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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

martedì 29 dicembre 2009

Un girotondo per la pace

Sarà un momento diverso quello che alcune associazioni stanno cercando di organizzare per non disperdere quell’importante appuntamento che trovava la condivisione e la partecipazione di uomini e donne, cattolici e laici nella Marcia della Pace.
Pensavamo che in un momento dove la situazione attuale è molto critica in tutte le latitudine, questo appuntamento trovasse già una sua organizzazione naturale tra le associazioni storiche di questa città, ma questo non è avvenuto e di questo ne siamo tutti molto delusi.
Oggi più che mai in un clima dove odio, paura,tensione, conflitti, razzismo sono al centro dei problemi del sistema mondiale la pace, la giustizia, la solidarietà, il lavoro, i diritti umani sono obiettivi concreti ed importanti da dover garantire e raggiungere attraverso il coinvolgimento di tutti a partire dalle istituzioni sino ad arrivare ad ogni singolo cittadino.
Ecco che ci è sembrato giusto ed importante promuovere un momento come questo per trovare nella pace un comune denominatore che attraverso una riflessione vedrà interventi di vari esponenti del mondo laico, cattolico e di altre religioni e il tutto si concluderà con un “girotondo della Pace” nella giornata di Giovedi 31 dicembre in Corso Crimea davanti al monumento ai caduti ore 18.30-19.30, anche per permettere la partecipazione alla veglia di preghiera in Duomo
Sapendo fin da subito che l’impresa che ci accingiamo a compiere in un tempo molto limitato sarà sicuramente difficile chiediamo alla città, alle forze sociali, politiche ed economiche di partecipare e portare la loro testimonianza, perché insieme possiamo contribuire a rendere la nostra società migliore.

Dentro il Natale 2009 - Omelia del Patriarca Latino di Gerusalemme nella Messa di Mezzanotte a Betlemme

Cari fratelli e sorelle,
Giuseppe si recò a Betlemme insieme con Maria sua sposa. "Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia" (Lc 2, 6-7).
A nome del Bambino di Betlemme, nato in una povera grotta, e a nome di coloro che gli sono simili, dei molti bambini nati senza casa o che si trovano nei campi profughi, vi auguro il benvenuto, con le stesse parole che gli angeli rivolsero ai pastori: "Vi annuncio una grande gioia ... troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia" (Lc 2,10-12). Desideriamo tanto che questa salvezza possa continuare a realizzarsi nell'"oggi" di Dio, a partire da questa città, da questa grotta e dalla mangiatoia verso cui ci dirigeremo portando in processione il bambino divino!
"Oggi vi è nato ... un Salvatore" (Lc 2,11). "Venite, ... adoriamo" (Sal 95,6).
"Oggi" è nato per noi. La parola "oggi", rivolta dal Cielo alla Terra più di duemila anni fa, si rivolge allo stesso modo al nostro "oggi" e all'"oggi" degli uomini di ogni tempo, perché "Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre" (Eb 13,8). Il tempo degli uomini è un presente fuggevole, mentre il tempo di Dio è un continuo presente, perché il Signore è l'essere per eccellenza, "Colui che è" (cfr. Es 3, 14). Cristo, la Parola di Dio, è così "Colui che è, che era e che viene" (Ap 1,8).
Il nostro Signore e Salvatore nasce oggi di nuovo in mezzo a noi.
La nascita di Gesù in quest' "oggi" porta un cambiamento radicale nella vita degli esseri umani: "Una grande luce risplendette per noi" (cfr. Is 9,1) che ci troviamo "nelle tenebre e nell'ombra della morte" (Lc 1,79). Questa luce è quella dell'amore universale. Il nostro cuore preferisce limitarsi all'amore per le persone a noi più vicine, come nel caso dei genitori verso i figli, oppure dei membri di uno stesso gruppo religioso tra di loro. Questo amore particolare è invitato ad estendersi alle dimensioni del mondo, perché la misura dell'amore è di "amare senza misura".
La pace e la non-violenza dovrebbero sostituire l'odio, la guerra e la violenza; lo Spirito dovrebbe prevalere sulla materia; l'apertura agli altri, l'ospitalità e la disponibilità nei loro confronti dovrebbero abbattere i muri di separazione e di isolamento, per rendere veramente "gloria a Dio nel più alto dei cieli" e realizzare la promessa "e pace in terra agli uomini, che Egli ama" (Lc 2,14).
"E il Verbo si fece carne" (Gv 1, 14). Il più grande evento della storia umana è che la Parola di Dio si è fatta uomo "quando venne la pienezza del tempo" (Gal 4,4). Dio ha assunto un volto umano. Egli si è fatto uomo, per elevare gli uomini a Sé!
Il mistero dell'Incarnazione, che sorpassa ogni nostra comprensione, è al centro della nostra fede cristiana. È parte del piano divino di salvezza e redenzione del genere umano. Gli apostoli e i discepoli annunciarono con forza questo grande mistero e sigillarono la loro testimonianza con il proprio sangue.
L'umiltà del Verbo di Dio divenuto carne è per noi un'esortazione costante ed anche un farmaco contro l'orgoglio. Il Verbo eterno si umiliò, abbandonando ogni prerogativa divina. Egli, Verbo eterno, scelse di nascere bambino povero in una mangiatoia. Se fosse apparso nella gloria della Sua divinità, ci avrebbe abbagliato, ma in tal modo non l'avremmo considerato uno di noi, un membro della nostra famiglia umana. La sua nascita così modesta è per noi un esempio. Se Dio si è fatto il più povero tra i poveri e il più bisognoso tra i bisognosi, non c'è altra via da seguire, per avanzare nel nostro cammino verso la felicità eterna, se non quella di vincere il nostro orgoglio, praticando l'umiltà e la semplicità, incoraggiati dall'esempio di Colui che "da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della Sua povertà" (cfr. 2 Cor 8,9). In questo modo ha fondato i valori della condivisione e della solidarietà. I problemi finanziari che oggi affliggono il mondo derivano dal fatto che il mondo ha dimenticato i poveri. Il Natale è e sarà sempre un grido che turba la coscienza del mondo materialista, che basando i suoi principi sulla competitività e sulla corsa sfrenata, finisce per arricchirsi a scapito dei poveri.
Quando gli uomini si rifiutano di condividere i beni terreni secondo uno spirito di solidarietà, il denaro diventa un idolo ed essi si trovano a pagare il prezzo del loro allontanamento da Dio. È giunto il momento che, di fronte al fenomeno di recessione che ha colpito l'economia mondiale, causando la crisi attuale ed il conseguente aumento della disoccupazione, il mondo accetti il primato dei valori della temperanza e della condivisione. Solo questi valori possono rianimare il mondo economico. "Quale vantaggio, infatti, avrà l'uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà la propria anima?" (Mt 16,26).
Gesù Cristo nella sua patria
A nome di tutti i fedeli delle parrocchie di Giordania, Palestina, Israele e Cipro, e a nome dei fedeli di Betlemme, concittadini di Gesù, mi rivolgo ai credenti del mondo intero, esortandoli a pregare per la Terra Santa. È una terra che soffre e che spera. I suoi abitanti vivono come fratelli nemici tra loro. Quando capiremo che una terra merita l'appellativo di «santa» solo quando l'uomo che vi vive diventa santo? Questa terra merita davvero di essere chiamata "santa" solo quando in essa si respireranno la libertà, la giustizia, l'amore, la riconciliazione, la pace e la sicurezza.
Come possiamo poi sperimentare la gioia del Natale, vedendo ripetersi il dramma che accompagnò la Nascita storica di Cristo? Cristo non potè avere una casa a Betlemme, e molti dei nostri concittadini sono rimasti ai giorni nostri senza casa a motivo dell'ingiustizia degli uomini. Per l'insicurezza e le numerose difficoltà legate al vivere in questo paese, centinaia di migliaia di persone sono già emigrate per cercare altrove migliori condizioni e qualità di vita. Altri stanno tuttora cercando di abbandonare il paese dei loro predecessori, questa terra santificata dal mistero dell'Incarnazione di Dio.
Come vivere la gioia e la festa, mentre commemoriamo il primo anniversario della guerra e della tragedia di Gaza? L'occupazione della città sta soffocando la libertà di circolazione e il trasporto è ostacolato. Molte famiglie sono costrette a vivere separate.
Ma tutto ciò non ci impedisce di cantare e invocare il Salvatore: "Se tu squarciassi i cieli e scendessi!" (Is 63,19). "Rorate coeli desuper et nubes pluant justum" (Liturgia cattolica per l'Avvento). Signore, Tu sei l'Emmanuele, il "Dio con noi" (Mt 1,23). Anche noi desideriamo rimanere con Te. Tu solo puoi condurre al tuo presepe, attraverso la stella e la Tua grazia, gli uomini in conflitto, i capi e i governanti che hanno il potere di decidere e di tenere in mano il destino degli uomini. Fa' che tutti possano conoscere il messaggio del Natale, un messaggio che insegna l'umiltà e che ridona all'uomo la sua dignità di figlio di Dio.
In questa notte di Natale desideriamo pregare per la pace insieme a tutti gli uomini di buona volontà. Imploriamo una pace diversa da quella che il mondo ci promette. La pace che il mondo ci offre è basata, infatti, sulla forza e sulla violenza. Noi cerchiamo la pace di Dio, fondata sulla giustizia e sulla dignità umana. Considerando i mali che affliggono il mondo, tra cui i conflitti d'interesse, l'ipocrisia, la corsa agli armamenti e la detenzione di armi distruttive, chiediamo al Bambino di Betlemme, insieme a tutti bambini senzatetto, abbandonati a se stessi lungo le strade dei campi profughi, che sulla nostra terra si erga "il sole di giustizia" (Ml 3,20), di amore e di vita, per scacciare lo spettro della morte e della distruzione. Possano i nostri figli e i bambini di Gaza gustare il sapore della festa ed avere la gioia di illuminare e decorare l'albero di Natale, simbolo di vita e di speranza di vivere.
Oh, Bambino di Betlemme, siamo stanchi di questa situazione, stanchi di attendere, affaticati dai discorsi e dalle promesse, stanchi di conferenze, di scadenze, di trattative!
Oh, Bambino di Betlemme, donaci la Tua pazienza, il Tuo amore e la Tua dolcezza! Noi ti preghiamo, fa'che in questo nuovo anno le mani si possano stringere, le intenzioni purificare e i cuori possano amare. Fa' che le divisioni possano scomparire, i muri si possano demolire, lasciando il posto a ponti di comprensione e di riconciliazione!
Cari fratelli e figli diletti,
La grazia di Dio e il Suo amore per tutti gli uomini, senza distinzione di fede e nazionalità, ci aiutino a perseguire la pace. Ognuno si impegni a lavorare il proprio campo per la venuta del Regno di Dio, un "Regno di giustizia, di amore e di pace" (dal Prefazio per la Solennità di Cristo Re).
Ci sia concesso di poter riconoscere in ogni uomo, donna o bambino, il Volto di Gesù, figlio di questa terra, nostro concittadino, che disse: "Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5,5;7;9).
Buon Natale!
† Fouad Twal, Patriarca

Inciuci e cose serie

Data l'attualità e l'interesse riprendo l'articolo pubblicato da Agostino Pietrasanta su http://www.cittafutura.al.it

Sono cose che non stupiscono, ma certamente non esaltano. Un politico “di razza”, che spadroneggia nell’area di centro/sinistra, sostiene la necessità degli inciuci nei rapporti tra le parti che dovrebbero decidere del destino istituzionale, e non solo, del Paese. E per darne prova tangibile e provarne la ragionevolezza, cita l’accordo in Costituente, sull’art.7 della Costituzione, ben noto a tutti come la sanzione formale dei rapporti Stato/Chiesa, fondati sui Patti lateranensi.
Personalmente non mi ha neppure stupito che la citazione proposta sia stata riportata, con “rispettoso” rilievo e riproposta virgolettata, ma con evidente espressione di consenso, dal quotidiano cattolico nazionale, “vulgo dictus” dei Vescovi italiani: non mi ha stupito, ma, ancora una volta, non esaltato. Così non ho potuto non sottolineare nel pensiero che, quasi contemporaneamente, un quotidiano “laico”, per la penna di un giornalista che si dichiara non credente abbia al contrario osservato che quell’accordo non fu affatto un inciucio, ma un trasparente atto politico con il quale i Costituenti, col concorso indispensabile del P.C.I., avrebbero voluto superare la storica contrapposizione tra “laici” e cattolici.
Richiamo la schermaglia solo per introdurre poche osservazioni che mi paiono indispensabili: ovviamente tra le tante possibili. Certamente si trattò di un rilevante e cospicuo atto politico, non condiviso dall’unanimità ed ancora oggi contestato legittimamente (non tutto ciò che è legittimo deve essere per forza condiviso) anche da persone di ragguardevole senso delle istituzioni e dello Stato.
Pensiamo, per intanto, al contesto, in cui il rilevante atto politico (non l’inciucio!) ebbe corso e conclusione. La Chiesa, nonostante gli innegabili compromessi col regime del ventennio, negli anni conclusivi del secondo conflitto mondiale, aveva acquisito un prestigio di grande rilievo ed una popolarità significativa. Già negli anni sessanta, la storiografia lo aveva intuito; le ricerche e gli studi successivi hanno, da tempo, confermato. Le ragioni sono indicate nel fatto che mentre le istituzioni statuali si sfaldavano, in particolare dopo l’otto settembre, e le alte cariche dello Stato, centrali e periferiche scappavano, alla lettera, dalle loro responsabilità, la Chiesa nei suoi vertici rimase al proprio posto e, comunque la pensassero, vescovi preti e, prima di loro il papa si assunsero anche responsabilità di supplenza in campo civile.
Forte di tale prestigio, a conflitto concluso, la Chiesa vantò il diritto “all’incasso”: chiedeva che nella nuova Costituzione fosse mantenuto il principio affermato nello statuto Carlo/albertino, per il quale la religione cattolica era “religione di Stato” e che le fossero garantite le prerogative (qualcuno dice, privilegi) previste dai “patti lateranensi”. La richiesta fu esplicitata nella prolusione alla XIX settimana sociale dei cattolici italiani, celebrata a Firenze nell’ottobre del 1945 sul tema “Costituzione e costituente”, dal card. Elia dalla Costa, arcivescovo della città.
Alla prima richiesta rispose subito La Pira, nel corso dei lavori della settimana. Egli affermò con forza che si poteva benissimo fondare la nuova Costituzione anche sulla ispirazione cristiana, ma che detta ispirazione “non consiste nel fatto che lo Stato riconosca la religione cattolica come religione di Stato…essa dipende invece dall’oggetto della carta che deve avere come fine la persona umana…”
Ora in questa risposta sta la prima ragione del comportamento dei costituenti cattolici nella prima sottocommissione che preparò le bozze della Carta da presentare in assemblea e sta la premessa dell’incontro con i costituenti “laici”: il superamento dello Stato cattolico, il superamento cioè dell’idea di istituzioni come braccio secolare della religione; e, nel contempo, ci sta la proposta di una ispirazione cristiana della politica che si confronta, al massimo possibile dei valori conseguenti, per la costruzione della Stato o, se vogliamo, per la costruzione della città dell’uomo.
Altro che inciucio! vero on. D’Alema? Peraltro, Ella sa benissimo che gli inciuci si fanno per la gestione del potere e, molto spesso, senza fini, né obiettivi di programma: non per l’incontro sui valori da confrontare con la forza della dialettica democratica.
Più difficile salvaguardare i caratteri della laicità a fronte della richiesta di mantenere all’Italia i “patti lateranensi”. Qui sul serio, però, fu realizzato il massimo possibile di indipendenza dello Stato dalla Chiesa, date le circostanze di contesto che abbiamo richiamato.
In fondo si trattava di scegliere tra due opzioni: accedere al ricatto politico, presentando agli interlocutori “laici” il costo altissimo di una rottura con la S. Sede; oppure salvaguardare la sostanza delle richieste della Chiesa, proponendo un modello accettabile alla cultura ed alla coscienza giuridica contemporanea. Si scelse la seconda opzione, grazie all’intervento (rectius, all’iniziativa) di Giuseppe Dossetti, alla forza del suo gruppo in Costituente ed alla risposta dialettica, ma attenta e sostanzialmente positiva di Togliatti.
Dossetti che era anche un canonista e dunque ben consapevole del ruolo da giocare, richiamò il principio degli ordinamento sovrani ed originari individuando tanto nella Chiesa, quanto nello Stato i depositari di tale sovranità; ne conseguiva che né la Chiesa poteva dipendere dallo Stato, né quest’ultimo dalla Chiesa: la loro indipendenza era pertanto un reciproco conseguente. Il regime concordatario fu così basato su tale presupposto di cultura giuridica. Certo, fra tutti i possibili percorsi concordatari si scelse quello lateranense, ma questo fu appunto l’inevitabile presa d’atto di una situazione di cui abbiamo già detto e le cui conseguenze sarebbero potute sfuggire di mano alla gestione dei rapporti Stato/Chiesa, nella temperie del secondo dopo/guerra.
Resta intesa la legittima opzione di una diversa interpretazione dei fatti e delle scelte sullo specifico; ciò che non si può negare è lo sforzo lucidissimo di una classe dirigente che volle decidere autonomamente sui criteri da seguire in materie sulle quali non poteva ignorare (o non ha voluto ignorare) le richieste della Chiesa.
La conseguenza si espresse in una decisione autonoma dei laici che si ispirano ai principi della coscienza cristiana, sulle scelte concrete che attengono la costruzione della città dell’uomo; lo avrebbe poi richiamato il Concilio. Sinceramente qui, non vedo che cosa ci sia di inciucio.
Mi sia permesso, lo chiedo con sincera umiltà, un semplice invito. On. D’Alema, se proprio vuol rilanciare e nobilitare l’inciucio, individui altri temi ed altri protagonisti: attorno a Lei non ne mancano certo. Auguri per la scelta!
Agostino Pietrasanta (27/12/2009)

domenica 13 dicembre 2009

Salvare la Costituzione per un futuro di speranza. Una riflessione sulla figura di Giuseppe Dossetti.

Esattamente quindici anni fa, nel 1994, Giuseppe Dossetti, figura complessa del cattolicesimo italiano, ruppe un lungo periodo di silenzio pubblico e richiamò l’attenzione di tutti su quella che a suo giudizio andava delineandosi come un’emergenza politica, tale però da affondare le sue radici in una profonda crisi sociale e, prima ancora, etica (“il mare buio e livido della società italiana”).
In “Sentinella, quanto resta della notte?” (trascrizione di una commemorazione nell’anniversario della morte di Giuseppe Lazzati), affermava: “Pur non guardando al passato […] e pur guardando in avanti verso il mattino, la sentinella è ben consapevole che la notte è notte. […] Siamo di fronte a evidenti sintomi di decadenza globale.” E tra i tanti fecondi spunti di riflessione critica, insieme al limpido invito al rinnovamento dell’”uomo interiore” e alla “speranza”, nel suo scritto emergeva anche un appello alla necessità di una ferma difesa dei valori della Costituzione in tale contesto di “frantumazione della comunità”. L’appello fu ripreso in una lettera aperta al Sindaco di Bologna e a partire da essa ebbe avvio l’esperienza dei “Comitati per la difesa della Costituzione”, nel cui ambito si incontrarono proficuamente, sul terreno comune dei valori fondanti della nostra convivenza civile, persone di provenienza ideale e politica anche molto diversa.
Per riflettere ancora sull’attualità dell’analisi e del messaggio di Dossetti, il Centro ricerche e documentazione socioculturale (CRDS) e Appunti alessandrini (AP), in collaborazione con il Coordinamento provinciale per la difesa e l’attuazione della Costituzione, hanno organizzato una serata sul tema “Salvare la Costituzione per un futuro di speranza. Una riflessione sulla figura di Giuseppe Dossetti.” L’incontro ha avuto luogo presso il Museo della Gambarina il giorno 11 dicembre 2009. Riporto gli interventi di Agostino Pietrasanta e di Walter Fiocchi dello staff di AP.


Negli ultimi anni della sua vita, dopo la vittoria delle destre alle elezioni politiche del 1994 e la dichiarata intenzione di Berlusconi e del suo primo governo di porre mano ad una revisione costituzionale che avrebbe posto in crisi i principi ispiratori della carta, Giuseppe Dossetti dedicò gran parte delle sue forze ad una battaglia di difesa, ma anche di sviluppo della Costituzione, in certo senso personalissima. Tuttavia l’ispirazione di tale comportamento trae origini remote, nella formazione del protagonista e nella cultura di un filone essenziale della cultura politica dei cattolici che si richiama in gran parte ai movimenti intellettuali di Azione cattolica. Tocca a me, tenendo conto dell’azione di Dossetti, negli anni 1994/1996 (il 1996 è l’anno della sua morte), riprendere schematicamente alcuni di questi principi, quanto basti (spero) per capire; lascio a don Walter di parlare dei documenti più impegnativi di quest’ultima battaglia, anche in una prospettiva della loro permanente attualità.
Affronterò la chiacchierata, richiamando tre questioni essenziali. Mi servono a definire la ragioni culturali che sottendono da una parte la presenza e l’attività del gruppo dossettiano nella prima delle tre sottocommissioni che hanno redatto la Costituzione e dall’altra la difesa di cui abbiamo appena fatto cenno, promossa da Dossetti
Prima questione. Il valore attribuito dai dossettiani (meglio, dagli eredi dei movimenti intellettuali di Azione cattolica) all’esperienza fascista. Tale esperienza era vista come avvenimento apocalittico, esito e sbocco del pensiero politico moderno. Per loro il fascismo non era una deviazione, ma il logico compimento della società borghese/liberale. Non si trattava, dopo l’evento epocale di una guerra che aveva prodotto cinquanta milioni di morti, di riprendere il positivo della cultura liberale ed epurarlo dagli eventuali errori; non era possibile perché quella cultura di positivo non aveva nulla: era il portato o il precipitato storico di un principio negatore di ogni valore etico, di un’istanza egoistica fondata sull’individualismo più chiuso alla socialità ed alla solidarietà. Il fascismo non era che l’estrema degenerazione di queste premesse i cui risultati di crollo storico erano sotto gli occhi di tutti: cinquanta milioni di morti.
In loro, almeno da questo essenziale punto di vista, era assolutamente assente la prospettiva degasperiana, disponibile ad accettare il positivo della prima fase della rivoluzione francese, in cui De Gasperi individuava attraverso il trinomio libertà fraternità ed uguaglianza, una sostanziale fondazione evangelica; i risultati di quella Rivoluzione soprattutto nella Costituzione dell’ottantanove, costituiscono il trionfo della borghesia individualistica, egoista di cui il fascismo ed in genere i totalitarismi di Stato non sono stati che l’estrema degenerazione. Non per nulla La Pira, più volte, anche in Costituente rifiutò un interesse qualsiasi a quella Costituzione richiamando al contrario un possibile confronto con la costituzione di Weimar o addirittura con quella dell’Unione sovietica.
Non ne abbiamo tempi disponibili, ma sarebbe interessante una verifica di queste posizioni con il dibattito interno alla Resistenza di marca cattolica sul problema. Sui giornali partigiani, prodotti da preti o da laici cattolici, il tema ricorre insistente: siamo al crollo del sistema storico degli egoismi anticristiani (Olivelli, don Berto…). La conseguenza è semplice: contro la società dell’egoismo indotta delle ideologie liberali, è lecita la ribellione; la stessa partecipazione alla resistenza costituisce sì impegno contro il nazi/fascismo, ma anche opposizione radicale alle sue cause remote, fondate nella grande ingiustizia degli egoismi di una società corrotta; bisogna non ricuperare, non ricostruire, ma costruire “ab imis fundamentis”, dalle radici un nuovo quadro di civiltà ed al suo interno un nuovo quadro statuale. C’è un radicale richiamo allo spirito ed al dettato evangelico dell’amore a cui inevitabilmente i cristiani sono chiamati, per costruire la città dell’uomo: non per nulla lo stesso Dossetti ricordando Lazzati nel decimo anno della morte (1994) richiama la radicalità della presenza cristiana nella società. Attenzione, radicalità che non è intolleranza a confrontarsi dialetticamente col pensiero altrui, dal momento che in politica la dialettica è il sale della democrazia, ma è sacrificio personale e libertà dagli interessi individuali: la politica come passione e coma gratuità.
Seconda questione. In conseguenza una precisa idea di Stato al servizio del primato della persona umana. Afferma Rossetti in un passaggio di un suo discorso in Costituente, “Tanto più lo Stato dovrà svolgere una azione energica per superare gli egoismi ed assicurare la giustizia sociale, tanto più il cittadino dovrà essere garantito contro il prepotere di uno Stato totalitario e dittatoriale. E, nell’ordine del giorno che presenta alla sottocommissione il 9 settembre 1946 esplicita chiaramente il primato della persona e la destinazione dei servizi della Stato ancora alla persona. Peraltro, anche nel discorso che farà a Monteveglio, il 16 settembre 1994 e dunque all’interno della difesa, che egli promuove della Carta richiamerà come punto di forza e come principio essenziale della Costituzione il personalismo.
Ora è da precisare che la stessa ispirazione cristiana dell’impegno dei dossettiani in Costituente trova qui, su questo specifico versante, la sua coniugazione istituzionale e politica. Aveva detto La Pira alla XIX settimana sociale dei cattolici italiani, tenutasi a Firenze, nell’ottobre 1945, sul tema “Costituzione e Costituente”, “…ispirazione cristiana in politica non consiste nel fatto che lo Stato riconosca la religione cattolica come religione dello Stato…l’ispirazione cristiana dipende essenzialmente da questo fatto: che l’oggetto della Costituzione, il suo fine sia la persona umana quale il cattolicesimo la definisce e la realizza”
Di qui l’idea di Stato dei dossettiani.e la funzione che essi assegnano al diritto. Dossetti, richiama, più volte, il diritto ed il dovere, soprattutto per un cristiano, ma non solo, di resistenza allo Stato che dovesse prevaricare la persona e quelli che egli chiama i corpi intermedi territoriali (comuni, province regioni) e sociali (famiglia scuola, sindacato); nella tradizione del Movimento cattolico (M.C.) si sarebbero potuti richiamare parecchie valutazioni a questo riguardo. Io credo però che in Costituente questo abbia portato ad una discussione tra le più interessanti di quegli anni sul valore della libertà assicurata dalle istituzioni.
Se ci fu una convinzione, espressa da una larga maggioranza dei costituenti della prima sottocommissione, fu appunto questa: la libertà non poteva essere assicurata solo all’individupo, perché l’idea tradizionale (e sostanzialmente liberale) della libertà, per cui la mia libertà finisce dove comincia la tua non è accettabile. Al contrario è da dire che la mia libertà comincia, dove comincia la tua; solo se pongo le condizioni istituzionali e giuridiche perché tutti siano liberi, sarò libero anch’io. E questo faccio solo se tolgo tutti gli ostacoli che impediscono ad una parte dei cittadini di usufruire della libertà e dei suoi effetti positivi.
La Pira e Dossetti, su queste premesse parlavano di libertà finalizzata: la libertà ha significato se si pone come fine la possibilità di tutti ad essere liberi: liberi dalla prevaricazione delle istituzioni, ma anche liberi dalla fame e dall’ignoranza. Libertà e solidarietà si realizzano in un contesto comune; per questo i dossettiani qui si incontrano con le sinistre in un programma di una democrazia sostanziale, realizzata. Non bastano regole condivise di convivenza, pur necessarie (democrazia formale) necessitano capacità data a tutti i cittadini di usare ed usufruire di tali regole (democrazia sostanziale). Se qualcuno è escluso da questo beneficio non c’è reale e concreta realizzazione democratica. Dossetti ritiene, al riguardo, fondante un’ispirazione di radicale cristianesimo, ma sa che su questa strada si può percorrere un cammino comune con tutti gli uomini aperti al dialogo. Non è senza un motivo che ricordando Lazzati, a dieci anni dalla morte (lo fa ancora una volta nel 1994: Lazzati era morto nel 1984) parlerà di una realizzazione del valore cristiano nella storia, percorrendo con tutti gli uomini la via della piena realizzazione dei valori, nel richiamo,sarà bene richiamarlo al Concilio.
Vengo alla terza ed ultima questione, quasi esclusivamente espressa da Dossetti, più che dal gruppo di cui fa parte. La laicità nelle istituzioni.
Alla settimana sociale dei cattolici italiani il card. Dalla Costa, per conto della S.Sede,aveva chiesto espressamente che nella nuova costituzione fossero mantenuti all’Italia i patti lateranensi e, di conseguenza le prerogative (qualcuno li chiama privilegi) contemplate dai patti stessi. Il problema era di particolare complessità; La storiografia riconosce il grande prestigio acquisito dalla Chiesa italiana nell’ultima fase del conflitto; lo Chabod, nelle lezioni di storia contemporanea, già negli anni sessanta rilevava tale prestigio, dovuto anche e soprattutto al fatto che nella disgregazione dello Stato, dopo l’otto settembre (1943), la Chiesa, i vescovi ed i parroci, indipendentemente dai precedenti compromessi col regime, erano rimasti al loro posto a difendere la popolazione civile. In questa situazione sarebbe stato difficile non ascoltare le richieste della Chiesa senza turbare la pace religiosa. Si trattava, di conseguenza di mantenere un occhio di riguardo a tali richieste, preservando la laicità delle istituzioni.
Dossetti fu, e qui per iniziativa personalissima, l’artefice del massimo possibile di rispetto della laicità in una condizione apparentemente “disperata”, anche grazie all’intuizione di Togliatti, consapevole delle ragioni dossettiane. Egli era un canonista; aveva fatto la tesi sulla violenza nel matrimonio canonico, poi, dopo un periodo di assistentato volontario, in cattolica, di diritto romano, aveva avuto, da Gemelli, l’incarico di assistente di diritto canonico. Sapeva come muoversi e, richiamando senza troppo apparire, un principio della “Immortale Dei” (1885) di Leone XIII, nella quale viene affermato che Stato e Chiesa ciascuno dispone di una sua intrinseca autonomia, concluse che la loro autorità è originaria per entrambi. I due ordinamenti cioè sono originari e ciascuno, nel proprio ambito sovrani, senza alcun rapporto di dipendenza: ne deriva che possono e debbono confrontarsi in forza di accordi concordatari. Il concordato nei rapporti con la Chiesa diventava così fondato sulla natura giuridica dei due ordinamenti;. non nelle pretese di una parte o dell’altra.
Fu il massimo possibile di laicità permesso in quel momento: De Gasperi e Togliatti, ciascuno per la propria parte politica ne presero atto. Ci sarebbe da aggiungere (e non è cosa di poco conto) che la costituzione non si accontentò di recepire il criterio concordatario, ma espressamente accettò un tipo specifico di concordato: i patti lateranensi. Anche qui (la parte di soluzione non proprio rispettosa della laicità), va dato atto a Dossetti di aver chiarito con le parti interessate, o la maggioranza di esse, che non si poteva andare al di là, pena un possibile gravissimo “vulnus” nella pace religiosa nel Paese.
Ho richiamato quest’ultima questione perché, anche su questo versante, siamo un pò nella notte di cui Lazzati e Dossetti vedevano gli aspetti più inquietanti; perché se nel periodo 1994/96, la notte era in corso, a mio avviso essa non è finita (anzi!); rimane che tutti gli uomini aperti al dialogo non possono non sperare che finisca.
Agostino Pietrasanta

«Qualcuno chiama da Seir: “Sentinella, quando finisce la notte?
Dimmi, quanto manca all’alba?”. La sentinella risponde: “Arriva l’alba,
ma presto anche la notte. Se volete fare altre domande, tornate di nuovo”»
(Isaia 21,11-12)
Il’94 è l’anno della discesa in campo di Berlusconi e del suo primo governo: che, dichiaratamente, si propone di mettere mano ad una radicale riforma della Costituzione. Dossetti esce da un silenzio durato 40 anni, ed intitola il discorso di commemorazione dell’amico fraterno Lazzati appunto “Sentinella, quanto resta della notte?”.
Attualità della riflessione dossettiana
In quei giorni del 1994, Dossetti vede affiorare un male diagnosticato con molti anni di anticipo: la supremazia di una concezione individualistica, in cui il diritto costituzionale regredisce a diritto commerciale; il dissolversi di ogni legame comunitario, mascherato dietro l’appello al “federalismo” (il “politico” diventa pura contrattazione economica); il rifiuto esplicito di una responsabilità collettiva in ordine alla promozione del bene comune (la comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole sino alla riduzione al singolo individuo). Non si può sperare, dice Dossetti e parla ai cattolici, che si possa uscire dalla “nostra notte” “rinunziando a un giudizio severo nei confronti dell’attuale governo in cambio di un atteggiamento rispettoso verso la Chiesa o di una qualche concessione accattivante in questo o quel campo (la politica familiare, la politica scolastica)“.
Fenomenologia dell'oggi
Il progressivo imbarbarimento della situazione è sotto gli occhi di tutti. Non occorrono molte parole, perché i fatti parlano da soli e sono inequivocabili. Ovviamente molti dei problemi che affliggono il nostro Paese non sono nati oggi e ce li trasciniamo da decenni. Nuovo, però, è il clima pesante – la «filosofia» – con cui si affrontano. Certamente vi influiscono la paura diffusa e il bisogno di sicurezza largamente avvertito; ma è ideologico addossarne la responsabilità solo all’uno o all’altro problema. Nessuno nega i problemi complessi dell’immigrazione clandestina, ma trasformarla – come si fa – nel capro espiatorio significa affrontare il fenomeno in modo sbagliato; non aiuta a risolvere il problema, ma lo esaspera. Introdurre il reato di ingresso e di soggiorno illegale e imporre tasse esose per ottenere il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno; invitare i medici a denunciare i pazienti stranieri illegali; ventilare l’ipotesi di classi separate per i bambini extracomunitari; rifiutare agli stranieri (anche socialmente integrati) i servizi sociali e i sussidi di disoccupazione garantiti agli italiani sono tutte scelte che non risolvono la situazione, ma ne aggravano i contorni. Perché stupirsi poi se, in un clima inospitale e discriminatorio, si moltiplicano – da una parte e dall’altra – casi di violenza brutale, di intolleranza, di razzismo e di xenofobia; se le città diventano sempre più invivibili e insicure? Com’è possibile garantire l’ordine pubblico e la sicurezza inviando i soldati a pattugliare le strade, minacciando la castrazione chimica agli stupratori o istituendo ronde paramilitari destinate a spingere i cittadini a farsi giustizia da sé? Così si scivola verso l’«inciviltà sociale».
Nello stesso tempo, si diffonde sempre più anche l’«inciviltà politica», fondata sul falso presupposto che la legittimazione popolare (la maggioranza elettorale) sia criterio di legalità. Ciò mina alla radice la civiltà politica e giuridica del nostro Paese e fa degenerare la democrazia in «autoritarismo». Infatti, il giudizio di legalità non spetta al popolo, ma alla magistratura. Non si può usare il potere legislativo per sottrarsi alla giustizia o per ridurre l’autonomia della funzione giudiziaria. Quando questo accade, l’effetto è devastante: si diffonde la sfiducia nello Stato e nelle sue istituzioni; s’incrina nei cittadini il senso civico e della legalità; si favorisce la corruzione pubblica e privata; s’insinua nell’opinione pubblica la convinzione che, dopotutto, il «fai da te» premia. Così si scivola verso l’«inciviltà politica».
La conseguenza è che, anche a livello istituzionale, la partecipazione democratica è soppiantata gradualmente dall’«autoritarismo», da una sorta di presidenzialismo di fatto: chi ha il potere comanda, non governa: diviene allergico a ogni sorta di controllo e agli stessi contrappesi essenziali del sistema democratico (si tratti della magistratura o del presidente della Repubblica); preferisce ricorrere ai decreti legge e al voto di fiducia, esautorando di fatto il Parlamento e riducendolo al ruolo di notaio delle decisioni prese dal Governo; i dibattiti e le necessarie mediazioni della democrazia politica sono visti come un intralcio, un ostacolo, una perdita inutile di tempo. La classe politica è cooptata dall’alto: si toglie ai cittadini la libertà di «eleggere» i propri rappresentanti, e viene loro lasciata solo la possibilità di «ratificare» con il proprio voto liste confezionate dal vertice. Ecco perché nasce e si diffonde l’«antipolitica»: non dice nulla il fatto che nelle elezioni politiche del 13-14 aprile 2008 l’astensione abbia superato i 10 milioni di cittadini (circa un italiano su 4) e nelle elezioni regionali in Abruzzo (14-15 novembre 2008) abbia raggiunto il 47%? È inutile continuare. È chiaro che così si scivola verso l’«inciviltà» e si entra in rotta di collisione con lo spirito (e spesso anche con la lettera) della nostra Costituzione.
Il pensiero di Dossetti
Dossetti non nega la necessità di cambiamenti. Elenca: riforma della pubblica amministrazione; contrasto alle degenerazioni dello Stato sociale; lotta alla criminalità organizzata; valorizzazione della piccola e media imprenditoria; riforma del bicameralismo; promozione delle autonomie locali. Teme però riforme costituzionali ispirate da uno “spirito di sopraffazione e di rapina”. “C’è - avverte – una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto. Questa soglia sarebbe oltrepassata da ogni modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti dalla Costituzione. E così va pure ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per l’avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo ancorché fosse realizzato attraverso referendum che potrebbero trasformarsi in forma di plebiscito“.
I referendum, segnati da “una forte emotività imperniata su una figura di grande seduttore“, possono trasformarsi infatti “da legittimo mezzo di democrazia diretta in un consenso artefatto e irrazionale che appunto dà luogo a una forma non più referendaria ma plebiscitaria“. Il “padre costituente” denuncia senza sofismi quel che vede dietro la “trasformazione di una grande casa economico-finanziaria in Signoria politica“. Vede la nascita, “attraverso la manipolazione mediatica dell’opinione”, di “un principato più o meno illuminato, con coreografia medicea“.
Il «pensiero unico» dominante, cioè la «filosofia» politica neoliberista, contrasta con i principi fondamentali della nostra civiltà, ai quali s’ispira la Carta repubblicana: ridurre la persona a «individuo» contrasta con il «principio personalista» che è alla base della nostra civiltà e della nostra Legge fondamentale; la visione meramente «legalista» delle relazioni umane collide con il «principio solidarista» costituzionale; l’«autoritarismo» è la negazione del «principio di partecipazione sussidiaria», cardine del nostro ordinamento democratico. Non è un caso, quindi, che – al di là dell’ossequio pubblico, dovuto e formale – la Carta repubblicana sia deprezzata fino a definirla «di ispirazione sovietica» e si profilino all’orizzonte «riforme» che la colpirebbero a morte.
Dossetti chiede allora ai cristiani di “riconoscere la notte per notte” e di opporre “un rifiuto cristiano” ritenendo che “non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa“.
Nessuna trattativa. Per trovare queste parole che aiutano a sperare ancora in una via diurna, si deve ricordare Dossetti. Dove sono le “sentinelle” a cui si può chiedere oggi: “Quanto resta della notte“? Walter Fiocchi

sabato 5 dicembre 2009



JERUSALEM -PATRIARCHATUS LATINUS
بطريركية القدس للاتين

Venite a fare con me Natale a Gaza!
“O Bambino di Betlemme, lunga si è fatta la nostra attesa,
e siamo stanchi di questa situazione, stanchi anche di noi stessi”.
Così, carissimi fratelli e sorelle,
supplicavo il Dio-Bambino durante gli interminabili giorni di guerra
che hanno insanguinato lo scorso Natale nella Striscia di Gaza.
Le nostre armi, per resistere alla rassegnazione e allo sconforto,
sono state la preghiera e la comunione tra le Chiese e i cristiani di tutto il mondo.
Un enorme numero di vittime, tra cui centinaia di bambini,
e la distruzione di case e città, hanno trasformato la festa della vita nascente
nel lutto di tanta desolazione e morte.
E dopo un anno, purtroppo, non è certo migliorata la vita della gente di Gaza!
Anche quest'anno, allora,
prendiamo le stesse armi della preghiera e della comunione
per sentirci uniti a chi più soffre e
accogliere “la Grazia di Dio, apportatrice di salvezza!”
Io stesso mi recherò domenica 20 dicembre nella Parrocchia di Gaza per celebrare il Santo Natale e mi piacerebbe portarvi tutti con me quel giorno...
Per questo VI INVITO A FARE ANCHE VOI NATALE A GAZA
raccogliendovi in questa domenica nella comune supplica al Dio della Pace
† Fouad Twal,
Patriarca latino di Gerusalemme

Ritorna ancora a Gaza, Signore!

«Il terrore piomberà su di voi come un turbine» (Proverbi 1,27)

Signore nostro Dio, a Natale, un anno fa, un disastro si è abbattuto su di noi come una tempesta.
Sotto i bombardamenti eravamo affamati e assetati. I nostri bambini piangevano.
Non trovavamo pane per loro nè acqua per placare la loro sete.

Tutti: «Perché, Signore, stai lontano,
ti nascondi nel tempo dell’angoscia?» (Salmo 10,1)

Le finestre e le porte delle nostre case sono state distrutte dalle detonazioni delle bombe
e noi deperivamo nel freddo di dicembre e dell’inverno che avanzava.
I nostri corpi raggelati dalla paura, dalla sete e dalla fame,
non potevano consolare i piccoli che si rannicchiavano su di noi.

Tutti: «Perché, Signore, stai lontano,
ti nascondi nel tempo dell’angoscia?»
«Quello sarà un giorno di tribolazione e d’angoscia,
giorno di calamità e di miseria (Sofonia 1,5)

Morivano gli innocenti, soprattutto i bambini, le donne e i vecchi.
Chi resisteva viveva all’addiaccio, per le strade e nei cimiteri, sotto le bombe, piangendo e urlando,
mendicando pietà, consolazione e protezione.

Tutti: «Voglio dar libero sfogo al mio lamento,
voglio parlar nell’amarezza dell’anima mia.» (Giobbe 10,1)

Ma Il mondo restava indifferente alla nostra pena, muto e lontano da noi.
I carri armati e le bombe ci massacravano e noi ci sentivamo profondamente umiliati.

Tutti: «Voglio dar libero sfogo al mio lamento,
voglio parlar nell’amarezza dell’anima mia.»

«Gioite nella speranza, siate pazienti nella tribolazione,
perseveranti nella preghiera» (Romani 12,12)

E’ trascorso un anno e ancora soffriamo per la fame, la sete, gli stenti,
l’assedio, l’umiliazione e la paura. Tra la schiavitù e la morte non c’è davvero scelta.
E se la morte si imporrà a noi, i nostri cuori ritroveranno il coraggio necessario per affrontare la morte.

Tutti: Signore della Pace, fa piovere la pace su di noi!

Signore, fa che impariamo a sentire il grido delle vittime di tutti i conflitti
come oggi sentiamo quello delle voci che si levano da Gaza.
Perdona la nostra sordità, apri le orecchie e i cuori all’angoscia del nostro prossimo.

Tutti: Signore della Pace, fa piovere la pace su di noi!

E anche noi, con la consolazione che riceviamo da Dio,
fa che possiamo consolare chi si trova in qualsiasi genere di afflizione!» (2 Cor 1,4)

Signore Gesù, quando sei passato da Gaza, fuggendo la minaccia di Erode, noi ti abbiamo protetto.
Ti abbiamo nutrito. Abbiamo riscaldato il tuo corpo indebolito. Ti supplichiamo: ritorna ancora a Gaza!
Non dimenticare il tuo popolo di più di tremila cristiani e un milione e mezzo di musulmani.
Signore della Pace, dona la pace alla nostra terra.
Siamo assetati di giustizia: Vieni Signore Gesù.
Preghiera di Padre Manuel Musallam, 5 novembre 2009

giovedì 26 novembre 2009

Il chierichetto e il Padre predicatore

Da ragazzino facevo il chierichetto; servivo la messa e numerose altre celebrazioni liturgiche. Il mestiere era praticato, almeno al mio paese, da circa l’ottanta per cento della popolazione maschile della mia età, le ragazze erano rigidamente escluse. Non erano però esclusi neppure i figli (maschi, s’intende) di coloro che per effetto del decreto del S.Ufficio del 1949 sui comunisti, non avrebbero potuto ricevere i sacramenti, ma che in pratica, raramente venivano privati della comunione dai loro parroci; ed il mio parroco era, sullo specifico, di manica larga, né mi risulta che sia incorso nelle sanzioni canoniche che oggi, in alcune diocesi, abbondano.
Il risultato era inevitabile: eravamo una bella schiera, sempre pronti a truffare le ostie disposte per la consacrazione ed a mangiarne in gran quantità, annaffiandole con un gustoso moscato che avrebbe dovuto servire per la messa: il sacrestano aveva un bel da fare ad aggiungere vino nelle ampolline (si chiamano così le minute bottigliette che lo contengono), all’ora della messa il vino non c’era mai e noi ci presentavamo al “servizio” con un punta di spensierata allegria.
Ora è ben noto: l’anzianità fa grado e quando un mio cugino ed io, dalle elementari siamo passati a frequentare le medie (allora non certo obbligatorie: eravamo nel 1951), abbiamo preteso la leadership del gruppo. Non ci fu contestata, ma i patti comportavano che a maggior autorità corrispondesse maggiore impegno; così i servizi più gravosi gravavano su noi due.
Avvenne che, in corrispondenza con l’anno giubilare (celebrato a Roma nel 1950 e ripetuto nelle parrocchie nel 1951), fu organizzata una missione parrocchiale con la presenza di cinque frati cappuccini. Tra le altre iniziative era prevista una messa per le 6 (le sei del mattino!), per le ragazze dai diciotto ai trent’anni, fidanzate, giovani spose o in attesa (non so quanto preoccupata) del principe azzurro. Ovviamente il parroco, per il servizio, si rivolse a me ed a mio cugino: chi sta sopra lo stia per servire!
Dieci minuti prima dell’ora stabilita, mentre vestivamo la talare con la cotta di rigorosa ordinanza, assistemmo ad una vivace polemica tra il parroco ed il frate che doveva celebrare la messa e fare la predica alle fanciulle che già affollavano la chiesa, ciondolando per il sonno. Il problema nasceva dal fatto che il cappuccino non voleva ammettere la nostra presenza, mentre il parroco gli faceva osservare che difficilmente avremmo potuto servire messa, senza rimanere in chiesa. Alla fine il compromesso: saremmo rimasti, ma durante la predica saremmo dovuti uscire, avrebbe poi provveduto il parroco a richiamarci al momento opportuno. Noi, che non avevamo mai ascoltato una predica, fummo presi da un’insolita curiosità: perché non potevamo ascoltare?quale segreto era da custodire nelle parole che il buon frate avrebbe rivolto alle ragazze?
Va detto che accanto e a fianco dell’altare, era posta una nicchia che conteneva una statua della madonna assunta in cielo; nicchia di buone proporzioni con una cupoletta, la cui parte concava era interna alla chiesa, ma quella convessa andava a modificare, sopra la soffitta, il pavimento della sede dell’oratorio di Azione cattolica, in allora anche sede della D.C. (democrazia cristiana, alla faccia della laicità della politica). Sulla curvatura convessa avevamo, da tempo, notato una grata (forse uno sfiatatoio?) dalla quale si sentiva benissimo, meglio che non avvenisse in chiesa, ciò che si diceva all’altare e noi ne approfittavamo: quando veniva l’ora di correre al servizio di chierichetto (dalla grata controllavamo), mollavamo il biliardo o altri simili diporti e correvamo al nostro dovere, pena qualche rimbrotto, peraltro sempre bonario del parroco.
Quella volta però la grata servì a ben diverso scopo; poteva essere usata, in contemporanea, da tre persone e noi eravamo in due. Non ci perdemmo una parola di una predica da manuale. Con voce stentorea, inflessioni urlate, ben intenzionate ad incutere spavento, il predicatore continuò, per più di mezz’ora a richiamare l’importanza della purezza, della verginità prematrimoniale, ma anche della castità sponsale (disse proprio così: non capivamo, ma mandavamo a mente senza problemi): stessero le giovani virtuose sempre lontane da ogni tentazione ed anche (e soprattutto) le fidanzate non permettessero mai confidenze ed intimità di qualunque tipo da parte dei loro amici maschi, sicuramente sempre pronti all’attacco. I risultati dell’improvvida eventuale accondiscendenza, oltre ad indurre malattia e disonore, avrebbero condotto di sicuro, alle fiamme infernali.
Terminata la predica, non ci fu bisogno che il parroco ci richiamasse; ci catapultammo in chiesa un po’ storditi ed un po’ curiosi. Dalla grata non potevamo vedere le fanciulle oggetto della reprimenda; appena entrati osservammo una scena curiosissima: le giovincelle, prima addormentate si scambiavano sguardi di malizia, occhiate divertite, sorrisi di chiara allusione. Sentimmo anche il parroco che diceva al suo vicario (si diceva vice/parroco): se prima non ci pensavano neppure adesso lo faranno. Non capimmo e continuammo a servire messa.
Alla fine, come al solito, quando affrontavamo un turno tanto scomodo, andammo in canonica, invitati per la colazione, mentre il parroco stava battibeccando (ma non sentimmo cosa si dicevano) col santo frate. Poco dopo, mentre la perpetua, una compita signora che di nome faceva Domitilla, ci versava latte e cioccolato, il parroco con la sua solita espressione burbera ci redarguì: avete ascoltato bene tutto? Funziona la sfiatatoio? Incassammo e continuammo a consumare la nostra insolita, quanto ricca colazione.
A me però è sempre rimasto impresso il giudizio del mio parroco di allora: se prima non ci pensavano nemmeno, ora lo faranno. Ed ora che capisco (?!) un pochettino di più, la condivido pienamente: la condivido quando ascolto le ripetute condanne della chiesa, i suoi ripetuti rifiuti di aprire le sue porte alla fragilità dell’uomo, le sue esclusioni tanto ribadite quanto inefficaci.
Mi ha colpito ad esempio che un vescovo ritenga di dover rendere pubblica l’esclusione di un Kennedy dall’eucarestia, per la sua politica in tema di aborto. Mi chiedo: è proprio necessario? Siamo tutti convinti che l’aborto non può essere ammesso, che i cattolici impegnati in politica debbono fare il possibile (la politica non può fare di più) perché il fenomeno venga contenuto, perché la vita sia difesa in ogni caso; lo sappiamo bene! Bisogna proprio ripeterlo, con l’espressione della condanna e col rischio di riaprire dei fronti di scontro politico dai dubbi risultati, in presenza di opinioni prevalentemente laiciste tanto a destra, quanto a sinistra? E non vogliamo proprio affidare il difficile compito della mediazione possibile ai laici, perché possano puntare al massimo di bene rispetto ad un valore che conoscono benissimo ed in cui credono?
Benedetta autonomia dei laici! Araba fenice: che ci sia ognun lo dice, dove stia nessun lo sa!
Agostino Pietrasanta

lunedì 23 novembre 2009

Venti anni di Intifada: radiografia del massacro

Riprendo da L'Unità di oggi (http://www.unita.it/news/mondo/91655/venti_anni_di_intifada_radiografia_del_massacro) questo illuminante bilancio di di Umberto De Giovannangeli. Almeno per rompere il silenzio tombale caduto in Italia e nel mondo sul conflitto israelo-palestinese...

Bilancio di un conflitto lungo venti anni. Gli anni della prima e della seconda Intifada. Bilancio di sangue. Astilarlo è B’Tselem, la più autorevole associazione israeliana per i diritti umani. Secondo il rapporto il conflitto israelo-palestinese ha fatto almeno 8.900 morti in due decenni, la gran parte dei quali erano palestinesi. I militari israeliani hanno ucciso 7.398 palestinesi, tra i quali 1.537 minori, sia in Israele che nei Territori occupati; i palestinesi, dal canto loro, hanno ucciso 1.483 israeliani, tra i quali 139 minori. Questi anni sono stati contrassegnati dalla prima Intifada (1987-1993), dalla seconda Intifada che è iniziata nel 2001 e dall’offensiva «Piombo fuso » di Israele contro la Striscia di Gaza.

BILANCIO DI SANGUE
Il 2009 è stato l’anno più sanguinoso con la morte di 1.433 palestinesi, di cui 315 minori, quasi tutti uccisi nel corso dell’operazione «Piombo fuso» (27 dicembre 2008 - 18 gennaio 2009). B’Tselem ha valutato che sono stati 1.387 (di cui 320 minori e 111 donne) i palestinesi uccisi in tre settimane. Il 1999 è stato l’anno meno sanguinoso per i palestinesi (8 morti) B’Tselem precisa che tra le vittime israeliane 488 erano membri della polizia o dell’esercito, le altre 995 sono state uccise in seguito agli attentati in Israele o nei territori occupati. Per Israele l’anno più duro è stato il 2002 con 420 morti e il 1999 il meno violento (4 morti). 335 i palestinesi agli arresti amministrativi senza processo (contro 1.794 nel 1989).

DEMOLIZIONI
Nel corso di questi 20 anni le autorità israeliane hanno demolito, sia perché erano state costruite senza permesso, sia per infliggere una misura punitiva alle famiglie degli attentatori 4.300 case palestinesi in Cisgiordania, in particolare a Gerusalemme est, così come nella Striscia di Gaza fino all’evacuazione di Israele nel 2005. In più, B’Tselem stima che 6.240 case siano state distrutte nel corso dell’operazione militare nella Striscia di Gaza (3.540 solo nell’operazione «Piombo fuso »). Se si abbraccia un arco di tempo più lungo, dal 1967 al 2008, le case palestinesi demolite sono state 24.125. In 20 anni il numero di israeliani che vivono in Cisgiordania o a Gerusalemme est è triplicato per arrivare a 500.000, secondo le cifre ufficiali riprese da B’Tselem.

SEGREGAZIONE
Il rapporto spiega che la città di Hebron è sottoposta˘alla distruzione delle fonti di reddito a causa delle restrizioni alla libertà di movimento imposte dall’esercito israeliano, in particolare dopo lo scoppio della seconda Intifada. Tali restrizioni comprendono il divieto totale di camminare o viaggiare sulle strade principale della città, la chiusura dei negozi in base a un decreto militare. Nel rapporto si sottolinea che la città di Hebron, in Cisgiordania, vive «una politica di segregazione su base razziale». Nelle aree vicino alle case dei coloni, le autorità di occupazione hanno costretto i cittadini palestinesi a evacuare più di 1014 unità abitative, cioè, il 41,9% del totale delle case della zona. Dal settembre 2000 fino ad oggi, rileva B’Tselem, «i palestinesi sono stati cacciati via da più di 1000 appartamenti e 1829 negozi commerciali nel centro di Hebron, a seguito delle pressioni praticate dall’esercito di occupazione israeliana, dalla polizia e dai coloni».

CHIUSURE E BLOCCHI
Ampio spazio è dato poi nel rapporto agli effetti deleteri per la popolazione palestinese causati dal blocco della Striscia di Gaza e dalla costruzione della barriera di separazione: entrambi stanno provocando gravi sofferenze ai civili. Nella Striscia di Gaza, inoltre, la disoccupazione ha ormai toccato il 50 per cento, e il 79 per cento delle famiglie vive sotto la soglia di povertà. Senza contare la penuria di elettricità e acqua potabile (sono 228 mila le persone che non vi hanno accesso in Cisgiordania), con gravi conseguenze anche sulla salute. Atutto questo si aggiungano le restrizioni nei movimenti, con l’installazione di decine di check-point (18 nella sola Hebron), e il divieto assoluto di transito per i palestinesi lungo 137 chilometri di strade.

sabato 14 novembre 2009

Ora di Islam nella scuola?

La proposta di introdurre nelle scuole italiane, pubbliche e private, un’ora di religione islamica, alternativa a quella cattolica, per gli alunni di fede musulmana, non ha fatto breccia né nella politica né nella Chiesa… In verità, la proposta ha subito ricevuto un sì autorevole nel mondo cattolico, quello del presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, card. Renato Martino: «A meno che gli islamici non scelgano di convertirsi al cristianesimo – perché la libertà di religione è un principio sancito dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo – se scelgono di conservare la loro religione hanno diritto ad istruirsi nella loro religione. Con i debiti “controlli”, inoltre, l’insegnamento nelle scuole eviterebbe che i giovani di religione islamica finiscano nel radicalismo». Sulla stessa linea il card. Georges Cottier, secondo il quale “per milioni di immigrati la conoscenza è antidoto al fondamentalismo”. D’altra parte, in passato, aveva manifestato una posizione di apertura nei confronti della medesima problematica lo stesso Benedetto XVI, quando il dibattito aveva coinvolto il suo paese natale, la Germania. In un’intervista del ’99 l’allora cardinal Ratzinger specificava che le organizzazioni islamiche richiedenti quell’insegnamento avrebbero dovuto attestare “una piena adesione alla Costituzione” tedesca e dare garanzie che non venisse a realizzarsi “un indottrinamento ma un’informazione equilibrata e oggettiva sull’Islam” (e in effetti in alcuni Länder tedeschi l’insegnamento è stato poi sperimentato secondo questi principi).
Il mondo politico con argomentazioni più o meno etnocentriche e difensive dell’identità cristiana, ha bollato la proposta come espressione di un “malinteso pluralismo culturale”. Una secca smentita delle posizioni del card. Martino è invece giunta dal presidente della Cei, card. Bagnasco: «L’ora di religione cattolica nelle scuole di Stato si giustifica in base all’articolo 9 del Concordato, in quanto essa è parte integrante della nostra storia e della nostra cultura. Pertanto, la conoscenza del fatto religioso cattolico è condizione indispensabile per la comprensione della nostra cultura e per una convivenza più consapevole e responsabile. Non si configura, quindi, come una catechesi confessionale, ma come una disciplina culturale nel quadro delle finalità della scuola. Non mi pare che l’ora di religione ipotizzata corrisponda a questa ragionevole e riconosciuta motivazione». Dichiarazione formalmente ineccepibile; io stesso ho in più occasioni difeso la “necessità” dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola e continuo a difenderlo, anche se non ritengo corretto porlo in maniera esclusiva. Condivido quanto ha scritto Franco Monaco: «La questione, di portata epocale, dell’immigrazione e, segnatamente, le politiche tese all’integrazione dentro una società multiculturale e multireligiosa sono un terreno singolarmente congeniale a un confronto che trascenda gli schieramenti. Nello specifico, la proposta ha il merito di riaprire una discussione su tre problemi di rilievo tra loro connessi: come fare i conti con la società multireligiosa; come svolgere in concreto l’idea di una “laicità positiva e del confronto”, che muova cioè dalla convinzione che le religioni rappresentano una risorsa più che un problema per la vita culturale e civile; come ovviare al problema – sostanzialmente negletto – degli studenti che non si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica e che spesso se ne stanno in oziosi o se ne tornano a casa».
Se la proposta è politicamente impraticabile, al momento attuale credo urgente e importante aprire un dibattito culturale, libero da logiche di parte e da rigidità ideologiche, per ripensare l’intero assetto scolastico del discorso religioso; e intanto, nei prevedibili tempi lunghi di attivazione di una nuova e adeguata risposta della scuola alla “domanda religiosa” della società, qualificare l’attuale offerta scolastica in materia.
Intanto poiché le attività scolastiche per i “non avvalentisi” dovrebbero avere attinenza all’area etico-religiosa, potrebbero proporre, quale oggetto di studio, la religione islamica o/e la religione ebraica o/e un’etica sociale… Sicché, la proposta di un’ora facoltativa di religione islamica potrebbe, in primo luogo, contribuire a coprire “l’ora del vuoto” come è stata definita l’ora alternativa. Si tratterebbe di un’ora rivolta non solo agli eventuali studenti musulmani ma anche ai “non avvalentisi”, che potrebbero scegliere tra le varie opportunità offerte dalla scuola. Capisco che una difficoltà nascerebbe dallo statuto stesso di queste religioni “teocratiche”, nelle quali è faticoso distinguere il sapere dal credere, la religione dalla fede. Se fa difficoltà per la scuola la “confessionalità” della religione cattolica (che però riconosce la laicità delle istituzioni pubbliche), a maggior ragione diventa incompatibile una religione che si identifica con la propria fede. Ma, poi, perché offrire questo necessario approfondimento culturale solo ai “non avvalentesi”?
La provocazione della proposta va allora accolta per aprire un cantiere di riflessione e di rielaborazione dell’intero assetto del discorso religioso nella scuola. Penso che non risponda alle attese di una educazione interculturale l’attivazione di tante “ore” quante sono le religioni professate nella società, tantomeno se destinate, ciascuna, ai fedeli di quelle religioni. Ma nello stesso tempo penso che il diritto di scelta educativa rivendicato per i cattolici debba valere anche per chi cattolico non è, secondo i principi della nostra Costituzione. Ma selezionare gli studenti sulla base della loro anagrafe confessionale, creerebbe e aumenterebbe non l’integrazione ma la ghettizzazione delle diverse appartenenze religiose; le materie di studio, anche quelle religiose, vanno offerte a tutti gli studenti e devono rientrare pienamente nel curricolo scolastico di ciascuno. La moltiplicazione degli insegnamenti confessionali – l’ora islamica oggi, poi quella ortodossa e così via – confermerebbe la tesi che alla religione va riservato un insegnamento particolare e, per di più, mantenuto all’interno dei recinti confessionali; ciò non favorirebbe la reciproca conoscenza, il dialogo tra le fedi e le culture diverse. In questa prospettiva si pone la proposta di attivazione autonoma, da parte della scuola, di un corso curricolare di cultura interreligiosa per tutti declinato sulle tre religioni, ebraica, cristiana, islamica, da articolare su base storico-comparata e con impianto fenomenologico-ermeneutico.
Mi sembra perciò decisamente più persuasiva, e soprattutto più conforme allo statuto ideale di una scuola pubblica compiutamente formativa, l’idea – avanzata vent’anni or sono da Pietro Scoppola e Luciano Pazzaglia, ripresa di recente da Massimo Cacciari – di un insegnamento aconfessionale di cultura religiosa obbligatorio per tutti naturalmente affidato a insegnanti vincitori di regolare concorso pubblico. Non è impossibile mettere a fuoco contenuti e metodi di una tale disciplina, che certamente dovrebbe privilegiare le grandi religioni monoteiste così decisive nel forgiare la civiltà occidentale. Sarebbe altresì uno stimolo a reintrodurre lo studio della teologia e delle scienze religiose nelle università pubbliche, presenza che si è interrotta all’inizio del secolo scorso. A fondamento di tale “terza via” sta il convincimento che il vero, grande problema che ci affligge è l’analfabetismo religioso, l’ignoranza dei grandi Libri sacri. Si attesterebbe, per questa via, la rilevanza delle religioni nella cultura e dunque nella formazione culturale delle nuove generazioni. Ci si porrebbe al riparo dell’insidia dello slittamento di insegnamenti confessionali nella direzione impropria dell’indottrinamento e del proselitismo. Conosco le resistenze della Chiesa di fronte a tale ipotesi. Ma oggi la società multireligiosa è già una realtà. Con le opportunità e i problemi, anche pastorali, che essa porta con sé. Condivido l’auspicio di Franco Monaco: «La Chiesa farebbe bene a rifletterci e a raccogliere positivamente la sfida. Senza timori. Essa ha i mezzi e la forza per farlo. Nessun altra istituzione dispone delle sue risorse umane, culturali, organizzative per forgiare gli insegnanti. Il Concordato è uno strumento e non un fine e, nel suo preambolo, che ne fissa l’ispirazione di fondo, sta scritto che Stato e Chiesa si impegnano a cooperare per la promozione della persona e il bene del paese. In questo caso, il bene della scuola, della cultura, dell’integrazione socio-culturale». dwf

lunedì 9 novembre 2009

Dialogo sul Crocifisso

Riprendo dal blog di Sandro Magister http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2009/11/04/effetto-valanga-col-croficisso-via-anche-le-chiese-bach-leonardo-da-vinci/ questo "simpatico" dialogo sulla sentenza anti-crocifisso della corte europea dei diritti dell’uomo che ha seminato scompiglio nelle scuole italiane.
Ecco qui di seguito come se ne è discusso in un consiglio d’istituto di un non precisato liceo romano. I personaggi:
P: preside,
PA: professore di storia dell’arte,
PM: professore di musica,
PF: professore di filosofia.
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P: Oggi è venuta a trovarmi la madre di un allievo, un po’ agitata. Mi ha detto che si rifiuta di mandare il figlio a visitare la piazza e la basilica di San Pietro la prossima settimana. Ha sentito della sentenza della corte europea dei diritti dell’uomo sul crocifisso e sostiene che questa visita sarebbe un condizionamento religioso emotivamente troppo forte per un quindicenne.

PA: Me se devo dare il compito in classe sul Bernini!

P: Io però non voglio prendermi esposti, denunce, eccetera. Ho già troppe gatte da pelare!

PA: Ho capito, ma allora dove li porto i ragazzi? Al Pantheon?

P: Magari. E insisti sul fatto che è una prodigiosa dimostrazione del genio architettonico dei romani.

PA: È vero, ma devo pure far cogliere i motivi di continuità con i successivi sviluppi cristiani, dovrò pure dire che nel VII secolo il Pantheon è stato trasformato in una chiesa, Santa Maria ad Martyres.

P: Ci risiamo! Voglio una visita neutrale, non religiosa!

PA: Ma che significa? Qui tutto ricorda il cristianesimo! Allora stiamocene chiusi in aula e lasciamo perdere! E poi i ragazzi avranno pure diritto a essere istruiti, a sapere.

P: Ma il diritto di chi non vuole subire la non richiesta ostensione di simboli religiosi prevale.

PA: Ah sì? E perché non se ne sta a casa lui, allora?

P: Collega, ma cosa dici? Un diritto è un diritto!

PM (interrompe con ansia): Scusami, preside, ma io domani farò ascoltare Bach: la Messa in si minore.

P: Mamma mia, per carità!

PM: Come “per carità”? È un capolavoro sommo!

P: Ma è una Messa!

PM: E che significa? L’sutore non era neppure cattolico!

P: Era protestante. Sempre cristiano era. Scegli qualcosa di più tranquillo, vai sul Novecento, a Stravinskij.

PM: Bene. Farò ascoltare “Sinfonia di Salmi”.

P: Ma sei un fissato! Metti la “Sagra della primavera”, quella sì, è sufficientemente pagana, non disturba nessuno, ci si può fare pure una lezione di antropologia culturale. E comunque, se proprio devi fare un po’ di Bach, non insistere troppo sul cristianesimo.

PM: Ma se scriveva “Soli Deo Gloria” in calce alle sue composizioni!

P: Ma mica siamo al Conservatorio, che importa agli allievi di questi dettagli?

PM: Pensa che volevamo fare col collega di filosofia un’ora interdisciplinare sull’estetica nel pensiero religioso del Novecento, sull’influsso di Bach e Mozart su von Balthasar e…

P (irato): Ma siamo matti! La teologia si fa nell’ora di religione per chi la chiede, e basta! Mi vuoi rovinare?

PF: Preside, ma cosa dici! Posso parlar bene di Agostino, o no?

P: Ma sì, digli che ad Agostino tutto il pensiero moderno deve molto, anche l’ermeneutica, la fenomenologia…

PF: Però non posso dire che era cristiano?

P: Accennalo appena.

PF: Ma che accenno e accenno! Secondo te le “Confessioni” sarebbero state scritte se l’autore non si fosse convertito al cristianesimo? E poi scusa, quando parlo del concetto di persona in filosofia, come evito un accenno al dogma della Trinità e ai primi concili ecumenici? Non esisterebbe il concetto di persona senza…

P: No e poi no! Questo è catechismo! Prudenza ci vuole…

PF: Ma se persino Benedetto Croce….

P: Basta! Colleghi, dobbiamo capire che viviamo in una società multiculturale, dobbiamo rispettare le diversità, non possiamo pretendere…

PA: Ma abbiamo pure il dovere di istruire, di far conoscere. Se gli allievi guardano il Cenacolo di Leonardo, mica gli possiamo dire che era una cena qualunque tra amici!

P: Ma che esempi mi fai? Qualcosa va detto loro, ma con prudenza, con neutralità…

PA: Ma a me il Cenacolo piace tanto, mi appassiona…

P: Troppa passione nell’insegnamento non va bene. Ci vuole anche un po’ di neutralità emotiva.

PF: E allora mettiamoci un automa, sulla cattedra, e cambiamo mestiere! Ma poi, senti, non sarebbe molto più interessante far capire la grandezza filosofica di san Tommaso collegandolo al pensiero musulmano, ad Avicenna… Non cancelliamo né l’uno né l’altro, li studiamo entrambi.

P: Ma ci sono anche gli atei, gli agnostici…

PF: Ma anche loro dove vivono? Se vivono in mezzo a noi, è giusto che conoscano, che vedano le mille chiese nelle strade di Roma, che rappresentano la città, o dobbiamo demolire pure quelle? Quelle non sono per nulla neutrali!

P: Colleghi, sono sfinito. Aggiorniamoci a domani. Magari la notte ci porterà consiglio…

(Dialogo messo per iscritto da Francesco Arzillo, Roma, 4 novembre 2009).

venerdì 6 novembre 2009

Pellegrinaggio in Terrasanta - Dal 3 al 10 marzo 2010

“Terra santa, terra di tutti, terra nostra!”, è l’espressione del Patriarca emerito di Gerusalemme mons. Michel Sabbah, utile per presentare la proposta dell’annuale pellegrinaggio in Terrasanta.
Noi abbiamo scelto di cambiare il modo di organizzare i pellegrinaggi in Terrasanta. In molti casi sono solo “turismo religioso”, legato agli aspetti storico-archeologici o ad una proposta “spirituale” disincarnata e sostanzialmente indifferente alle persone che in quella terra vivono, lavorano, soffrono, combattono, amano, odiano: la “lectio biblica” che si propone potrebbe essere proposta tale e quale anche in una delle nostre parrocchie! Ci sono pellegrinaggi che non vedono l’occupazione militare della Terrasanta, non si accorgono del “Muro”, non “sentono” la paura quotidiana degli israeliani e l’umiliazione dei palestinesi, lo stridente contrasto tra ricchezza e povertà; il rischio di taluni pellegrinaggi è quello di vivere in una condizione al di fuori del tempo e del luogo; non c’è nessun incontro con le altre due grandi esperienze religiose (l’ebraica e l’islamica) perché molti camminano per la Terrasanta pensando che noi (cristiani, cattolici) siamo i “buoni” e gli altri sono i “cattivi”. Il pellegrinaggio è anche incontro con la Chiesa Madre di Gerusalemme e vicinanza e sostegno ai cristiani di Terrasanta, che però hanno “la sventura” di essere cristiani arabi, palestinesi e perciò segnati dal “sospetto” con cui guardiamo gli arabi e i palestinesi, vittime come siamo della scandalosa e menzognera informazione massme¬diale. “Dovete aiutarci anche voi ad essere cristiani secondo il vangelo! Questo sia il vostro impegno e non solo continuare a sostenere progetti particolari. Aiutateci nella crescita della fede. Noi da parte nostra non possiamo aspettare domani per cercare di amarci tra cristiani e quindi non dobbiamo aspettare che finisca il conflitto...” ci diceva mons. Sabbah.
Perciò ripropongo anche quest’anno il pellegrinaggio in Terrasanta, con le caratteristiche che è venuto assumendo in questi anni:
- pellegrinaggio di credenti e non credenti, entrambi comunque in ricerca... La condivisione di domande e la partecipazione anche a momenti “religiosi”, aiuta gli uni e gli altri a conoscersi e ad andare a fondo nell’interrogazione di sé e della propria realtà più profonda: la Bibbia è la nostra guida;
- pellegrinaggio di solidarietà con tutti coloro che soffrono (e per la situazione della Terrasanta è tutto il mondo che soffre e vive in un perenne e pericoloso conflitto), per proporre a tutti la strada della pace nella giustizia;
- pellegrinaggio incarnato nella storia di oggi, per certi versi molto simile a quella della Palestina di Gesù e della Chiesa delle origini.
Andremo prima in Galilea, là dove sono state gettate le basi dell’avventura cristiana nella storia, un frammento di terra dove tutto ha avuto inizio! E poi nel cuore della Terrasanta: Betlemme e Gerusalemme. Proponiamo alcune esperienze inusuali, ma importanti per capire: la residenza a Betlemme per condividere l’esperienza e i disagi dell’occupazione militare; l’incontro di amicizia con Gerico che nel 2010 celebra i suoi 10.000 anni di storia, con la speranza di uscire dal suo opprimente isolamento; la solidarietà con le amiche del centro Melkita di Ramallah e la realtà “atipica” di questa città, “capitale” della Palestina inesistente; la visita a Taibeh, unico villaggio totalmente cristiano della Palestina e l’incontro con la sua Comunità; e infine l’esperienza di Gerusalemme, la Città tre volte santa, il cuore pulsante (e malato) del monoteismo, che da “valore” quale dovrebbe essere, appare oggi come “problema” che sembra rendere instabile il mondo e talvolta dimenticare i suoi principi originari e fondamentali che affermano il valore universale di ogni essere umano. Chiunque condivide questi principi è allora benvenuto e sarà un gradito compagno di viaggio. Sono certo che per tutti, come sempre sarà un’esperienza indimenticabile. don Walter
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PELLEGRINAGGIO DI PACE E GIUSTIZIA IN TERRASANTA
dal 3 al 10 marzo 2010

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I – 3 marzo – mercoledì - Alessandria / Tel Aviv / Nazareth
Partenza in pullman riservato per l’aeroporto di Bergamo. Volo speciale per Tel Aviv. Arrivo a Tel Aviv. Partenza per Nazareth, sistemazione in hotel, cena e pernottamento.
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II – 4 marzo – giovedì - Nazareth / Lago Tiberiade / Tabor
Visita della Basilica dell’Annunciazione e di Nazareth. Pranzo.
Nel primo pomeriggio trasferimento al Tabor, monte della trasfigurazione di Gesù. Messa. Durante il rientro a Nazareth sosta a Cana, cena e pernottamento.
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III – 5 marzo – venerdì - Zippori / Haifa / Akko
Trasferimento al Lago di Tiberiade: visita di Tabga, della chiesa del Primato di Pietro, di Cafarnao “città di Gesù”. Monte delle beatitudini. Messa e pranzo alle Beatitudini. Partenza per Akko (S. Giovanni d’Acri). Lungo il percorso visita di Zippori (Sephoris) ritenuto il villaggio natale di Anna, madre della Vergine. Qui i crociati hanno edificato una chiesa a suo nome, sul sito di una bizantina risalente al III sec. Proseguimento per Akko. Visita della città con la sua imponente cinta muraria. Tutta la cittadella entro le mura rappresenta il più bell’esempio dell’architettura crociata in Israele. Se possibile visita della chiesa di S. Andrea e della Moschea di El-Jazzar. Rientro a Nazareth. Cena e pernottamento.
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IV – 6 marzo – sabato / Nazaret / Betlemme
Partenza per Gerusalemme e Betlemme lungo la Valle del Giordano. Se possibile sosta al Giordano nei pressi di Gerico e memoria del Battesimo. A Betlemme sistemazione in hotel e pranzo. Visita della Basilica della Natività e Messa. Cena e pernottamento.
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V – 7 marzo – domenica - Gerusalemme
Mattinata dedicata alla visita di Gerusalemme. Monte degli Ulivi, Dominus flevit, Getsemani e Tomba della Vergine. Pranzo. Visita allo Yad Vashem (Museo della Shoah) e al Museo del Libro. Rientro a Betlemme. Cena. S. Messa al Getsemani. Rientro a Betlemme e pernottamento.
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VI - 8 marzo – lunedì - Ramallah / Gerico
Partenza per Ramallah. Visita al Centro di Ricamo. Poi alla parrocchia di Taibeh dove incontreremo don Raed Abusahlia, il parroco della comunità. Il villaggio è uno dei pochi se non l'unico che si è mantenuto completamente cristiano in Palestina, tanto da definirsi l'ultima città discendente dall'epoca dei primi cristiani. A Taibeh sul piano storico due visite: le rovine di una vecchia chiesa e la casa delle parabole, una casettina rimasta intatta come tante altre nel circondario costruita secondo i dettami di centinaia di anni fa. Grazie a questa casa possiamo immaginarci in che condizioni vivevano le persone all'epoca di Cristo e nei secoli seguenti. Pranzo (se possibile a Taibeh). Nel pomeriggio trasferimento a Gerico. Messa nella parrocchia cristiana del “Buon Pastore”. Saluto al Sindaco della Città gemellata con Alessandria. Cena. Rientro a Betlemme per il pernottamento.
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VII – 9 marzo – martedì - Gerusalemme
A Gerusalemme Visita della Spianata delle Moschee e Muro Occidentale (“Muro del Pianto”), poi visita al “Monte Sion Cristiano”: Cenacolo, Dormizione e S. Pietro in Gallicantu. Pranzo. Nel pomeriggio Chiesa di S. Anna, Flagellazione, Via Dolorosa. Santo Sepolcro. Messa. Cena e pernottamento a Betlemme.
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VIII - 10 marzo – mercoledì - Gerusalemme / Tel Aviv / Alessandria
Al mattino visite. Partenza per l’aeroporto di Tel Aviv. Imbarco con volo speciale. Arrivo a Bergamo. Rientro ad Alessandria.
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QUOTA DI PARTECIPAZIONE
In camera doppia € 1.270,00
Supplemento camera singola € 250,00

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ISCRIZIONI: telefonare al più presto a don Walter (335 58 18 204) per la pre-iscrizione. Per la conferma (entro la metà di dicembre) è richiesta una caparra di € 400 (Fino al 31 gennaio i posti cancellati saranno soggetti a penale di Euro 150; dal 1° febbraio al 19 febbraio, i posti cancellati saranno soggetti a penalità di Euro 300,00; dal 20 febbraio al giorno della partenza, penalità totale per ogni cancellazione).

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LA QUOTA DI PARTECIPAZIONE COMPRENDE: Trasferimento in pullman per/da l’aeroporto di Bergamo; passaggi aerei con voli speciali da Bergamo; tasse aeroportuali e di dogana in Israele e percentuali di servizio; kg. 20 bagaglio in franchigia; assistenza aeroportuale in Italia e all’estero; sistemazione in alberghi di buona categoria in camere doppie con servizi; trattamento di pensione completa, dalla cena del primo giorno al pranzo dell'ultimo; escursioni, tours, entrate, come da programma; mance, facchinaggi ed extra in genere; Bus Gt con autista; Guida autorizzata parlante italiano per tutta la durata del tour; Assicurazione medico - bagaglio Mondial Assistance; omaggio ad ogni partecipante.
LA QUOTA DI PARTECIPAZIONE NON COMPRENDE: Assicurazione integrativa facoltativa annullamento MONDIAL ASSISTANCE: 3,50% del costo del pacchetto (contratto 2008); tutto quanto non espressamente menzionato nel programma.
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Documenti
Per i cittadini italiani e' richiesto il passaporto regolarmente bollato ed in corso di validità di almeno 6 mesi dalla data di inizio del viaggio.
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Modifiche al programma potranno essere necessarie per condizioni ed esigenze che si presentino in Terrasanta e comunicate successivamente o in loco. I luoghi delle celebrazioni sono solo indicativi.
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mercoledì 4 novembre 2009

Il crocifisso è dei Crocifissi

Ripropongo come contributo al dibattito e alla riflessione - oltre le sterili polemiche - un mio vecchio articolo del 2002 che, mi pare, mantenga tutta la sua attualità dopo la sentenza della Corte Europea.

Un senso di “fastidio”: è il sentimento dominante, che continua ad accompagnarmi, ogni volta che sento o che leggo posizioni pro o contro nell’autunnale grande dibattito… quello sul crocifisso, intendo. Ma è forse lo stesso senso di fastidio che provo ogni volta che si parla dei “valori cattolici” e li si vuole imporre per legge; perché “democrazia”, “pluralismo culturale e sociale”, “libertà di pensiero e di espressione”, non le sento come parole vuote o retoriche.
Tutto è nato da una presa di posizione del Ministro alla pubblica Istruzione Letizia Moratti, che ha auspicato che il crocifisso torni al suo posto, poiché nessuna legge aveva stabilito che fosse tolto. Cosa ha detto il ministro? “Il crocifisso tornerà presto a occupare il suo posto nelle aule delle scuole italiane, perché rappresenta il simbolo della civiltà cristiana, della sua radice storica e universale” e ha ricordato il parere del Consiglio di Stato: “Il Crocifisso o, più comunemente, la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendentemente da specifica confessione religiosa”.
Qualcuno è subito intervenuto a favore di questa presa di posizione, argomentando che “c'è da chiedersi perché molti temono che il crocifisso torni al suo posto. Non si tratta di accendere la miccia di una guerra di religione, né di affermare una supremazia della cultura cattolica sulle altre. Si tratta di affermare che questa cultura c'è, che non si può pensare al futuro, ad un'integrazione di culture diverse, senza conoscere la propria storia e soprattutto senza amarla. Non si sa chi abbia impartito l'ordine, sta di fatto che in molte scuole il crocifisso è sparito dalla parete sulla quale era appeso, in alcuni casi è sparita anche la foto del Capo dello Stato.
I due simboli se ne stavano buoni ad assistere alle lezioni, appesi con un chiodo sopra alla lavagna, non avevano mai turbato la crescita degli alunni, né offeso i ragazzi di altre religioni.
Non si trattava di simboli di una supremazia, rappresentavano la storia a cui apparteniamo”. Non mi sento di condividere buona parte di queste affermazioni, soprattutto quell’accostamento tra il Cristo in croce e il Presidente Ciampi; avverto una certa disparità nella simbologia e un forte richiamo ad accostamenti superati dalla storia, oltre che dalla teologia del Vaticano II e, in particolare, dalla sua Dichiarazione sulla libertà religiosa.
Mi sembra invece condivisibile la forte presa di posizione dei Missionari Saveriani che in un loro documento scrivono: “Non possiamo esimerci dal manifestare la nostra contrarietà ad una proposta che intende ridurre il simbolo religioso cristiano per eccellenza ad un mero “simbolo della civiltà e della cultura” dell’Italia e dell’Europa. La croce, lo ricorda San Paolo, è “scandalo per i Giudei e stoltezza per i gentili” (1 Cor 1,23), ma è simbolo di salvezza per tutti i credenti che la venerano nei luoghi di culto riconoscendo in essa la manifestazione dell’amore divino. Volerla presentare nei termini di “simbolo culturale” del continente europeo, significa riesumare la logica di quell’antica e tragica commistione tra potere e croce che ha segnato il periodo del colonialismo europeo ai danni degli altri popoli” - e molto ci sarebbe da dire sul nuovo colonialismo in atto -. “Non si vuole con questo sostenere che il rispetto dell’altro, della sua diversa cultura e religione, implichi il disconoscimento o la sospensione della propria. Si intende invece ricordare che la proposizione della propria identità religiosa e culturale non deve mai essere raggiunta a scapito di una miglior convivenza tra culture e fedi diverse e che anzi ciascuna identità va promossa nel pieno rispetto di tutte per il bene comune. Riteniamo perciò urgente intensificare l’impegno per un’educazione interculturale”.
Mi pare che quella del crocifisso sia una di quelle questioni inventate di proposito per far male e provocare lacerazioni profonde in seno alle chiese cristiane e nella società italiana. Lo scopo è quello di strumentalizzare sentimenti e simboli che sono molto lontani da ciò che i partiti sostenitori della campagna sul crocifisso praticano quotidianamente nelle loro azioni di governo. Che dire del fatto che sia la Lega a chiedere di segnalare (denunciare?) i nomi di tutti coloro che dovrebbero provvedere ad esporre il crocifisso (presidi, sindaci, personale sanitario, giudici…)? Proprio chi è propugnatore di leggi in radice anticristiane, come la legge sull’immi¬gra¬zione (sì, la Bossi-Fini); proprio coloro che, rappresentando il potere pubblico, anziché cercare il bene comune e in speciale modo quello dei deboli e degli ultimi preferiscono tutelare e proteggere gli interessi dei forti e potenti. Qualcuno - non ricordo chi - ha scritto recentemente: “Il crocifisso appartiene ai nuovi crocifissi, É loro, perché lui ha scelto di stare con loro. É nascosto tra le donne di Kabul; o tra i bambini schiavi del sesso in tante parti dove si celebra il turismo sessuale per gli annoiati dei paesi opulenti; o nei campi profughi abitati da chi ha dovuto abbandonare tutto per cercare di salvarsi almeno la vita. É in Armenia, in Kurdistan, in Iraq a subire l'embargo. É sulle carrette piene di disperati che solcano il mediterraneo per cercare in Europa un po' di speranza. É morto, in fondo al mare, con quelli che il mare si è portato via nella loro ricerca di un luogo dove poter vivere dignitosamente”. Mettiamo pure dovunque il Crocifisso, a condizione che chi lo espone voglia, con quel gesto, accettare di incontrarlo e di onorarlo nella persona dei tanti che ogni giorno sono costretti a salire sullo stesso Golgota.
Non sentirò più il fastidio di questi dibattiti, quando vedrò anche molti dei nostri bravi cattolici praticanti non più assenti, non più indifferenti, quando non addirittura d'accordo con frasi, con scelte, con leggi, con comportamenti che riducono il crocifisso a un oggetto. Quando la preoccupazione dominante è quella della tutela del proprio benessere, ponendo le cose prima delle persone, rubiamo il Crocifisso ai crocifissi, rischiamo di trasformare in idolo anche quello che si trova in chiesa. Come richiama il Vescovo nell’ultima lettera pastorale, “quello che siamo grida più forte di quello che diciamo”: diamo onore al Crocifisso con scelte che davvero dimostrino che abbiamo imparato la sua Lezione, non con l’appello a leggi e circolari. dwf