenuto che questo ci permettesse di vivere meglio, più comodamente, senza problemi di confronto, consentendoci individualismo e separazione, lasciando ad ognuno di vivere il proprio fondamentale egoismo.
Adesso però la sfida, anzitutto culturale, portata alle nostre Città dai popoli e dalle genti che domandano cittadinanza ci provoca a questo inevitabile confronto. È venuto il tempo, ed è questo, di rinnovare e accrescere la disponibilità all’incontro e al dialogo, per scoprire e ricordarci “chi” veramente siamo.
Ci vuole coraggio. Abbiamo bisogno di donne e uomini desiderosi, animati, anzi appassionati del dialogo autentico.

Le voci già in dialogo

Ma l’opera che abbiamo definito urgente, quella cioè della costruzione di una Città che sa dialogare, non inizia da zero.
Tante positive esperienze di dialogo sono già in atto. Esperienze a volte piccole, che non hanno l’onore della cronaca ma che, se si scruta con attenzione, possono essere riconosciute e mostrate. Sono segni incoraggianti, da leggere: c’è già chi tra noi crede, vuole e pratica il dialogo.
Non è questa la sede per elencare tutte queste esperienze. Mi limiterò a citarne alcune con le quali, da vescovo della Chiesa ambrosiana, ho maggiore familiarità.

Penso, ad esempio, al dialogo con le persone più bisognose di relazione, anzitutto gli anziani. Per loro la solitudine, la mancanza di dialogo è una povertà grande che nella nostra Milano coinvolge una percentuale considerevole di popolazione. Ma tanti cittadini, tante associazioni (sia laiche sia espressione del volontariato cattolico), alcuni servizi pubblici sono già attivi per entrare in dialogo con loro e assicurare una presenza amica.

Lo stesso si può dire a proposito di coloro che vengono da paesi lontani. Troppe volte, e con troppa insistenza, negli ultimi tempi si è pensato allo straniero soltanto come ad una minaccia per la nostra sicurezza, per il nostro benessere. Pregiudizi e stereotipi che hanno impedito un dialogo autentico con queste persone, causando spesso il loro isolamento, relegandole così in condizioni che hanno provocato e provocano illegalità e fenomeni di delinquenza.
Ma noncuranti delle tante, troppe, eccessive polemiche dei mesi scorsi, molte persone, in modo silenzioso e nel nome della propria fede e di un alto senso umanitario, hanno operato per assistere questi nuovi venuti nei loro bisogni elementari: il cibo, un riparo, degli indumenti, la cura dei più piccoli. Penso alla Caritas e alle sue molteplici emanazioni, alla Casa della Carità, a quegli interventi delle amministrazioni locali che hanno saputo distinguersi per intelligenza, vivo senso umanitario, creatività. Penso al buon cuore anche di tanti semplici cittadini e ai loro piccoli ma sinceri gesti di aiuto.
Tutto ciò è segno di un dialogo già in atto. Un dialogo forse ancora troppo flebile, da incoraggiare e sostenere, ma che dice del riconoscimento della comune condizione umana cui tutti, italiani e stranieri di qualsiasi etnia, apparteniamo. Il dialogo franco e sincero, la vicinanza paziente favoriranno l’inserimento degli immigrati nel tessuto delle città, contrastando così il rischio che cadano vittima dell’illegalità.
Questi segni positivi e carichi di speranza domandano però di essere preceduti, accompagnati e sostenuti da un approccio culturale nuovo nei confronti degli immigrati, così che gli interventi nei loro confronti non si risolvano con la delega a chi si occupa di assistenza e non siano motivati solo da provvedimenti d’emergenza. Occorre, con una visione complessiva del fenomeno, guardare agli immigrati non solo come individui, più o meno bisognosi, o come categorie oggetto di giudizi negativi inappellabili, ma innanzitutto come persone, e dunque portatori di diritti e doveri: diritti che esigono il nostro rispetto e doveri verso la nuova comunità da loro scelta che devono essere responsabilmente da essi assunti. La coniugazione dei diritti e dei doveri farà sì che essi non restino ai margini, non si chiudano nei ghetti, ma - positivamente - portino il loro contributo al futuro della città secondo le loro forze e con l’originalità della propria identità.
La persona non si definisce però solo per un insieme di diritti e di doveri, ma per un quadro di valori, uno stile di vita, una visione del mondo, una religiosità: in una parola, per una “cultura”. In tal senso dialogare con gli immigrati significa entrare in contatto con la loro cultura, conoscerla, apprezzarla, valorizzarla perché essi, a loro volta, conoscano, apprezzino e valorizzino la nostra cultura, il nostro modo di vedere e di vivere. Certo, occorre tempo, tanto tempo; occorre pazienza, apertura, passione, desiderio di dialogare per crescere insieme e approdare ad una nuova sintesi culturale che caratterizzerà la Milano di domani: una Milano dei milanesi da generazioni (ma sono pochi perché gli attuali milanesi vengono da ogni parte d’Italia…) e dei “nuovi” milanesi. Per il suo alto valore simbolico più che per la rilevanza numerica desidero qui ricordare l’iniziativa delle visite guidate in Duomo destinate agli stranieri che vivono in città: e così il nostro Duomo – ne sono certo – diventerà a poco a poco anche la loro casa, il simbolo in cui identificarsi, il loro orgoglio.

Non posso poi non citare la felice esperienza del Consiglio delle Chiese Cristiane, nato nella nostra città dieci anni fa, per iniziativa di alcune Chiese e progressivamente accresciuto fino ad abbracciare oggi 18 confessioni cristiane. Tante le iniziative comuni realizzate insieme in questi anni ed è significativo che lo scorso 15 novembre in Duomo, in occasione della solenne messa vigiliare per l’entrata in vigore del nuovo Lezionario ambrosiano, i rappresentanti delle Chiese Cristiane fossero presenti a questo evento storico della Chiesa Cattolica.

Anche con i fedeli dell’Islam è possibile dialogare. Spesso si dice: “L’Islam disprezza le altre religioni ed i loro credenti, non ha il senso dello Stato tipico della tradizione occidentale, non accetta il principio della laicità, è fanatico, strumentalizza la fede per finalità distorte o criminose, non usa la ragione come mezzo nel confronto e nella discussione con i popoli, schiavizza le donne…”.
Sì, ma intanto cominciamo questo dialogo, anzitutto culturale. Cominciamo a discuterne con i credenti dell’Islam, cominciamo a capire se tutto questo è vero o, almeno, se è vero per tutti. Singoli gesti e atteggiamenti, per quanto gravi e da deprecare con forza, non siano occasione per guardare con sospetto ed accusare tutti gli appartenenti ad una religione. Per questo è significativo che in occasione della visita natalizia delle case, i sacerdoti e i laici offrano agli islamici – quale segno di disponibilità al dialogo - una lettera di saluto.
Qualcuno potrà obiettare che per un vero dialogo occorre una disponibilità reciproca. Ma è pur necessario che almeno uno inizi, cerchi l’incontro, stabilisca una relazione. Ci vogliono pazienza, fiducia, onestà intellettuale, rispetto della libertà dell’altro, capacità di ascolto. E lasciare che il tempo faccia crescere quanto di buono è stato seminato.


3. ALLA RICERCA DI UN VOLTO

Del dialogo c’è urgente bisogno e, nello stesso tempo, segni più o meno evidenti di dialogo sono già in atto. È una contraddizione? Quale allora il volto vero della nostra Città?

Il volto della Città

Una risposta potrebbe essere questa: la Città è fatta, costruita, vivificata dai suoi abitanti e il suo volto è esattamente quello di chi la abita. Il volto della Città però non va confuso con la rappresentazione di alcuni tratti, di alcune evidenze: manifestazioni culturali, ardite realizzazioni architettoniche, eccellenze scolastiche e imprenditoriali, i quartieri esclusivi.
Queste sono solo delle “figurazioni” della nostra Città, delle singole fotografie di lineamenti più appariscenti. Ma il volto non è solo questione di apparenza, il volto sa dire della profondità dell’io, del cuore, dell’anima.
Il volto della nostra Città coincide quindi con quello delle persone che la abitano, con le loro bellezze e le loro bruttezze, le loro fragilità e le loro ricchezze, le loro preoccupazioni e speranze.
A volte sembra che questi volti generino un affastellamento casuale, informe, senza coesione: una composizione astratta, dove i tratti distintivi sono sparsi sulla tela in modo disordinato. La negazione stessa di ogni figura. Ma occorre leggere il segno oltre ogni esteriorità, in profondità. La realtà non è solo ciò che si vede. La verità delle persone e delle esperienze ha sempre un “oltre”.
La Città ha il volto dei suoi abitanti. È quindi la composizione di cittadini di antica data e di nuovi venuti, più o meno accettati. Cittadini benestanti e cittadini da poco caduti in condizioni di nuova povertà; cittadini che compiono con abnegazione il proprio dovere, che si occupano con dedizione dei più deboli; cittadini che pensano solo ai propri interessi e a volte li realizzano a danno degli altri.
La Città, ancora, ha il volto di chi progetta il futuro e spera con tutto il cuore che possa divenire migliore; di chi semina paura con azioni malvagie e delittuose; di chi procura e diffonde visioni esageratamente negative. Ha il volto di chi è sul limitare ultimo della vita; di chi è solo; di chi studia e vorrebbe una scuola migliore; di chi è espulso dal mondo del lavoro e non riesce più a rientrarvi; di chi vive come può, di espedienti e di qualche bugia o di qualche mezza verità…
Riusciamo a cogliere in queste molteplici esperienze l’unico volto della nostra Città? È questa la nostra Città, non è un’altra, non è quella perfetta che tutti – ciascuno però a proprio modo – utopicamente vorremmo.
Amiamo, prendiamoci cura, serviamo questo volto concreto della nostra Città!

Il volto sfigurato

Occorre passare quindi dalla “figurazione” alla “trasfigurazione”. Quest’ultimo è un termine caro ai cristiani, perché rimanda immediatamente al volto del Cristo. Il volto trasfigurato di Gesù sul monte Tabor prepara i discepoli a riconoscere nello stesso volto del Crocifisso - questa volta sfigurato - lo stesso Salvatore. La vicenda del Cristo ci insegna che anche il volto sfigurato può essere riconosciuto ed accolto, se amato.
Scrive Paolo VI, già Arcivescovo di Milano, del quale ricordiamo quest’anno il trentesimo anniversario della morte:

«La faccia di Cristo e quella della sua religione ci appare talvolta misera e miserabile, lo specchio dell’infermità e della deformità umana. Ci sembra macchiata, profanata, inetta a irradiare ciò che piace tanto al gusto della gente di oggi: la bellezza sensibile, l’espressione formale, l’apparenza gioiosa. Ci sembra, da un lato, priva di luce sua, non più bella e splendente delle luci artificiali […]; dall’altro, ci sembra privata della luce sua da chi dovrebbe farla risplendere e tenerla alta e consolatrice sulla scena umana. Cioè Cristo e la sua Chiesa sembrano non aver alcuna attrattiva per noi, alcun segreto con cui affascinarci e salvarci».

Ma accanto al mistero, incomprensibile per la ragione umana, del volto sfigurato, ce n’è un altro, forse ancora più incomprensibile ed accettabile solo alla luce della fede: c’è il mistero della Trasfigurazione. È il mistero che sostiene la speranza cristiana, che la orienta e le offre l’indicazione precisa di andare oltre le apparenze, che le mostra una verità ben al di là del semplice sguardo umano.
Il credente - oserei dire - è, o dovrebbe essere, uno che “si intende bene” di ciò che sfigura un volto, ma, allo stesso tempo, è anche uno che sa, o dovrebbe sapere, andare oltre le apparenze, alla ricerca, nel silenzio interiore, del volto della Trasfigurazione.
Persino la Chiesa, a volte, per usare le parole forti di Paolo VI, ci mostra il suo volto più misero e miserabile. Ma i credenti devono andare oltre, alla ricerca del vero Volto, devono diventare protagonisti della riscoperta del volto trasfigurato di Cristo, devono essi stessi “diventare” quella Trasfigurazione!
E qualcosa di analogo possiamo dire di tutti i segni lasciati sul volto della nostra Città - e quindi dei suoi abitanti – dai mali, dalle crisi, dai problemi, dalle incomprensioni, dalle incomunicabilità che la affliggono e la sfigurano. Non sono la parola ultima, la sentenza definitiva!
Ci deve essere posto per la speranza, e tanti segni sono già in atto. Tutti insieme possiamo andare oltre le apparenze – che segnalano comunque sofferenze – e riconoscere nel volto sfigurato la trasfigurazione, il futuro possibile già iniziato.


4. DALLA CONTRAPPOSIZIONE ALL’INCONTRO


Una precisa ferita al volto della nostra Città è quella forte sensazione di contrapposizione che spesso percepisco. Il clima che si respira, nel quale siamo immersi, dal quale siamo condizionati è, appunto, quello dello scontro, non invece dell’incontro, del desiderio e della ricerca di un dialogo libero e attento. Pare di dover dire che siamo gli uni contro gli altri e tutti contro tutti.

Ascoltare e comprendere

Sembra smarrita la capacità di ascoltare e di comprendere.
Si diffonde sempre più un clima scandalistico che promuove denigrazione e disprezzo: chi vive con sobrietà, viene irriso e additato come portatore di recondite intenzioni di avarizia; se un professionista commette un grave reato, quell’intera categoria di professionisti verrà considerata ugualmente colpevole; se un dipendente pubblico è fannullone, tutti i dipendenti pubblici lo saranno. Un politico è disonesto? Tutti i politici quindi sono disonesti.
E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Sembra quasi che le singole persone, con le rispettive responsabilità, non esistano più.
Questo clima si è ormai insinuato in tutti i rapporti, anche in quelli più delicati, persino tra medici e pazienti, tra insegnanti e studenti, tra amministratori e cittadini, tra sacerdoti e fedeli… Senza fiducia, dentro lo scontro generalizzato e totale, in questa litigiosità rissosa e permanente, tutti ci scopriamo più soli, in un isolamento che preclude ogni possibile incontro, che impedisce ogni possibile dialogo. Ma a chi giova questa contrapposizione permanente?
Seguiamo ancora l’insegnamento di Ambrogio:

«Nessuno parli al suo prossimo in modo ingannevole. Sulle nostre labbra c’è un laccio, e spesso ciascuno con i propri discorsi non si spiega, ma si nasconde. La bocca del malevolo è una profonda fossa: grave è la caduta dell’innocenza, ma più grave quella del malvolere. L’innocente, poiché presta fede facilmente, cade presto, ma, una volta caduto, si rialza; il maledico, invece, per le proprie arti precipita là donde non potrà balzar fuori ed uscire. Ponderi dunque ciascuno i propri discorsi senza frode ed inganno» .

Non dobbiamo lasciare che la divisione, il sospetto, la disistima dell’altro, il disprezzo di lui, ci sovrastino e ci travolgano: non serve a noi, non serve all’altro, non serve alla Città, non serve al futuro dei nostri figli. Non solo non serve, ma ci proietta verso la disgregazione e il vuoto.
Non dobbiamo per forza avere tutti le medesime opinioni. Il frutto maturo del dialogo non è necessariamente la coincidenza delle idee. Il buon dialogo non è infatti mettersi l’uno di fronte all’altro e misurarsi per vedere chi ha ragione e chi ha torto; è piuttosto un mettersi l’uno accanto all’altro, dichiarandosi reciprocamente la volontà di guardare avanti, l’impegno di fare ciascuno la propria parte per il bene comune, la disponibilità anche a modificare il proprio punto di vista. Il dialogo domanda la coerenza del cammino fatto insieme, più che la stabilità della propria posizione.

I “luoghi” per il dialogo e l’incontro

Perfino con se stessi occorre tornare al dialogo. Non è scontato che ciò avvenga. È uno sforzo che richiede profondità e silenzio, tempo e libertà. Ed esige che si vada realmente alla ricerca di sé.
Se manca questa dimensione interiore, che ultimamente conduce all’incontro con Dio, è impossibile un vero dialogo.
Scrive sant’Ambrogio:

«Veramente dovremmo mantenere un reverente silenzio, perché il Signore si riposò da ogni opera del mondo. Si riposò poi nell’intimo dell’uomo. Si riposò nella sua mente e nel suo pensiero; infatti aveva creato l’uomo dotato di ragione, capace d’imitarlo, emulo delle sue virtù, bramoso delle grazie celesti. In queste sue doti riposa Iddio che ha detto: O su chi riposerò, se non su chi è umile, tranquillo e teme le mie parole?» .

La dimensione spirituale, intima, dell’uomo è – secondo sant’Ambrogio - il luogo dove riposa Dio stesso, dove è possibile incontrarlo, entrare in relazione con lui, rispondere alla sua parola e sperimentare il suo amore. E l’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, ponendosi in relazione con Dio può conoscere e ritrovare pienamente se stesso. Davvero straordinario e stupendo è l’uomo nella sua identità più radicale: l’uomo è il riposo di Dio, è colui che lascia che Dio lo cerchi, lo trovi e in pienezza di gioia vi si riposi!
Il dialogo autentico avviene proprio a partire da persone che conoscono se stesse. Non è una possibilità offerta solo alla donna e all’uomo di fede: anche chi non crede ha bisogno di riscoprire e prendere contatto con quei valori antropologici che hanno fondato e devono continuare a fondare la nostra civiltà: il desiderio del bene, del giusto, del bello, del vero…
Per custodire, realizzare e promuovere questa interiorità autentica sono necessari tempo e spazi adeguati. I ritmi di vita sempre più accelerati che ci sono imposti, ostacolano la cura dell’interiorità e della dimensione spirituale, minando in radice la qualità del dialogo. Possiamo aiutarci, per quanto di nostra competenza, governando i tempi del lavoro, del commercio, della cultura, dei servizi, anche del divertimento, per rendere più umana, più a misura d’uomo, la vita quotidiana?
In tante zone della Città, inoltre, mancano anche gli spazi fisici e le occasioni concrete per fermarsi a riflettere e a pregare. Abbiamo bisogno di luoghi di preghiera in tutti i quartieri della Città. Ne hanno un bisogno ancora più urgente le persone che appartengono a religioni diverse da quella cristiana, in modo particolare all’Islam. Abbiamo bisogno anche di iniziative culturali che favoriscano la riflessione, non di provocazioni che suscitano esclusivamente dibattiti sterili e scalpore ma che non accrescono l’interiorità.
Una Città amica sa offrire questi tempi, questi spazi, queste opportunità, perché da qui prendono forma il dialogo e la relazione, rendendo così possibile una convivenza umana e umanizzante.

Una Chiesa che si offre al dialogo

Il dialogo è esercizio che riguarda e impegna anche la nostra Chiesa ambrosiana, chiamata a donare la verità che salva: una verità che coincide con l’amore stesso di Dio e con la sua vita, una verità da comunicare con fedeltà limpida e forte, coraggiosa e gioiosa, ma che insieme – proprio per essere attenta alle diverse condizioni concrete delle persone – deve saper proporre con bontà e mitezza. In una parola, una verità annunciata e testimoniata in dialogo.
Giovanni XXIII, eletto papa cinquant’anni fa, così diceva da Patriarca di Venezia a proposito dello stile che la Chiesa deve assumere per stare in dialogo con il mondo:

«Sempre la verità, ma dirla e scriverla con rispetto e cortesia. Dirla agli altri, come vorremmo sentircela dire ed in modo da non attentare mai ai sacri diritti della legge divina e umana, dell’innocenza, della giustizia, della pace…» .

Di Paolo VI vogliamo ricordare la sua prima enciclica Ecclesiam Suam, tutta incentrata sul tema del dialogo. In particolare, circa l’annuncio della verità, leggiamo:

«Come deve premunirsi [la Chiesa] dal pericolo d'un relativismo che intacchi la sua fedeltà dogmatica e morale? Ma come insieme farsi idonea a tutti avvicinare per tutti salvare, secondo l'esempio dell'Apostolo: Mi son fatto tutto a tutti, perché tutti io salvi?
Non si salva il mondo dal di fuori; occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo, occorre condividere, senza porre distanza di privilegi, o diaframma di linguaggio incomprensibile, il costume comune, purché umano ed onesto, quello dei più piccoli specialmente, se si vuole essere ascoltati e compresi.
Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell'uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo. (…)
Il clima del dialogo è l'amicizia. Anzi il servizio. Tutto questo dovremo ricordare e studiarci di praticare secondo l'esempio e il precetto che Cristo ci lasciò» .

Come si vede, il dialogo per la Chiesa non è un semplice scambio di opinioni umane, perché nasce e muove dalla verità evangelica che il Signore Gesù le ha affidato affinché sia annunciata con amore a tutti. Una Chiesa, che si radica sull’immutabile fondamento che è Gesù Cristo, non teme di aprirsi al dialogo; anzi, proprio per questo suo radicamento, il dialogo con tutti gli uomini e le donne è per essa grazia e responsabilità, dono e missione, fortuna immensa e dovere gravissimo e irrinunciabile. Così posso leggere nella passione struggente dell’apostolo Paolo l’eco di quella che riempie il cuore della Chiesa: «Guai a me se non annuncio il Vangelo» .
Con questi stessi sentimenti, per il mio ministero di Vescovo e a nome della Chiesa ambrosiana, stasera rinnovo alla Città, a tutti - Istituzioni e cittadini – l’impegno a rendere concreto il volto della Chiesa, così come l’ha delineato Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam Suam:

«La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» .

Dialoghiamo, serviamo insieme questa Città, per il bene di tutti e di ciascuno. Certo, ognuno per la sua parte, con le sue competenze, nei suoi ambiti. Ma tutti insieme con lo stesso grande desiderio: dialogare per servire sempre meglio questa Città e chi – in ogni modo - la abita.

Laddove l’invocazione è urgente

Un dialogo tra le diverse Istituzioni è necessario, per udire e riconoscere le voci che già, nella nostra Città, lo invocano, a volte sommessamente, in modo non sempre esplicito.

Domandano dialogo anzitutto i giovani. Il loro sogno più grande è l’incontro e il dialogo. E noi dobbiamo accompagnarli sulle strade della speranza e della fiducia, non possiamo tradirli.
Non credo ai luoghi comuni sui giovani di oggi. L’impressione è che spesso vengano accusati e condannati, come categoria, perché – oltre i deprecabili errori commessi da alcuni - non si perdona ai giovani, dentro una società che diventa di giorno in giorno sempre più vecchia, la loro età e dunque la loro diversità e il loro sguardo aperto sul futuro.
Nessuno di noi assolve bullismo, sfrenatezza di vita, alcoolismo, assunzione di droghe. Ma il nostro atto di fiducia, il nostro desiderio di dialogo con le giovani generazioni non può essere offuscato da una condanna aprioristica di tutti i giovani. Tanti di loro studiano, lavorano, si dedicano agli altri, si preparano con serietà al futuro, si divertono in modo sano: e tra loro tanti giovani immigrati.
Ascoltiamoli con speranza e fiducia, dialoghiamo con loro. Guardiamo a loro con gioia.

Una parola vorrei dirla poi a proposito della politica e delle Istituzioni: non tanto sul versante interno dei rapporti tra gli addetti ai lavori, quanto sulla frattura che si è aperta tra i cittadini e la politica, tra i cittadini e le Istituzioni. Sinteticamente sembrerebbe di poter dire che i cittadini non comprendano più i politici e le Istituzioni che dovrebbero rappresentarli; e che i politici non comprendano più i cittadini che dovrebbero rappresentare.
I politici sono definiti spesso una casta, termine usato in modo dispregiativo. Certo, non sono ammissibili né i privilegi eccessivi, né le disonestà. Tuttavia è bene non generalizzare: ci sono politici così e politici perbene che lavorano senza ostentazione, con onestà e serietà. Impariamo a distinguere: non è questione di schieramenti, sono chiamate in causa le responsabilità personali!
La politica merita attenzione e fiducia. Ma richiede partecipazione. Essa ha oggi bisogno di “un di più” di presenza. Se è compito della classe politica riavvicinare i cittadini, è compito anche dei cittadini non abbandonare il campo, riaprire una linea di credito alla politica, tornare al dialogo, intenso e appassionato. È difficile, ma necessario. Anche la Chiesa sta facendo la sua parte: ne è testimonianza la presenza qui questa sera dei giovani che stanno frequentando la “Scuola di Formazione sociale e politica” avviata nei mesi scorsi.
Questo ritrovato dialogo riaprirà anche un rapporto di maggior fiducia nelle e per le Istituzioni. La Città non esiste senza le sue Istituzioni. Il Paese intero non esisterebbe, non avrebbe identità e volto senza le sue Istituzioni. Ce lo hanno insegnato i padri costituenti. Mi piace ricordarlo in questo anno sessantesimo della Costituzione Italiana. Il volto della Città è anche il volto delle sue Istituzioni, capaci di instaurare e mantenere un dialogo con i cittadini, al cui servizio sono poste.

Infine, parlando di dialogo, come dimenticare i nuovi venuti, i nuovi cittadini, gli immigrati?
Impariamo la virtù della comprensione, consentiamo all’altro di essere se stesso. Non possiamo certo giustificare comportamenti contro la legge, ma non possiamo credere che tutti i comportamenti degli immigrati siano contro la legge o che tutti gli immigrati commettano illegalità.
Dobbiamo chiederci: c’è desiderio di conoscere davvero l’altro senza temere la sua diversità? Conosciamo quale contributo insostituibile gli immigrati, spesso anche i clandestini, offrono quotidianamente alla vita della nostra Città? Senza il loro lavoro Milano si fermerebbe. Abbiamo bisogno di loro! E non solo della loro fatica, ma sopratutto di quella ricchezza che nasce dall’incontro e dal dialogo. La paura non vinca. Il timore è umano, comprensibile, ma per sperimentare il dialogo occorre superare il timore e vivere la prossimità.


5. IL DIALOGO COSTRUISCE E RENDE FORTE LA CITTÀ

Sono convinto che solo il dialogo, inteso come lo abbiamo descritto, costruisca e renda forte la Città. La Città, come ogni convivenza sociale e civile, poggia sulla relazione. La trama di rapporti che animano la Città non può essere solo di tipo mercantile, ma deve diventare un evento in cui ogni interlocutore si mette in gioco con fiducia, si apre all’altro, lo ascolta, gli risponde senza pregiudizi o precomprensioni, senza desiderio di asservire l’altro.

La Città si fa nuova

È chiaro che dalla qualità del dialogo dipende il volto della Città, il suo essere aperta, accogliente, attenta ai suoi cittadini; ai piccoli, agli anziani, ai malati. Ed è proprio dalla capacità di dialogo (nel senso di “mettersi in relazione”) che è scaturita la storia di questa splendida Città: un dialogo e una possibilità di relazioni favoriti anche dalla posizione geografica, all’incrocio di tante ed importanti vie di comunicazione.
Ed è una storia che va custodita e continuata. Per questo è importante e decisivo che la stessa Città, attraverso le sue Istituzioni, renda possibile e favorisca il dialogo in tutte le sue forme. Non mostri un volto chiuso e inospitale.
Una Città così sarà continuamente “nuova” nel senso bello ed alto del termine: resa nuova dai mille incontri, dalle mille opportunità, dai mille ascolti, dalle mille accoglienze.
Sappiamo quanto il quaerere semper nova appartenga alla nostra tradizione ambrosiana! E questo poi contagerà in modo benefico tutti gli abitanti di Milano, li renderà ancora più partecipi del cammino e della storia della Città.

L’Expo 2015: un’occasione di dialogo e di incontro

Un esercizio opportuno, concreto, carico di futuro, può essere in questo senso l’appuntamento dell’Expo 2015, che rappresenta una vera e propria occasione di dialogo per la Città al suo interno. E non solo: per la Città con il territorio circostante, per la Città con la Regione, l’intero Paese, l’Europa, il mondo.
Da tempo Milano non aveva una simile occasione per ripensarsi, per immaginare, progettare, discutere e realizzare il proprio futuro.
Vorrei tanto che non rischiassimo di sciupare questa opportunità con discussioni su questioni solo economiche, ragionando di affari, legittimi ma pur sempre parziali. Qual è la ricchezza più vera che dovremmo attenderci – noi e gli altri – dall’Expo?
Prendo spunto, ancora una volta, da sant’Ambrogio:

«Vuoi costruire una città come si conviene? È meglio il poco col timor di Dio che grandi tesori senza di esso. Le ricchezze dell’uomo devono giovare al riscatto della sua anima, non alla sua rovina. E il tesoro serve al riscatto, se uno ne fa buon uso; e, d’altro canto, è un laccio, se uno non ne sa usare. Che cosa, infatti, rappresenta per l’uomo il proprio denaro se non ciò che serve per un viaggio? Molto denaro è di peso; una quantità moderata, di utilità!» .

In questo passo Ambrogio ci parla di una città molto particolare, l’anima dell’uomo, ma la sua metafora prende spunto dalla città reale. Ora riflettere seriamente su queste parole in vista dell’Expo non è affatto fuori luogo: le ricchezze, le grandi quantità di denaro che verranno messe in gioco, non siano di rovina alla nostra Città ma strumento per realizzare qualcosa di ben più grande del profitto.
L’appuntamento del 2015 è momento favorevole per ripensare, immaginare, progettare, discutere e realizzare il futuro di Milano e del territorio. È occasione per riflettere sulla Città, sul senso dell’abitare, sulla famiglia e sulle opportunità che possiamo offrirle, sull’idea di scuola, di arte, di architettura. È occasione per incontrare quanti abitano la Città, conoscerli e conoscersi, capirsi e apprezzarsi nella diversità di cultura, fede, etnia, usi e lavoro.
È occasione per riannodare legami, per creare opportunità di lavoro, di conoscenza, di apertura al mondo, di costruzione di un futuro solido. Lo stesso tema “Nutrire il pianeta, energia per la vita” si offre a vaste e importanti riflessioni e iniziative concrete, che peraltro so essere già in parte avviate ad opera di Istituzioni e di Organizzazioni di volontariato in alcuni Paesi del mondo, dove l’emergenza alimentare è più forte e ha conseguenze drammatiche. In questo senso l’Expo è già cominciata: e questo inizio è un segno che fa ben sperare per la crescita culturale e operativa di una solidarietà sempre più ampia. Così come è certamente da apprezzare il fatto che l’Expo non voglia identificarsi con una grande e singola costruzione simbolica ma con la creazione di una “rete mondiale di cooperazione e solidarietà” per sradicare la fame e la povertà nel pianeta.
E ancora l’Expo è occasione per mostrare un volto che è manifestazione dell’anima e del cuore della Città. E il volto che Milano offrirà in questa esperienza sarà l’espressione del volto dei suoi protagonisti, dei soggetti coinvolti. Tutte le espressioni della Città, allora, ne siano parte: la cultura e l’arte, la ricerca scientifica e tecnologica, l’imprenditoria e il mondo del lavoro, la medicina e i servizi alla salute, l’associazionismo e il volontariato, la scuola e le realtà educative, la Chiesa.
Sì, anche la Chiesa ambrosiana. E con essa tutte le Chiese e le religioni presenti a Milano.
E si sappia dialogare anche con il territorio, con le periferie, con le province che fanno corona a Milano e compongono la Regione. Tante ricchezze già presenti chiedono solo di poter essere espresse.
Dialoghiamo, per realizzare al meglio l’Expo 2015, per una Milano che sia non solo meta d’arrivo di genti e di popoli della terra, ma anche punto di partenza di idee e di risorse per una solidarietà verso i Paesi più poveri del mondo. In particolare, tutti insieme e ciascuno nel proprio piccolo mondo, dialoghiamo - con franchezza - per il vero bene della nostra Città e di chi la abita.


Preghiamo per la Città

La mia preghiera non può mai mancare; è continua per questa Città. Ma, come sempre, mi sembra bello e giusto che il Vescovo concluda il suo discorso con una preghiera speciale: per questa nostra Città e sulla nostra Città.

Signore,
rendici uomini di pace,
sempre.
In mezzo alle guerre dichiarate dai potenti,
ma, più semplicemente,
in mezzo alle nostre piccole guerre quotidiane.

Signore,
facci convinti del dialogo,
uomini e donne capaci di dialogo;
aiutaci a cercare l’altro;
aiutaci a trovare l’altro.

Signore,
la pace si costruisce
ogni giorno
e per tutti i giorni.
Guidaci sulla strada
della comprensione reciproca,
dell’ascolto vicendevole,
dell’incontro attento e gioioso.

Signore,
donaci relazioni e affetti,
dove noi sappiamo
rispettare la libertà dell’altro;
dove noi lo lasciamo
semplicemente
essere se stesso.

Signore,
guidaci
dal mistero del Volto sfigurato
al mistero della Trasfigurazione.
Donaci la capacità
di annunciare la Trasfigurazione
e di non trattenerla
egoisticamente
per noi.

Signore,
accompagnaci dalla contrapposizione
all’incontro;
dal mutismo
al dialogo;
dall’egoismo
al farci prossimo.

Signore,
fa’ che sappiamo
accettare la nostra unicità;
fa’ che sappiamo
fare silenzio
attorno a noi;
fa’ che sappiamo
trovarci
e trovarti.

Signore,
fa’ che sappiamo
essere costruttori di dialogo
nella nostra Città;
capaci di costruire
istituzioni aperte e accoglienti.

Signore,
donaci il coraggio e la forza
di andare incontro ai fratelli
che credono in un altro Dio;
Signore,
donaci il coraggio e la forza
di stabilire
un dialogo con loro;
Signore,
donaci il coraggio e la forza
di considerarli fratelli amati
e di condividere con loro
il superfluo
ed il necessario.

Signore,
infine, concedici
di saper distinguere,
di saper vedere,
di non fare sempre di ogni erba un fascio.

Signore,
rendici uomini veri e donne vere,
che sanno
capire,
amare,
sostenere,
indicare il futuro e la speranza.

E fa’ che
la nostra Città sia abitata
da uomini e donne così
e che possa mostrare
a quanti sono venuti
e a quanti verranno
il suo volto migliore,
la sua anima intensa,
il suo cuore.

E così sia.