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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

martedì 16 dicembre 2008

Apologia del '68?

E' uscito oggi il nuovo supplemento di Appunti alessandrini, AP - Supplemento, che uscirà più o meno regolarmente a metà mese. Viene pubblicato in esso, oltre all'importante editoriale di Agostino Pietrasanta, un mio articolo sul "famigerato" 68. Esigenze di spazio hanno costretto a ridurlo più o meno a metà, considerando solo un aspetto di quegli anni e di quel "movimento", quello più legato al mondo cattolico. Ripropongo qui l'articolo nella sua integralità, come riflessione nella ricorrenza del quarantesimo di quell'evento.

Non sono un sessantottino. Nel senso che il ’68 l’ho vissuto, ma non l’ho fatto: a quel tempo ero un diciottenne tutto preso da una ricerca vocazionale, decidere cioè che fare della mia vita e del mio futuro. E quando è iniziato “l’autunno caldo” del ’69 io entravo nel Seminario di Milano… Ma sia pure da “spettatore”, avevo intorno in quegli anni tanti che partecipavano da attori alle lotte, alle speranze, ai sogni, alle illusioni e anche alle successive degenerazioni e non potevo in qualche misura non essere coinvolto. Tanto che quando sento il ministro La Russa, tra i tanti, dire che i critici dei militari nelle strade a far servizio d’ordine pubblico sono “i sessantottini”, mi sento tirato in causa. Da personaggi poi che il ’68 l’hanno fatto manganellando chi non la pensava come loro… ”Sessantottini” è una parola che circola da quarant’anni ormai quasi sempre con un significato negativo, soprattutto negli ultimi anni segnati da un clima di revisionismo storico, con molte punte di disonestà intellettuale causata da meschini interessi elettorali. E pur sapendo che per chi ha vissuto quegli anni l’analisi mescola l’obiettività con il coinvolgimento emotivo perché per molti quel periodo è coinciso con la giovinezza, vorrei tentarne una valutazione per non lasciare che il quarantesimo anniversario non sia celebrato solo dai tanti che sono in-tervenuti in questo dibattito al solo scopo, sia da destra che da sinistra, di de-nigrare, affossare, mistificare, ridimensionare, sminuire o ridicolizzare la portata rivoluzionaria di tale periodo; o sostanzialmente dicendo: “La generazione del '68 è stata bella, come lo sono i sogni, sì, è stata "la meglio gioventù", ma oggi è definitivamente tramontata, ora sono altri tempi, teniamoci il riformismo, il "mercato", la globalizzazione, Berlusconi, e amen!”.
Quello che ancor oggi va sotto il nome di “'68” riguarda un processo storico che in realtà copre più anni, prima e dopo quella data, fu un fenomeno di por-tata internazionale, che anzi per molti aspetti si configurò in una dimensione mondiale, sia pure con caratteristiche molto diverse fra un paese e l'altro, tra un continente e l'altro. È questo il motivo per cui si può parlare di un fenomeno “epocale” (senza che questa costatazione comporti necessariamente un giudizio di valore). Dopo il 1968 c’è stato il 1969, e prima il 1967 e tutti gli anni che hanno fatto del 1968 quello che è stato. Ma il 1968 fu l’epicentro di una svolta, di un cambiamento fondamentale; segnò la nascita del nostro mondo postmoderno. Nel 1968 scoppiò in tutta la sua virulenza la questione nordirlandese; l’ETA scelse la lotta armata; Robert Kennedy viene drammaticamente assassinato, preceduto circa due mesi prima dall’assassinio di Martin Luther King e l’ “I have a dream” di King non resta una frase morta, messa li senza significato e senza futuro, ma diventa soprattutto tra tanti giovani di tutto il mondo una bandiera, un concetto di aggregazione e nello stesso tempo di cambiamento, come l’ “american dream” di John e Robert Kennedy; è anche l’anno in cui il Biafra stava combattendo una sanguinosissima e destinata alla sconfitta guerra di indipendenza dalla Nigeria, che impediva ogni aiuto alla piccola regione de-vastata dalla fame; in Cecoslovacchia i carri armati sovietici reprimono nel sangue la contestazione non violenta della “primavera di Praga”; il 2 ottobre l’esercito messicano sparò su una manifestazione di studenti alla vigilia delle Olimpiadi di Città del Messico: furono uccise tra le duecento e le trecento per-sone; sempre in quell’anno diventa pubblica la notizia che a My Lai, in Viet-nam, la 23a divisione di fanteria statunitense aveva massacrato circa cinque-cento civili disarmati, tra cui vecchi, donne e bambini, tra atroci e bestiali vio-lenze. L'Italia ebbe una sua peculiarità nel contesto europeo e visse una sorta di “'68 prolungato”. Detto in estrema sintesi, il “'68 lungo” italiano si articolò nel '67 come “l'anno del Vietnam”, nel '68 come “l'anno degli studenti” e poi nel '69 come “l'anno degli operai”. Una vera e propria “rottura” si determinò con la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, da cui ebbe inizio la strategia della tensione e delle stragi e che segnò la “perdita dell'innocenza” di una intera generazione, che si trovò per la prima volta in modo così brutale e tragico a fare i conti con la violenza politica.
In questo contesto la speranza di molti fu di andar oltre la crisi. Ma con un forte e ideologico desiderio di far piazza pulita del passato e della tradizione, senza avere in tasca qualche scampolo di progettualità: sembrava che il positivo potesse sorgere per miracolo dalla distruzione. Molti enunciavano: «Prima di tutto occorre distruggere, poi si vedrà». Nuclei fondamentali vennero presi di mira attraverso una critica non senza fondamenti ma spesso esasperata, mettendo in discussione una dopo l'altra le strutture e le istituzioni: famiglia, scuola, fabbrica, quartieri cittadini, informazione, repressione, rapporti sessuali, rapporti generazionali, carceri, manicomi, forme della politica e anche le forme della religione (non a caso, si è manifestata con forza e diffusione anche una “contestazione ecclesiale” negli anni del dopo-Concilio e il cosiddetto “dissenso cattolico”). Solo oggi intravediamo che si cercò di cambiare l'uomo, e che la «questione antropologica» iniziò proprio allora. Non molti se ne accorsero; forse qualche filosofo, in specie Marcuse col suo “L'uomo a una dimensione”, im-mediatamente accolto come un libro profetico. Le sue tesi ci appaiono ora usurate, eppure il tema era stato posto individuandone il centro: il grande dibattito sull'uomo. Il '68 ha cercato di cambiare l'uomo, e in certo modo vi è riuscito. Il '68 non ha avviato una rivoluzione politica (nonostante il gran parlarne), poiché non ha prodotto nessuna nuova istituzione politica. Ha piuttosto innescato una trasformazione spirituale, ponendosi come un evento di crisi nel senso originario del termine, ossia uno spartiacque che divide il prima e il dopo. Uno dei suoi obiettivi polemici fu la realtà stessa della tradizione, sostituita dal cambiamento permanente. Si verificava così la verità di un detto pensato per altre rivoluzioni: in tempo di rivoluzione tutto ciò che è antico è nemico. Da questo atteggiamento derivava anche la priorità della critica sull'edificazione, del negativo sul positivo. Il contro era uno scopo in sé, qualcosa che si giustificava da solo e che rinviava ad un domani indeterminato il momento positivo. Ma è indubbio che allora i giovani avevano un gran voglia di partecipare e un grande senso critico e oggi invece il senso critico non ce l'hanno più. Così il ’68 appare interpretabile come un fenomeno di modernizzazione sociale, culturale e politica, all'insegna soprattutto di una dimensione “anti-autoritaria”. Si potrebbe dire che il movimento del '68 è stato il primo grande fenomeno di “globalizzazione” e di mondializzazione che si sia manifestato: un fenomeno culturale e politico, ma anche di costume e di stili di vita, verificatosi ben prima che prevalesse la globalizzazione di carattere economico-finanziario. Un grande limite fu però che un movimento che rappresentava, nelle sue espressioni più autentiche e significative, il massimo di “anticipazione del futuro”, si ritrovò ad adottare, da un certo momento in poi, il linguaggio ideologico del marxismo e del leninismo, in tutte le loro varianti.
Gli anni ’60-’70 andrebbero poi ripercorsi dalla parte dei cattolici e si scopri-rebbe che il contributo dato è molto importante. Nel 1965 si chiude il Concilio Vaticano II che racchiuse in sé molta profezia e molta “anticipazione” di cam-biamenti ancora in embrione, ma già vivi e attivi nella storia; nel 1967 Paolo VI pubblica l’enciclica Populorum Progressio con una nuova visione mondiale: “Lo sviluppo dei popoli, in modo tutto particolare di quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà; una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono con decisione verso la meta di un loro pieno rigoglio…”; e dedica il 1 gennaio 1968 alla Giornata Mondiale della Pace persuaso che la pace “si fonda soggettivamente sopra un nuovo spirito, che deve animare la convivenza dei Popoli, una nuova mentalità circa l'uomo ed i suoi doveri ed i suoi destini” e non su una “falsa retorica di parole”. Molte pagine richiederebbe lo studio e l’analisi delle ripercussioni non solo ecclesiali che hanno avuto figure che qui possiamo solo nominare: don Lorenzo Milani e la Scuola di Barbiana (è del ’67 la “Lettera ad una professoressa”); padre Ernesto Balducci; Andrea Riccardi che iniziò ad andare nella periferia romana, tra le baracche che in quegli anni cingevano Roma, e cominciò un’attività che successivamente divenne la Comunità di Sant’Egidio; In Sicilia, a Partinico, Danilo Dolci sperimenta il metodo “maieutico”, che valorizza la cultura e le competenze locali, il contributo di ogni collettività e ogni persona; a Nomadelfia, comunità di famiglie vicino a Grosseto fondata da don Zeno Saltini nel 1948, nasce la scuola “familiare”: secondo don Zeno la peculiarità di questa scuola è “vivente”, perché ogni momento della vita è scuola in quanto l'ambiente familiare, sociale e naturale nel quale i ragazzi vivono è di per sé educativo. Con Livio Labor le ACLI maturano la scelta di puntare su un rinnovamento della presenza politica dei cattolici, una presenza che deve incamminarsi sul sentiero delle riforme, attraverso forme di animazione culturale e pressione sociale. Vittorio Bachelet con l’Azione Cattolica è protagonista della scelta religiosa, scelta della mediazione culturale e sociale come stella polare dell’impegno cristiano nel mondo: "Se per impegno politico si intende fare il galoppino elettorale di qualcuno o di qualche gruppo, l'Azione Cattolica non pensa davvero che questo sia il suo compito. Se invece è l'aiuto e l'invito ri-spettoso a riferire il proprio impegno e la propria azione alle grandi matrici della ispirazione cristiana, a realizzare l'unità tra fede, vita e azione e ad assumere con coerenza le proprie responsabilità, allora si tratta di quel compito di formazione delle coscienze che ci è proprio". Sempre nel 1968 Gioventù Studentesca cambia nome e assume quello di Comunione e Liberazione, fondata da don Luigi Giussani, che pone al centro dell’agire umano l’esperienza cristiana: “Autenticità, esigenza d’autenticità: questo è il valore che è stato nel cuore di allora, della “sommossa”. Pensiamo alla nostra presenza nella Chiesa, per esempio: capite che noi siamo trattati da contestatori? Noi, per gli altri, fino a un certo punto, siamo parte del fenomeno del ’68: i contestatori” (ne è passata di acqua sotto i ponti… nda). È interessante segnalare la posizione di dialogo assunta in quegli anni dalla “Pro Civitate Christiana”, fondata da don Giovanni Rossi ad Assisi. I giovani “non chiedevano una Chiesa senza autorità, ma solo un diverso esercizio dell’autorità”, sottolinea padre Giuseppe De Rosa su “Civiltà Cattolica”, attraverso nuove e più efficienti strutture di comunione che li rendano corresponsabili e partecipi della vita della Chiesa. Un capitolo a sé me-riterebbe poi uno studio, approfondito e sereno dell’esperienza dei “preti ope-rai” e di tutta la vasta area del cosiddetto “dissenso cattolico”, che molto spesso fu portatore di autentiche esigenze evangeliche (e conciliari) che la Chiesa “Istituzione” non aveva (e non ha) il coraggio di fare sue.
Chiudo non con un giudizio complessivo, impossibile, ma con una citazione che è nostalgia per un aspetto che oggi scarseggia, purtroppo: “Quello che entusiasma del 1968 è che, allora, settori significativi della popolazione rifiutarono ovunque il silenzio sulle tante cose sbagliate che c’erano nel mondo”. dwf

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