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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

giovedì 20 novembre 2008

Carote e manganelli

Sta già cadendo il silenzio sul processo di Genova a seguito del G8 del 2001.
Per non essere conniventi ripropongo un articolo scritto allora, "a caldo", che aveva fatto venire a più d'uno il mal di pancia. Mi sentirei di riscrivere le stesse cose, con in più quelle poche verità che si sono aggiunte (in attesa di ulteriori verità che forse mai arriveranno...).


“Globalizzazione” è la parola che abbiamo sentito fino alla noia in queste settimane. Il sera-fico ministro Ruggiero ci ha detto in tanti modi che è una cosa bella; altri l’hanno presentata come il demonio del 21° secolo; qualcuno ha cercato di aiutarci a capire che il problema non è tanto “globalizzazione sì, globalizzazione no”, ma che ciò che è in gioco è la capacità della politica di vincere le sfide che questo fenomeno produce. Ma al termine dei giorni di Genova solo un pensiero di sintesi mi viene in mente: di “globale” c’è stato solo il fallimento di tutti o per lo meno dei protagonisti principali, il potere politico (compresi coloro che erano preposti al mantenimento dell’ordine pubblico) e gli organizzatori del Genoa Social Forum. Non hanno fallito i “Black bloc”, le tute nere, quelli che cercavano la violenza per la violen-za: a questi interessa solo dare spettacolo di violenza con qualsiasi pretesto, purché sotto gli occhi della stampa e della TV e se non c’è il G8 c’è la partita della domenica o il corteo nel quale tentare di infiltrarsi e di provocare.
Vorrei dire che una volta tanto non ha fallito il mondo della comunicazione: i giornalisti e i cameraman erano dovunque, hanno ripreso tutto, hanno mostrato tutto ma… forse qui rico-mincia l’inganno, nella selezione, nel montaggio di cosa mostrare e di cosa nascondere; sono davvero liberi gli operatori dei media o non diventano preda delle contrapposte ideologie nel momento in cui raggiungono le loro redazioni?
Non mi sento per nulla di dire che hanno fallito le decine di migliaia di manifestanti pacifici e inermi che a Genova sono andati spinti da interrogativi e motivazioni e ansie serie; quelli che erano là perché volevano essere voce dei poveri del mondo; i tanti che sono andati lo scorso anno a Tor Vergata – i Papa Boys and Girls – e che sabato erano a Genova anche per aver preso sul serio gli appelli del Papa a difendere i valori della solidarietà, del diritto alla vita, del rispetto dell’ambiente e a farsi carico dei poveri della terra. Né si poteva pretendere che il loro volontario servizio d’ordine avesse la capacità di isolare i violenti, addestrati ad una vera e propria guerriglia urbana, a distruggere, ad azzuffarsi, a picchiare…
Ma: che significa G8? Gli Otto Grandi? Il Gruppo degli Otto Paesi più ricchi della Terra? O degli Otto Paesi più potenti? Saranno pure democraticamente eletti, ma sono stati certamen-te supremamente presuntuosi, arroganti, gelidi nei loro sorrisi di circostanza e nelle loro do-lenti partecipazioni, sempre più insopportabili nel teatro periodicamente allestito, dove fin-gono di potere, pur sapendo che il potere vero è delle lobbies che li hanno eletti, è della fi-nanza mondiale, è della Banca Mondiale che, sanno benissimo, non permetterà mai una to-tale o almeno significativa “remissione del debito” dei Paesi poveri: al massimo permette l’elemosina di un miliardo e duecento milioni di dollari per il fondo anti-AIDS! Al massimo permette che, per salvare la faccia, si invitino una sera ad un banchetto un gruppo di ben se-lezionati e presentabili “poveri”! E dunque hanno fallito i G8 nella loro vuota rappresenta-zione di cose già decise o non decise o che non possono in realtà decidere. Forse più utile sarebbe stato un intenso dibattito tra di loro e con il resto del mondo su come rendere possi-bile una “democratica partecipazione al governo dell’economia”.
Ci hanno così servito le carote, mentre altrove la parola era ai manganelli.
Ha fallito chi ha voluto difendere solo e ad ogni costo la “Città Proibita” dove stavano i nuovi presunti imperatori; ha fallito un Primo Ministro che si preoccupa più delle fioriere, dei getti d’acqua delle fontane e dei panni stesi ad asciugare che dei contenuti della riunione (era già pregiudizialmente schierato con Bush prima ancora di cominciare l’incontro), che di come salvaguardare l’incolumità delle persone e delle cose, che in un penoso intervento a fianco di Ciampi (errore del Presidente che doveva presentarsi da solo alla TV per dire le ot-time e partecipate cose che ha detto, non con il Presidente del Consiglio a fianco, quasi per offrirgli copertura politica), è riuscito a dire che la povertà, la fame, la malattia, l’AIDS, il debito, l’inquinamento sono degli “inconvenienti” della globalizzazione!
Ha fallito il Ministro dell’Interno e le forze dell’Ordine che hanno lasciato campo libero alle distruzioni vandaliche, agli ingressi in Italia e all’arrivo a Genova di personaggi che sono certamente ben noti ormai alle polizie degli Otto Paesi, così sensibili alla tranquillità dei loro leaders; che non ha minimamente cercato di proteggere con un cordone sanitario i cortei pacifici per impedire l’infiltrazione dei violenti, ma che anzi ha fatto caricare pacifici e vio-lenti; e che alla fine ha lasciato campo libero a una gratuita e indiscriminata violenza contro, forse – ma temo che non sapremo mai la verità sull’incursione nella scuola – lupi e agnelli mescolati insieme, ma vittime entrambi di una ingiustificata rivalsa. Per un ritardo nelle o-perazioni di voto si è, giustamente, attaccato con violenza un Ministro dell’Interno, Bianco, che del resto avrebbe fatto bene a dimettersi, e si vorrebbe l’apprezzamento di un Ministro che con i suoi macroscopici errori è stato causa, per quanto indiretta, di un morto, di centi-naia di feriti e di distruzioni gratuite? Certo non ritengo di dover unire in questa deprecazio-ne quei ragazzi di vent’anni impiegati dalle forze dell’ordine e buttati con una totale impre-parazione in situazioni per loro incontrollabili e ingestibili anche solo emotivamente.
Ha fallito, ritengo, anche Agnoletto e chi con lui ha organizzato il Genoa Social Forum: è stata certamente irresponsabile la scelta di muovere in corteo sabato dopo il “venerdì nero”; intelligenza avrebbe voluto una grande assemblea in un luogo chiuso, uno stadio, una piazza isolata dove raccogliere tutti in ascolto, in dibattito, in protesta e, magari, in silenzio per chi ha perso la vita il giorno prima e a testimonianza dei milioni che ogni giorno perdono la vita per fame, per malattia, per l’aria irrespirabile, per la nostra colpevole indifferenza, capace al massimo di un po’ di emozioni guardando le immagini della TV.

Abbattere gli steccati

Un'intervista con Andrea Chiabrando di corriereal.it... Un po' esagerato! Ma ha reso bene il mio pensiero. Ne approfitto per esprimere il mio plauso a questo giornale on line, per la sua correttezza e libertà. Pregevoli sempre gli interventi di Ettore Grassano, il Direttore, quasi sempre condivisi.

martedì 18 novembre 2008

Un "pacchetto sicurezza" che non è degno di uno Stato di diritto

Beppe del Colle nell'editoriale del nuovo numero di Famiglia Cristiana. Grazie!

Dai lavori di questa settimana in Senato potrebbe uscire uno statuto legislativo piuttosto pesante nei confronti non solo degli immigrati – quattro milioni circa di persone, "regolari" o "irregolari"–, ma anche di cittadini italiani che risultano in concreto "diversi" rispetto a una normalità di vita comunemente accettata: i "senza fissa dimora".
I provvedimenti che fanno parte del "pacchetto sicurezza" preparato dal ministro dell’Interno sono noti: l’istituzione di "ronde" convenzionate con gli enti locali e formate da «associazioni tra cittadini al fine di segnalare alle forze di polizia dello Stato eventi che possono arrecare danno alla sicurezza urbana»; il permesso di soggiorno "a punti", come per le patenti di guida: una volta persi tutti i "punti", l’immigrato si vedrebbe revocato il permesso e verrebbe espulso; è mantenuto il reato di ingresso clandestino, ma la pena non sarà più di tipo giudiziario (condanna al carcere), bensì una multa fra 5 mila e 10 mila euro; maggiori difficoltà per ricevere assistenza sanitaria e per i ricongiungimenti familiari; la proposta della Lega di interrompere i flussi di immigrazione per due anni, data l’attuale congiuntura in cui aumentano i disoccupati; schedatura di tutti i "senza fissa dimora", anche italiani.

In queste misure colpiscono due caratteristiche comuni: l’inutilità ai fini a cui sono rivolte e l’estrema difficoltà a metterle in pratica da parte di uno Stato la cui giustizia e la cui burocrazia già faticano a tenere il passo delle normali incombenze. In più, esse scontano le conseguenze di un’esagerata descrizione della realtà, come ha dimostrato il caso suscitato dalla decisione, presa nel giugno scorso da Maroni, sul rilevamento delle impronte digitali ai bambini rom, contro la quale Famiglia Cristiana fu fra i primi a insorgere e che meritò le giuste critiche in sede europea.
I nomadi di origine rom e sinti erano molti meno di quelli denunciati, e la loro schedatura – soprattutto dei bambini – è stata effettuata con metodi diversi e più tradizionali, d’intesa con la Croce rossa; anche se questa pratica più civile e più umana, decisa d’accordo con il sindaco Alemanno, è costata la destituzione al prefetto di Roma, Carlo Mosca. Per quanto riguarda la schedatura dei "senza fissa dimora", osserviamo innanzitutto che molti di loro ce l’hanno, anche se non è scritta in nessun registro pubblico: sono le panchine dei giardini in cui passano le notti, rischiando di essere bruciati vivi dai soliti ignoti, come è capitato a uno di loro a Rimini.
Se poi si tratta di schedarli, in realtà qualcuno lo ha già fatto, ma con spirito diverso da quello del "pacchetto sicurezza". È morta qualche mese fa Lia Varesio, che nel 1980 fondò a Torino la Bartolomeo & C, un’associazione di volontari che tutte le notti uscivano nelle strade alla ricerca di "barboni" che dormivano sulle panchine o sotto i portici delle stazioni coperti di stracci, e portavano loro qualcosa da mangiare e da coprirsi, e li aiutavano a trovare un rifugio.
In una sua "memoria" di qualche anno fa, Lia ricordava di aver attuato per loro, in accordo con il Comune, "la reiscrizione anagrafica", in modo tale che potessero riacquistare un’identità, visto che molti di loro erano stati davvero "cancellati".
L’opera da lei avviata continua, in una cultura opposta a quella della paura, del rifiuto del "diverso" e del ricorso all’autodifesa, in cui le "ronde" rischiano di essere il simbolo d’un comportamento che uno Stato di diritto non può e non deve permettersi.

domenica 16 novembre 2008

Il linguaggio totalitario nell'Italia berlusconiana

Oggi c'è un eccesso di articoli interessanti, da meditare! Riprendo anche il seguente da http://yeswearedifferentit.blogspot.com perchè non vorrei che sfuggisse!

Il potere berlusconiano è un meccanismo che, principalmente, si snoda attraverso il concetto di normalità.
Sarebbe infatti, a mio avviso, più corretto parlare non di linguaggio ma di un certo tipo di intervento sul linguaggio e ripercorrere, quindi, la storia del linguaggio berlusconiano ovvero, in un certo senso, una fattispecie di nuova cronologia, anzichè cristologica, appunto berlusconiana.
Lo sviluppo di una nuova forma di linguaggio attraverso una rete di saperi, quelli informativi, ad esempio. L'informazione è di per sè vincolante ad una forma di verità, è, per certi versi, una religione tecnica.
Grazie all'amico Craxi, l'attuale presidente del consiglio ha ottenuto incentivi e, di fatto, l'appoggio politico e di potere per la creazione di un impero addetto alla trasformazione del linguaggio e alla produzione di verità.
Quando si tocca il concetto di linguaggio è inevitabile scontrarsi con talune aporie.
Definire il linguaggio è arduo: Wittgenstein disse che noi siamo il linguaggio, e questo assunto leggibile a vari livelli ed interpretabile in vari modi, chiarisce il carattere ambivalente e, per così dire vischioso, del linguaggio. Il linguaggio produce il pensiero, il linguaggio gestisce il nostro pensiero: è il nostro pensiero. Il monopolio televisivo berlusconiano è il deus ex machina dell'attuale società italiana. Attraverso la televisione, si compie un radicale mutamento del linguaggio, un totalitarismo linguistico che ha una serie di effetti.
1 la parola mediatica è la fonte di sapere che gestisce e produce un certo tipo di verità.
2 Attraverso il controllo e la produzione delle parole si plasmano i pensieri suscettibili alla violenza del sapere (quello televisivo ad es.).
3 le parole mediatiche agiscono sulla memoria, evocando ed eclissando, in piena arbitrarietà, la memoria collettiva.
Ad esempio: La naturalezza con cui Berlusconi afferma una cosa per poi negarla un attimo dopo. Attraverso la gestione dell'informazione si produce una verità: Si eclissa la menzogna e si accentuano gli elogi palesi o velati al Padrone, deportando la memoria all'interno di una prigionia linguistica. "Abbronzato" si trasforma da insulto razzista a "carineria" per poi essere dimenticato.
Non vi è più l'anarchia che rende libero il linguaggio bensì la violenza del format.
Il linguaggio totalitario è il format berlusconiano dispensatore di verità. E' la vera arma di distruzione di massa o per dirla alla Guzzanti (Sabina) arma di distrazione di massa.
Berlusconi gestisce e produce l'intera realtà italiana, la realtà virtuale attraverso il controllo totale dell'informazione. Il possesso coercitivo dell'apparato linguistico porta al controllo sui pensieri e quindi sulle persone. Ed è questo lo snodo fondamentale.
Berlusconi controlla i pensieri, perchè controlla e gestisce il linguaggio. Format semplici, efficaci, rapidi, populisti, dicotomici, dogmatici che servono a svilire il pensiero, a sopprimere la conoscenza, a distruggere la memoria, la visione critica.
Fannulloni, immigrati pericolosi, ottimismo, comunismo, maestro unico, baroni, tasse, bene e male sono questi i format che semplificano e ghettizzano il linguaggio e dunque il pensiero.
Costruzione e divulgazione di un nuovo vocabolario per il controllo sugli individui. Il vile attacco all'istruzione è solo la punta dell'iceberg; l'attacco è, in realtà, molto più profondo e riguarda la libertà degli individui, la capacità di pensare e di usare un linguaggio che permetta di comprendere l'effettivo pericolo rappresentato da Silvio Berlusconi.

Il coraggio della verità

Sempre da Repubblica... Anche qui vogliamo lasciare che si stenda un velo di silenzio? E di impunità, soprattutto per i mandanti (e i mandanti politici in specie)?

Il capo della polizia Antonio Manganelli non si volta dall'altra parte. Non chiude gli occhi. Non sceglie un comodo silenzio. Decide di guardare in faccia la realtà e la realtà è che i pestaggi della Diaz - come le torture di Bolzaneto - sono una frattura tra lo Stato e la società, tra le forze dell'ordine e una giovane generazione. Una macchia nella storia dell'istituzione che governa. È un'ombra incancellabile. Manganelli sembra saperlo, ma dichiara la sua disponibilità a collaborare "senza alcuna riserva" per ricostruire quella "pagina nera" nella convinzione che un'opera di verità possa, per lo meno, evitare che le violenze poliziesche si ripetano in un futuro.
Come è naturale, il capo della polizia non accetta che la sua istituzione possa essere soltanto sospettata di infedeltà costituzionale. Con orgoglio e consapevole dignità, ricorda il quotidiano sacrificio di migliaia di uomini in divisa che fanno il loro lavoro ("sottopagato") al servizio della sicurezza dei cittadini.
E tuttavia Manganelli ha il coraggio di dire quel che, nelle ore seguite alla pessima sentenza di Genova, nessuno nell'establishment ha accettato anche soltanto di ipotizzare: quel che "realmente accadde a Genova" deve essere ancora esplorato, ricostruito, raccontato. La verità di quei giorni di violenza non può essere rinchiusa in un'aula giudiziaria; spenta nella rete delle responsabilità personali e delle sanzioni penali che guidano un processo; soffocata dalle timidezze della magistratura o annullato dai difetti dei codici.
Manganelli rivela quel che, per quanto nella sua disponibilità, ha messo su per migliorare ("correggere") il lavoro di strada dei Reparti Mobile, della Celere, affidati a "persone pulite". In ogni caso, il capo della polizia si assume fin da ora "la responsabilità per gli errori che i suoi uomini possono commettere". Già è accaduto che, dopo "l'avventatezza" omicida di un agente della Stradale, Manganelli si sia assunto la responsabilità della morte di Gabriele Sandri, ucciso un anno fa da un colpo di pistola nell'area di servizio di Badia al Pino Est dell'A1. Uno stile assai diverso dal suo subordinato Vincenzo Canterini, comandante nel 2001 della Celere di Roma e del VII nucleo antisommossa (i picchiatori della Diaz): un ufficiale che, dopo avere gettato il sasso (un'arrogante lettera di velate minacce, di richiami all'omertà di gruppo, di propositi di vendetta), nasconde ora la mano.

Quel che più conta nella lettera di Manganelli sono un paio di righe: "... il Paese ha bisogno di spiegazioni su quel che accadde a Genova e l'istituzione, attraverso di me, si muove e muoverà senza alcuna riserva, non attraverso proclami stampa, ma nelle sedi istituzionali e costituzionali".
Ora toccherebbe alla politica, al parlamento inaugurare, se non ci sono, quei luoghi istituzionali dove rendere concreta la possibilità di ricostruire - al di là dell'accertamento penale (o nonostante i suoi mediocri esiti) - quel che è accaduto a Genova; come, con la responsabilità di chi, perché si sia aperto nei giorni del G8 un "vuoto di diritto" che ha inghiottito ogni garanzia costituzionale e consegnato la nuda vita delle persone a una violenza arbitraria e indiscriminata.
Dovrebbe essere la politica a battere ora un colpo, ma la scena che si scorge è avvilente. L'opposizione parlamentare appare afona e quando trova la voce, come con Antonio Di Pietro, è soltanto contraddittoria senza imbarazzi (l'Italia dei Valori bocciò la nascita della commissione parlamentare d'inchiesta che oggi pretende). La maggioranza mostra un volto prepotente fino all'insolenza. Maurizio Gasparri rifiuta ogni ipotesi di commissione d'inchiesta: "Non la voteremo mai. La maggioranza non ha alcuna intenzione di permettere una speculazione in Parlamento ai danni delle forze dell'ordine". Il presidente dei senatori della destra non si accontenta di sbattere la porta. Dimentico dei 93 arresti abusivi, delle prove artefatte, dei verbali truccati, degli 82 feriti, dei tre disgraziati in fin di vita, si dice convinto dell'innocenza di Canterini e del VII Nucleo antisommossa (per il tribunale di Genova sono i picchiatori della Diaz). Sarebbe davvero desolante, oltre che politicamente grave per la qualità della nostra democrazia, se la disponibilità del capo della polizia non venisse raccolta; se l'opportunità di ricostruire "i fatti di Genova" non trovasse alcun luogo istituzionale per essere acciuffata nell'interesse di una riconciliazione tra le forze dell'ordine e una generazione. Quale reticenza, quale viltà, quale convenienza potrebbe giustificarlo? GIUSEPPE D'AVANZO

L'assalto al futuro della nuova generazione

Bravo Scalfari - come sempre del resto! Ripropongo da http://www.repubblica.it

EPIFANI ha deciso di isolarsi. E' un massimalista. Si aggrappa al sindacalese del secolo scorso e non capisce che siamo in un'economia globalizzata. Ha scelto il movimentismo abbandonando il riformismo. Insegue la Fiom. Si crede il centro del mondo. E' uscito di testa ma speriamo che si ravveda. (Quest'ultimo giudizio è di Bonanni, l'uomo forte della Cisl). La sua politica favorisce Berlusconi. La Cgil non conta più niente. Il Pd prenderà le distanze. Lama si rivolterebbe nella tomba. Perfino Di Vittorio...
Venerdì sera l'ho chiamato al telefono, tanta unanimità contro di lui mi aveva incuriosito, del resto non è la prima volta per lui e non è la prima volta per chi guida il maggior sindacato italiano. Vi ricorderete Cofferati: per due anni fu la bestia nera dell'Italia benpensante. Anche lui si era isolato perché Cisl e Uil avevano firmato con Berlusconi il "patto Italia" che tuttavia restò lettera morta. Vi ricorderete Bruno Trentin, del quale tutti riconoscevano l'onestà intellettuale e tutti biasimavano la politica sindacale. E vi ricorderete Lama.
Luciano Lama è stato ricoperto di elogi (dall'Italia benpensante) quando lasciò la carica di segretario della Cgil e soprattutto quando morì. E non parliamo di Di Vittorio. "Post mortem" un generale rimpianto; da vivo invece l'avrebbero volentieri messo in galera per continua violazione dei diritti di proprietà, interruzione di pubblici servizi, resistenza alla forza pubblica.
Diffido molto della cosiddetta "Italia benpensante". Spesso pensa male, il più delle volte non pensa affatto, ripete gli "spot" dai quali viene ogni giorno bombardata e imbottita. Scopre le persone di qualità quando sono morte. Così fu per Ezio Vanoni, per Ugo La Malfa, per Aldo Moro e per Enrico Berlinguer. Da vivi preferisce i truffaldini che promettono miracoli e felicità.
Dunque Epifani. Lui non vuole isolarsi da nessuno e comunque non si sente affatto isolato. L'altro giorno fiancheggiava la manifestazione studentesca nelle strade di Roma, centomila ragazzi che chiedono una riforma vera e seria della scuola e dell'università e non i pannicelli caldi del grembiulino, del maestro unico e dei tagli.
Lo stesso giorno la Cgil insieme agli altri sindacati confederali, ha dato il disco verde alle assunzioni individuali che la Cai di Colaninno comincerà domani. Nei prossimi giorni chiederà al governo di convocare le parti sociali a Palazzo Chigi per discutere della recessione e delle urgenti misure che essa richiede. Poi bisognerà proseguire la discussione con la Confindustria sui contratti di lavoro e sulla loro eventuale riforma.
"Sembro uno che si vuole isolare? Quando il capo di un sindacato va a cena nell'abitazione privata del capo del governo è lui a rompere l'unità ed è lui che si isola".
Quella cena a Palazzo Grazioli l'ha fatto molto arrabbiare. "Non è la prima volta, ormai ci ho fatto l'abitudine, ma il fatto nuovo è stato la presenza di Emma Marcegaglia. Cisl, Uil e Confindustria a cena da Berlusconi per parlare di contratti con la voluta assenza della maggiore organizzazione sindacale. Qual è il senso? Che cosa significa?".
E quindi sciopero generale da soli il 12 dicembre. "No, quello era già previsto. Non sono così imbecille da indire lo sciopero generale per un mancato invito a cena. La motivazione è molto più seria, i lavoratori lo sanno e la loro adesione lo dimostrerà".

Uno sciopero generale è sempre politico per definizione. Se ci fosse un obiettivo specifico che interessa una specifica categoria professionale non si farebbe appello alla totalità dei lavoratori. Quando si proclama lo sciopero generale vuol dire che si vogliono affermare e conquistare diritti che riguardano tutti i lavoratori e addirittura tutti i cittadini. Riguardano l'interesse generale del paese, naturalmente visto dall'angolazione dei lavoratori. Per questo dico che si tratta d'uno sciopero politico per definizione.
Bisogna dunque capire quali sono i diritti da affermare e conquistare in questa fase dello scontro sociale che pure richiederebbe la collaborazione di tutte le forze per far fronte ad una tempesta economica che ha rari precedenti nella storia degli ultimi cent'anni.
Il diritto è quello che si legge nell'articolo uno della Costituzione: "La Repubblica italiana è fondata sul lavoro".
Sembrerà una frase rituale, mille volte invocata e mille volte elusa, che rappresenta tuttavia l'elemento portante della nostra architettura costituzionale. Tutti quelli che seguono sono diritti ai quali la Costituzione conferisce dignità e tutela giuridica, ma nessuno dei quali è definito come fondamento del patto nazionale. Il lavoro non è soltanto un diritto ma è anzitutto un valore. Così l'hanno voluto i nostri "padri costituenti": il lavoro degli operai e quello dei contadini, dei professionisti e degli imprenditori, dei docenti e dei discenti.
Ma perché proprio oggi uno sciopero per lavoro? E' vero, la disoccupazione sta aumentando, la recessione distrugge ogni giorno posti di lavoro, le imprese riducono il personale dipendente, molte chiudono, anche il lavoro autonomo è in crisi. Ma non sarà certo uno sciopero a far invertire la tendenza. Allora perché lo sciopero generale? Bisogna esaminare con molta attenzione questa questione per capire ciò che sta accadendo.
I redditi reali dei lavoratori negli ultimi due anni e in particolare negli ultimi sei mesi sono aumentati meno dell'inflazione ufficiale e molto meno dell'inflazione reale. Ciò significa che il potere d'acquisto dei redditi inferiori ai trentamila euro annui è fortemente diminuito.
Poiché i redditi nominali sono tuttavia aumentati, di altrettanto è aumentato il prelievo fiscale. Il lavoro dipendente non può evadere e i pensionati neppure, per conseguenza il potere d'acquisto è ulteriormente diminuito.
Il lavoro precario, che negli anni scorsi è stato incoraggiato in molti modi e presentato come lo sbocco più idoneo per fronteggiare i fenomeni dell'economia globale, sarà il primo ad esser colpito sia nelle aziende private che nelle amministrazioni pubbliche. Nei prossimi mesi, ma già fin d'ora, decine di migliaia di lavoratori precari saranno licenziati senza disporre di alcuna tutela sociale.
L'intera gamma degli ammortizzatori sociali è inconsistente. La cassa integrazione non è estesa a tutti, non esiste un salario sociale minimo, il sussidio di disoccupazione è insufficiente e di breve durata, i corsi di formazione sono tuttora nella fase preliminare, privi di sostegno finanziario adeguato.
Nel frattempo la trattativa sul nuovo schema di contratto del lavoro è stata scavalcata dalla crisi recessiva in corso. Quando il negoziato tra le parti sociali ebbe inizio la crisi non era ancora scoppiata e tutti credevano di vivere nel migliore dei mondi possibili. Di qui la lunga discussione tra le parti sociali sui contratti di primo e secondo livello, quello nazionale e quelli aziendali agganciati alla produttività.
La Cgil, tra i tre sindacati confederali, era la meno entusiasta dell'idea di spostare l'asse contrattuale dalla sede nazionale a quella locale; tuttavia accettò l'aggancio alla produttività di settore e di azienda che avrebbe dato maggiore flessibilità al mercato del lavoro.
Nelle condizioni in cui ora ci troviamo, tuttavia, questa discussione è completamente fuori dalla realtà. Con la caduta della domanda e degli investimenti, con la restrizione del credito che sta soffocando il sistema delle imprese e in particolare delle più piccole, con l'aumento della disoccupazione, gli incrementi di produttività sono una giaculatoria puramente verbale, un'icona culturalmente valida ma concretamente inesistente.
Le cose reali, le rivendicazioni da mettere in campo, riguardano il sostegno e i redditi, l'espansione del credito, un sistema di ammortizzatori sociali efficace. In sostanza il rilancio della domanda, dei consumi e della produzione.
Tremonti sa benissimo che di questo si tratta ma ancora ieri ha ribadito che questa politica non si può fare aumentando il deficit e il debito. Ha perfettamente ragione. Si fa infatti riprendendo vigorosamente la lotta all'evasione che è stata di fatto abbandonata, tassando le rendite e i redditi più elevati.
Questa è la ricetta che Barack Obama si appresta a mettere in pratica non appena sarà insediato alla Casa Bianca. Del resto non c'è altra via: coi tempi che corrono la redistribuzione fiscale è lo strumento principale per rilanciare la crescita senza aumentare un debito già enorme.
I miliardi della Cassa depositi e prestiti sui quali il ministro dell'Economia fa tanto affidamento possono essere utilizzati per finanziare le infrastrutture (promesse nel 2001 con il famoso "contratto con gli italiani" stipulato in televisione da Berlusconi e completamente inevaso per tutta la legislatura) ma non possono certo essere usati per sostenere il reddito.
* * *
Una politica così configurata, che è la sola possibile per uscire dalla tempesta della crisi, dovrebbe vedere unite tutte le organizzazioni sindacali e tutti i lavoratori. Accade viceversa che proprio in questo delicatissimo momento di svolta esse si dividano e la loro unità d'azione si spacchi clamorosamente. Questi fatti, oltreché incomprensibili, rendono assai difficile l'adozione della sola politica economica di crescita disponibile per un paese con un debito schiacciante.
L'opposizione reclama da tempo questa politica ma i rapporti di forza parlamentari sono quelli che sono. Diverso è il peso delle organizzazioni sindacali anche se non ha più la forza di un tempo. Il momento di gettarlo sul piatto della bilancia è questo. Il tentativo di convincere Berlusconi, Tremonti, Marcegaglia a tassare i ricchissimi patrimoni e le rendite per rilanciare il motore della crescita è pura illusione. Non è quella la loro strategia e non è quella l'alleanza sociale che li sostiene. Siamo dunque arrivati, dopo sei mesi di legislatura, al punto della svolta.
* * *
Gran parte degli osservatori, in Europa come in America, sostengono che il vento della crisi mondiale ha rimesso in sella il potere politico rispetto al mercato, i governi rispetto al "business", l'interventismo pubblico rispetto al liberismo.
C'è una buona parte di verità in questa diagnosi, ma non tutta la verità. Certamente il liberismo e il pensiero unico che ad esso si ispira sono in netta ritirata. Tuttavia è un fatto che per uscire dalla tempesta serve soprattutto un atto di fiducia. Senza un ritorno della fiducia l'economia mondiale precipiterà da una recessione temporanea in una lunga e devastante depressione.
Chi sono i destinatari della fiducia? I governi e le istituzioni nazionali e internazionali. E la fiducia da dove viene? Dalla società. Dagli individui, dalle famiglie, dai ceti, dai lavoratori-consumatori-contribuenti-risparmiatori che la compongono.
Queste enormi masse di persone sono prevalentemente animate da preoccupazioni economiche, però non soltanto da esse. Su un fondale di bisogni inappagati e di paure del futuro non dissipate si stagliano anche convinzioni profonde di carattere morale, di giustizia, di riconoscimento.
La politica è tornata in sella là dove la società si riconosce in essa. Bush era un'anatra zoppa già molto prima della campagna elettorale di Obama. Del resto Obama è sceso in guerra contro l'establishment del suo partito e McCain ha fatto altrettanto. Dopo le elezioni del 4 novembre la società americana ha determinato una nuova politica e nuove rappresentanze. La società ha espugnato il castello politico e vi ha issato una nuova bandiera.
In Italia il castello della politica berlusconiana era fino a un mese fa fortissimo. Ora è meno forte perché una parte della società si sente disconosciuta e ferita. Non più rappresentata. Questo è il fatto nuovo: una parte crescente della società è ferita per mancanza di futuro. I giovani studenti, i giovani precari, le donne, i lavoratori dipendenti, le imprese del Nordest, il Mezzogiorno non mafioso, le imprese schiacciate dal racket, i moderati che sognano il buon governo, i cattolici cristiani che non si riconoscono nella gerarchia papalina: queste minoranze si stanno cercando tra loro nel momento stesso in cui si distaccano dal castello politico berlusconiano.
Siamo appena ai primi segnali, ma sotto la spinta della crisi i mutamenti e gli smottamenti possono procedere con estrema rapidità. In una direzione o nell'altra. Ricementando il castello politico o smantellandolo.
Siamo ad una svolta di alto rischio dove la partita richiede lucidità e coraggio. Soprattutto coraggio. Bisogna dimenticare le proprie botteghe se si vuole l'assalto al futuro impedendo che ci venga confiscato.
(16 novembre 2008)

mercoledì 12 novembre 2008

Nè separati, nè invisibili

L'Istituto per la cooperazione allo sviluppo mi ha inviato la riflessione (è anche qualcosa di più) che ripropongo per l'attualità e l'interesse.

L’integrazione degli alunni stranieri: quale modello
La proposta di realizzare classi di inserimento per gli alunni stranieri, contenuta nella mozione presentata e approvata alla Camera in questi giorni, ha riproposto all’attenzione della scuola, degli insegnanti e della società il tema dell’integrazione dei bambini e dei ragazzi immigrati. Vi è dunque l’occasione per discutere sul tema, proponendo le soluzioni più efficaci anche a partire dalle esperienze condotte in questi anni dalle scuole.
Soprattutto negli ultimi dieci anni le istituzioni scolastiche e gli insegnanti hanno costruito e sperimentato, con fatica, competenza e spesso scarse risorse, modalità di inserimento e strumenti didattici mirati, che possono essere diffusi e messi a disposizione di tutti.
L’integrazione è stata costruita anno dopo anno, soprattutto dalla “periferia” (dalle scuole e dagli Enti locali), contando tuttavia su normative nazionali che, in linea con gli altri Paesi europei, proponevano una scuola integrativa, accogliente, interculturale.
Tra i documenti più importanti, citiamo:
-il D.P.R. 394/99;
-le “Linee guida per l’accoglienza degli alunni stranieri” (emanato dal ministro Moratti), marzo 2006;
-“La via italiana all’integrazione e alla scuola interculturale”, ottobre 2007.
Le carenze che si sono evidenziate nel tempo riguardano, tra le altre: la necessità di poter contare su risorse stabili e competenti; la formazione dei docenti nella gestione delle classi eterogenee; la diffusione a livello nazionale degli strumenti didattici innovativi e delle buone pratiche fin qui sperimentate; la gestione /prevenzione delle situazioni in cui si vengono a formare scuole ad alta concentrazione di alunni stranieri.


Perché NON sono efficaci le classi per stranieri
Per quali ragioni riteniamo che le “classi di inserimento” non siano la risposta più efficace ai bisogni linguistici e di integrazione degli alunni stranieri?
Ne elenchiamo solo alcune, partendo da un dato di contesto che dà la misura della presenza dei bambini di nuova immigrazione “che non parlano una parola di italiano”.

• Quanti sono gli alunni stranieri non italofoni?
Gli alunni stranieri inseriti nella scuola italiana sono stimati per l’anno scolastico 2008/2009 in circa 640.000. Di questi:
- una buona parte è nata in Italia (più del 70% dei bimbi inseriti nelle scuole dell’infanzia; circa la metà di coloro che frequentano la scuola primaria) e presumibilmente diventeranno cittadini italiani de jure alla maggiore età;
- un’altra parte consistente è giunta in Italia da anni e ha già appreso la seconda lingua;
- circa il 10% del totale degli alunni stranieri è costituito da bambini e ragazzi di recente immigrazione, in situazione quindi di non italofonia.
Si tratta di circa 50.000 alunni (se si escludono i piccoli inseriti nella scuola dell’infanzia), la metà dei quali frequenta la scuola primaria, mentre la restante metà è distribuita fra scuola secondaria di primo e secondo grado.
L’integrazione dei bambini e dei ragazzi stranieri è quindi un tema più “largo”, che non riguarda solo l’apprendimento della lingua, ma che ci coinvolge tutti, nella gestione quotidiana della convivenza e dello scambio all’interno di classi eterogenee.

• L’italiano, lingua di contatto, si impara parlando
Gli alunni stranieri devono apprendere l’italiano per due scopi: per comunicare nella vita quotidiana (italiano lingua di contatto) e per apprendere attraverso la nuova lingua (italiano lingua veicolare). L’apprendimento della lingua per comunicare è, in genere, piuttosto rapido e avviene soprattutto grazie all’“immersione”, agli scambi quotidiani e al contatto con i coetanei. La classe di soli stranieri rischia quindi di rallentare questa fase di apprendimento, anziché favorirla.

• Imparare l’italiano studiando
L’apprendimento dell’italiano per lo studio e per imparare le diverse materie scolastiche richiede invece tempi più prolungati e avviene – con i dovuti supporti – insieme agli altri alunni della classe. Ricordiamo che una buona parte degli alunni stranieri proviene da sistemi scolastici “buoni e adeguati” e le loro competenze in logica-matematica, discipline scientifiche ecc. sono spesso paragonabili a quelle dei compagni autoctoni (in certi casi, perfino superiori).
La classe formata da soli stranieri, che raggruppa alunni di età e classe differenti con l’obiettivo dell’apprendimento della nuova lingua, non propone agli alunni immigrati i contenuti curricolari presentati nel frattempo ai compagni di banco, e rischia quindi di bloccare il loro apprendimento scolastico e di demotivarli, mentre invece si impara l’italiano anche studiando la matematica, la geografia, le scienze…

• L’esperienza degli altri Paesi
La maggior parte dei Paesi europei segue il modello integrato, che prevede l’inserimento da subito nella classe comune e contemporaneamente l’insegnamento mirato della seconda lingua per alcune ore settimanali (da 6 ore a 10 a seconda dell’età, della lingua d’origine, dei bisogni linguistici.), radunando in questi momenti “dedicati” gli alunni, anche al di fuori della classe, in piccolo gruppo.
Il cosiddetto modello “separato”, che prevede classi solo per stranieri per un tempo consistente (un anno e oltre) è pochissimo diffuso (alcuni Lander tedeschi) e sta di fatto rarefacendosi. Le ricerche dimostrano infatti che è decisamente più efficace il modello integrato. (Integrating Immigrant Children into Schools in Europe, UE, Eurydice 2004)

Oltre le semplificazioni e l’invisibilità
A proposito dell’inserimento degli alunni stranieri in Italia, si assiste talvolta alla formulazione di una logica binaria, che colloca le opzioni possibili su due polarità opposte:
- l’inserimento nella classe ordinaria, senza alcun sostegno (indifferenziazione /invisibilità);
- l’inserimento nella classe “ponte” per soli stranieri (differenziazione senza contatto).
Le esperienze della scuola italiana, il cammino fatto in questi anni e le scelte di altri Paesi suggeriscono invece che le modalità più efficaci sono quelle che prevedono l’inserimento da subito nelle classi comuni e la contemporanea offerta dei dispositivi di sostegno, per l’apprendimento linguistico e per l’aiuto allo studio, adeguati e specifici (si vedano, ad esempio: la proposta di un Piano nazionale di italiano seconda lingua elaborato dall’Osservatorio nazionale sull’integrazione degli alunni stranieri del Ministero della Pubblica Istruzione e l’esperienza realizzata in molte città nell’ambito di patti territoriali tra scuola e enti locali).
In questi piani e progetti, gli studenti non italofoni apprendono l’italiano seconda lingua grazie a moduli “dedicati” e intensivi, realizzati anche prima dell’inizio delle lezioni (ad esempio, da metà giugno a fine luglio e durante i primi quindici giorni di settembre) e che continuano poi nel primo e secondo quadrimestre con orario “a scalare”, accompagnando l’inserimento nella classe ordinaria.
Attualmente, maggiori attenzioni e risorse, qualificate e continuative, dovrebbero essere indirizzate soprattutto nei confronti degli alunni che arrivano in Italia in età pre-adolescenziale e adolescenziale (inseriti massicciamente negli istituti professionali), affinché il loro inserimento possa avvenire in maniera positiva, per sé e per gli altri. Inserimento che non deve avvenire in maniera separata, ma neppure negando i bisogni linguistici e di accoglienza /orientamento, specifici della prima fase, che sono spesso alla base degli insuccessi scolastici e dei ritardi.
Numerose sono oggi le consapevolezze acquisite e le esperienze - italiane ed europee - dalle quali partire e da portare a sistema per una scuola di qualità per tutti.
Senza semplificazioni dannose e senza minimizzare la portata delle sfide educative che la scuola multiculturale pone ai docenti, agli studenti, ai genitori.
Graziella Favaro
Pedagogista - Centro Come

lunedì 10 novembre 2008

Una Costituzione senza Dio

Nei mesi scorsi la rivista "il Timone" ha attuato una campagna telefonica per un forte radicamento della stessa nelle parrocchie. Interpellato ho declinato l'offerta, perchè quasi sempre in disaccordo con i contenuti e i toni degli articoli. Esprime infatti un cattolicesimo "assediato", una società piena di "nemici della Chiesa" (salvo che nel centrodestra politico!), una cultura con "spirito da crociata", tutte cose che non sono nel mio DNA. Purtroppo ho avuto "cattivi maestri"... Ripropongo come esempio un articolo pubblicato da «il Timone» n. 76, Settembre/Ottobre 2008 a firma Mario Palmaro, con un primo, sommario, ma più che sufficiente commento di Agostino Pietrasanta.

La Costituzione della Repubblica italiana compie 60 anni. Era il primo gennaio del 1948 quando il testo fondamentale del nostro ordinamento entrava formalmente in vigore. La Costituzione era stata approvata pochi giorni prima, il 22 dicembre del '47, con una maggioranza schiacciante, che sfiorava l'unanimità: 453 i voti favorevoli tra i membri dell'Assemblea costituente, soltanto 62 i contrari. Un risultato sorprendente, se si considera quale fosse la composizione di quell'organismo, eletto dagli italiani il 2 giugno del 1946.

Un compromesso storico
Nella Costituente, 207 seggi erano andati alla Democrazia cristiana (35,2%), 115 seggi al Partito socialista di unità proletaria (20,7%) e 104 al Partito comunista italiano (19,9%). Seguivano liberali e demolaburisti con 41 seggi, il Fronte dell'Uomo qualunque con 30 rappresentanti, i Repubblicani con 23 seggi, i Monarchici con 16 seggi, il Partito d'Azione con 7. Si può subito notare che comunisti e socialisti insieme contavano su un numero di voti superiore a quello del partito di maggioranza relativa, la Dc. L'influsso della componente marxista e materialista sarebbe quindi stato determinante per la stesura della carta costituzionale. Non solo: dopo la caduta del regime guidato da Benito Mussolini, il 25 luglio 1943, i cosiddetti partiti antifascisti avevano inaugurato una stagione di stretta collaborazione, dando vita a una serie di governi composti da democristiani, comunisti, socialisti, liberali e azionisti. Era pur vero che il rapporto fra socialcomunisti e il resto dei partiti si era poi progressivamente deteriorato. Ma nell'Assemblea costituente fu chiaro fin dall'inizio che si sarebbe lavorato alla stesura di un testo di compromesso, in grado di mettere d'accordo anime così diverse. Paimiro Togliatti descrisse in questi termini il lavoro della Costituente: «Abbiamo cercato di arrivare ad una unità, cioè di individuare quale poteva essere il terreno comune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse».

Una Costituzione senza Dio
Le parole di Togliatti fotografano con molta onestà il risultato fissato sulla Carta nel testo che ancora oggi è alla base della Repubblica italiana. La mediazione fra cattolici e marxisti produsse una prima vittima illustre fin dalle prime righe: nella Costituzione italiana non c'è alcuna traccia di Dio. Il deputato democristiano Giorgio La Pira, prendendo la parola alla vigilia del voto finale, il 22 dicembre del 1947, propose di far precedere agli articoli già votati un breve preambolo, in cui si facesse esplicito riferimento a Dio come ispiratore della nuova Costituzione. La proposta non piacque ai laici - anche se Giuseppe Saragat si dichiarò favorevole - e suscitò perplessità nella stessa Democrazia cristiana perché, come riferisce uno storico cattolico, «il nome di Dio rischiava di essere un ulteriore elemento di divisione e di vanificare il vastissimo accordo che andava profilandosi». Alla fine, lo stesso La Pira fu indotto suo malgrado a ritirare la proposta.
Si dirà che quel richiamo a un Dio generico non avrebbe modificato le sorti del nostro Paese. Può darsi. Ma è pur vero che si trattò di un segnale politico e culturale molto forte, anche all'interno dello stesso mondo cattolico: mentre da una parte Pio XII riteneva giustamente prioritario "ricristianizzare l'Italia", la dirigenza democristiana riteneva che la sua missione storica consistesse nel laicizzare e democratizzare il Paese, per agganciarlo alla modernità.
II risultato è una Costituzione repubblicana materialista e apertamente atea, che sul tema della religione e del rapporto fra l'uomo e Dio consuma uno strappo radicale rispetto al precedente Statuto Albertino, promulgato nel 1848.

Il lavoro come valore supremo
L'esito paradossale della "abolizione costituzionale di Dio" è che la Carta si apre all'articolo 1 con una infelicissima formulazione, che rimanda vagamente ai Paesi del blocco sovietico e al Capitale di Marx: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Dove si coglie immediatamente tutto peso dell'antropologia socialcomunista, che pone addirittura al vertice dell'architettura statuale il lavoro umano, inteso come "forza lavoro". E dove si nota l'elevazione a valore assoluto di due concetti - repubblica e democrazia - che sono invece ambivalenti, ambigui, e relativi ai contenuti che intendono promuovere. Ci sono cioè democrazie buone e democrazie cattive. A queste critiche si può obiettare che la Carta del 1948 contiene in grande quantità principi e valori di diretta derivazione cristiana.
Effettivamente, il contributo della cultura cattolica in molti snodi della Costituzione è ancora oggi del tutto evidente. Basti citare, ad esempio, il fatto che i diritti inviolabili dell'uomo sono "riconosciuti" dalla Repubblica (articolo 2) con una implicita allusione al fatto che questi diritti preesistono allo Stato e hanno un fondamento meta-giuridico, e che quindi non sono inventati o creati dal legislatore. Oppure si pensi all'articolo 29, dove la famiglia è definita come «società naturale fondata sul matrimonio», e dove "l'unità familiare" è riconosciuta come preminente sui pur legittimi interessi dei coniugi. Articoli di evidente impronta giusnaturalistica, che tuttavia manifestano il loro tallone d'Achille proprio nella mancanza di una fondazione metafisica. Non è infatti chiaro - né la Carta si sforza di spiegarlo - quali siano le radici degli spesso evocati "valori costituzionali". L'assenza di ogni riferimento al Creatore autorizza a pensare che tutte le norme, anche le supreme e fondative dell'ordinamento, siano soltanto il prodotto della volontà arbitraria degli uomini, che si proclamano "autolegi-slatori" e fonte ultima ed esclusiva del diritto vigente. Per cui i contenuti della Costituzione vengono relativizzati e sottomessi al mutevole capriccio delle mode e delle genera¬zioni che si susseguono nel tempo.
Dire infatti - come fa pomposamente l'articolo 1 - che «la sovranità appartiene al popolo», e dirlo senza evocare la divinità, significa riaffermare prometeicamente che non esiste alcuna autorità alla quale l'uomo deve rendere conto. Significa, insomma, trasformare il principio di maggioranza in un assoluto etico e giuridico.

La Costituzione come Moloc intoccabile
Non vogliamo certo negare i molti contenuti positivi che la Costituzione del 1948 ha consegnato alla nostra cultura giuridica. Valori e modelli già presenti nella poderosa e insuperata tradizione romanistica, affinati dalla giurisprudenza classica italiana, e solennizzati in numerosi articoli della nostra Carta costituzionale. Tuttavia, la storia della repubblica è costellata di svolte legislative che hanno rivelato la debolezza sostanziale della nostra Costituzione. Pensiamo alla legalizzazione del divorzio, vulnus gravissimo alla natura intrinseca del matrimonio; o all'approvazione della legge sull'aborto, che contrasta proprio con l'articolo 2 della Costituzione. Queste leggi ingiuste, approvate con la "benedizione" della Corte Costituzione, confermano l'esistenza di una radice malata nell'intero impianto costituzionale, una sorta di debolezza congenita che consentirà, purtroppo, ulteriori derive nei prossimi anni. Ad esempio sul terreno dell'eutanasia e delle cosiddette coppie di fatto. Ragioni più che valide per abbandonare una certa visione idolatrica della Costituzione, diffusa anche in alcuni settori del mondo cattolico italiano. Quasi che la Costituzione del '48 sia una sorta di appendice alle tavole della legge che Mosè ricevette da Dio sul monte Sinai.
Si tratta, molto più prosaicamente, di una legge fatta da uomini, mortali e fallibili. Molti dei quali, per giunta, affascinati da ideologie false e bugiarde.

Bibliografia
Tommaso D'Aquino, La politica dei prìncipi cristiani, Edizioni Cantagalli, 1997.
Roberto De Mattei, II centro che ci portò a sinistra, Edizioni Fiducia, 1994.
Thomas S. Eliot, L'idea di una società cristiana, Gribaudi, 1998.

Una serie di banalità; per una contestazione sarebbe necessaria un’analisi punto per punto. Ovviamente sono convinto anch’io che la Costituzione repubblicana costituisce uno strappo rispetto allo Statuto Carlo/albertino, ma nella carta Albertina non vedo alcun accenno a Dio; si dice solo che la religione cattolica è religione di Stato ed è inutile dire al Palmaro di andarsi a rileggere il discorso di apertura del Vaticano II, anzi si correrebbe il rischio di provocare un’accusa diretta a papa Giovanni. Inoltre, subito dopo lo Statuto si avviò una politica di lotta e di ostilità alla Chiesa di cui il Palmaro avrebbe da dire ben più di noi…Su La Pira è vero che propose di introdurre la Costituzione con il richiamo al nome di Dio, ma già nella XIX settimana sociale dei cattolici italiani a Firenze, celebrata nell’ottobre del 1945, sul tema “Costituzione e Costituente” affermò che l’ispirazione cristiana si identifica, anche in una Carta costituzionale, quando questa abbia come fine la persona, senza riferimenti di natura sacrale o…confessionale. Evidentemente il richiamo alla persona umana per il Palmaro significa esclusione di fondazioni metafisiche. In fondo con questa gente(lo dico con sofferenza), non c’è possibilità di dialogo. Agostino Pietrasanta

domenica 9 novembre 2008

Riprendo da http://fortresseurope.blogspot.com con il commento aiuto alla lettura, altrettanto interessante e utile.

BERLINO, 24 ottobre 2008 - A due mesi dalla firma del trattato di amicizia tra Italia e Libia, il testo dell'accordo è finalmente pubblico. Lo ha diffuso il sito di Repubblica.it. Gli articoli sono 23, si va dal "Rispetto della legalità internazionale" alla "Collaborazione nel settore della Difesa" e ai "Progetti infrastrutturali di base" (i famosi 5 miliardi di dollari...). La collaborazione nella lotta all'immigrazione clandestina rientra nello stesso articolo della "lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata e al traffico di stupefacenti". L'articolo 19. Fondamentalmente si tratta di chiudere ai migranti e ai rifugiati le vie di ingresso e di uscita dalla Libia. A nord con i pattugliamenti congiunti, stabiliti dagli accordi del 29 dicembre 2007, da effettuarsi con le 30 imbarcazioni bloccate da un mese nel porto di La Spezia, secondo quanto dichiarato dallo stesso Maroni. E a sud con l'installazione di un sistema di controllo elettronico della frontiera desertica, la cui costruzione sarebbe affidata a Finmeccanica, con un finanziamento al 50% italiano e al 50% dell'Unione europea. Il tutto però verosimilmente non partirà prima della ratifica dell'accordo da parte del Parlamento Italiano. Cioè non prima di qualche mese.
A coronare l'ipocrisia del trattato ci sono gli articoli 6 e 4. Il primo parla di "Rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali" in nome dei "principi della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo". E se quelle convenzioni internazionali vietano gli arresti di massa dei lavoratori immigrati, il trattamento inumano e degradante nei campi di detenzione e le deportazioni collettive in pieno deserto o in Paesi a rischio, niente paura. L'articolo 4 infatti prevede la "Non ingerenza negli affari interni". Come dire: l'Europa non c'entra niente, anche se ha finanziato quegli arresti. A chi non avesse chiaro cosa succede nei campi di detenzione libici, invitiamo a scaricare il nostro rapporto Fuga da Tripoli, e di andarsi a vedere il documentario Come un uomo sulla terra.


Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica Italiana e la Grande Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista

PREAMBOLO
La Repubblica Italiana e la Grande Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista, qui di seguito denominati “le Parti", consapevoli dei profondi legami di amicizia tra i rispettivi popoli e del comune patrimonio storico e culturale;
decise ad operare per il rafforzamento della pace, della sicurezza e della stabilita, in particolare nella regione del Mediterraneo;
impegnate, rispettivamente, nell'ambito dell'Unione Europea e dell'Unione Africana nella costruzione di forme di cooperazione ed integrazione, in grado dì favorire l'affermazione della pace, la crescita economica e sociale e la tutela dell'ambiente;
ricordando l'importante contributo dell'Italia al fine del superamento del periodo dell'embargo nei confronti della Grande Giamahiria;
tenendo conto delle importanti iniziative già realizzate dall'Italia in attuazione delle precedenti intese bilaterali;
esprimendo la reciproca volontà di continuare a collaborare nella ricerca, con modalità che saranno concordate tra le Parti, riguardante i cittadini libici allontanati coercitivamente dalla Libia in epoca coloniale;
ritenendo di chiudere definitivamente il doloroso "capitolo del passato", per il quale l'Italia ha già espresso, nel Comunicato Congiunto del 1998, il proprio rammarico per le sofferenze arrecate al popolo libico a seguito della colonizzazione italiana, con la soluzione di tutti i contenziosi bilaterali e sottolineando la ferma volontà di costruire una nuova fase delle relazioni bilaterali, basata sul rispetto reciproco, la pari dignità, la piena collaborazione e su un rapporto pienamente paritario e bilanciato;
esprimendo, pertanto, l'intenzione di fare del presente Trattato il quadro giuridico di riferimento per sviluppare un rapporto bilaterale "speciale e privilegiata", caratterizzato da un forte ed ampio partenariato politico, economico e in tutti i restanti settori della collaborazione;
hanno convenuto quanto segue:

Capo I
PRINCIPI GENERALI
Articolo 1
Rispetto della legalità internazionale
Le Parti, nel sottolineare la comune visione della centralità delle Nazioni Unite nel sistema di relazioni internazionali, si impegnano ad adempiere in buona fede agli obblighi da esse sottoscritti, sia quelli derivanti dai principi e dalle norme del diritto Internazionale universalmente riconosciuti, sia quelli inerenti al rispetto dell'Ordinamento Internazionale.
Articolo 2
Uguaglianza sovrana
Le Parti rispettano reciprocamente la loro uguaglianza sovrana, nonché tutti i diritti ad essa inerenti compreso, in particolare, il diritto alla libertà ed all'indipendenza politica. Esse rispettano altresì il diritto di ciascuna delle Parti di scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale.
Articolo 3
Non ricorso alla minaccia o all'impiego della forza
Le Parti si impegnano a non ricorrere alla minaccia o all'impiego della forza contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica dell'altra Parte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite,
Articolo 4
Non ingerenza negli affari interni
1. Le Parti si astengono da qualunque forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell'altra Parte, attenendosi allo spirito di buon vicinato.
2. Nel rispetto dei principi della legalità internazionale, l'Italia non userà, ne permetterà l'uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia e la Libia non userà, né permetterà, l'uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro l'Italia.
Articolo 5
Soluzione pacifica delle controversie
In uno spirito conforme alle motivazioni che hanno portato alla stipula del presente Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, le Parti definiscono in modo pacifico le controversie che potrebbero insorgere tra di loro, favorendo l'adozione di soluzioni giuste ed eque, in modo da non pregiudicare la pace e la sicurezza regionale ed, internazionale.
Articolo 6
Rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali
Le Parti, di comune accordo, agiscono conformemente alle rispettive legislazioni, agli obiettivi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo.
Articolo 7
Dialogo e comprensione tra culture e civiltà
Le Parti adottano tutte le iniziative che consentano di disporre di uno spazio culturale comune, ispirandosi ai loro legami storici ed umani. Le iniziative suddette si ispirano ai principi della tolleranza, della coesistenza e del rispetto reciproco, della valorizzazione e dell'arricchimento del patrimonio comune materiale e immateriale nel contesto bilaterale e regionale.

Capo II
CHIUSURA DEL CAPITOLO DEL PASSATO E DEI CONTENZIOSI
Articolo 8
Progetti infrastrutturali di base
1. L'Italia, sulla base delle proposte avanzate dalla Grande Giamahiria e delle successive discussioni intervenute, si impegna a reperire i fondi finanziari necessari per la realizzazione di progetti infrastrutturali di base che vengono concordati tra i due Paesi nei limiti della somma di 5 miliardi di dollari americani, per un importo annuale di 250 milioni di dollari americani per 20 anni.
2. Le aziende italiane provvederanno alla realizzazione di questi progetti previo un comune accordo sul valore dì ciascuno.
3. La realizzazione di questi progetti avverrà nell'arco di 20 anni secondo un calendario temporale che verrà concordato tra le due Parti, libica ed italiana.
4. I fondi finanziari assegnati vengono gestiti direttamente, dalla Parte italiana.
5. La Grande Giamahiria rende disponibili tutti i terreni necessari per l'esecuzione delle opere senza oneri per la Parte italiana e le aziende esecutrici.
6. La Grande Giamahiria agevola la Parte italiana e le aziende esecutrici, nel reperimento dei materiali accessibili in loco e nell'espletamento di procedure doganali e di importazione esentandole dal pagamento di eventuali tasse. I consumi di energia elettrica, gas, acqua e linee telefoniche saranno pagati con l'esenzione delle tasse.
Articolo 9
Commissione Mista
1. E' istituita una Commissione Mista paritetica, costituita da componenti designati dai rispettivi Stati. La Commissione Mista individua le caratteristiche tecniche dei progetti dì cui al precedente Articolo e stabilisce l'arco temporale complessivo e le cadenze di realizzazione dei progetti, nel quadro degli importi di ordine finanziario contenuti nello stesso articolo.
2. La Gran Giamahiria si impegna a garantire, sulla base di specifiche intese a trattativa diretta con società italiane, la realizzazione in Libia, da parte delle stesse, di importanti opere infrastrutturali, progetti industriali ed investimenti. I progetti vengono realizzati ai prezzi da concordare fra le Parti. Queste imprese, secondo le consuetudini esistenti, contribuiscono in maniera volontaria alle opere sociali ed alla bonifica ambientale nelle zone ove realizzano i loro progetti.
La Gran Giamahiria si impegna, inoltre, ad abrogare tutti i provvedimenti e le norme regolamentari che imponevano vincoli o limiti alle sole imprese italiane.
3. La Commissione Mista individua, su proposta della Parte libica, le opere, i progetti e gli investimenti di cui al paragrafo 2, indicando per ciascuno tempi e modalità di affidamento e di esecuzione.
4. La conclusione ed il buon andamento di tali intese rappresentano le premesse per la creazione di un forte partenariato italo-libico nel settore economico, commerciale, industriale e negli altri settori ai fini della realizzazione degli obiettivi indicati in uno spirito di leale collaborazione.
5. La Commissione Mista ha il compito di verificare l'andamento degli impegni di cui all'Articolo 8 e al presente Articolo e redige un processo verbale periodico che faccia stato degli obiettivi raggiunti o da raggiungere in relazione agli obblighi assunti dalle Parti contraenti.
6. La Commissione Mista segnala ai competenti Uffici degli Affari Esteri delle due Parti eventuali inadempienze, proponendo ipotesi tecniche di soluzione.
Articolo 10
Iniziative Speciali
L'Italia, su specifica richiesta della Grande Giamahiria, si impegna a realizzare le Iniziative Speciali sotto riportate a beneficio del popolo libico. Le Parti concordano l'ammontare di spesa complessivo per la realizzazione di tali iniziative ed affidano ad appositi Comitati Misti la definizione delle modalità di esecuzione delle stesse ed il limite di spesa annuale da impegnare per ognuna di esse ad eccezione delle borse di studio di cui al punto b).
a) La costruzione in Libia di duecento unità abitative, con siti e caratteristiche da determinare di comune accordo.
b) L'assegnazione di borse di studio universitarie e post-universitarie per l'intero corso di studi a un contingente di cento studenti libici, da rinnovare al termine del corso di studi a beneficio di altri studenti. Con uno scambio di lettere si precisa il significato di rinnovare, per assicurare la continuità.
c) Un programma di cure, presso Istituti specializzati italiani, a favore di alcune vittime in Libia dello scoppio di mine, che non possano essere adeguatamente assistite presso il Centro di Riabilitazione Ortopedica di Bengasi realizzato con i fondi della Cooperazione italiana,
d) Il ripristino del pagamento delle pensioni ai titolari libici e ai loro eredi che, sulla base della vigente nominativa italiana, ne abbiano diritto,
e) La restituzione alla Libia di manoscritti e reperti archeologici trasferiti in Italia da quei territori in, epoca coloniale: il Comitato Misto di cui all'articolo 16 del presente Trattato individua i reperti e i manoscritti che saranno, successivamente, oggetto di un atto normativo ad hoc finalizzato alla loro restituzione.
Articolo 11
Visti ai cittadini italiani espulsi dalla Libia
La Grande Giamahiria si impegna dalla firma del presente Trattato a concedere senza limitazioni o restrizioni di sorta ai cittadini italiani espulsi nel passato dalla Libia i visti di ingresso che gli interessati dovessero richiedere per motivi di turismo, di visita o lavoro o per altre finalità.
Articolo 12
Fondo sociale
1. La Grande Giamahiria si impegna a sciogliere l'Azienda Libico-Italiana (ALI) e a costituire contestualmente il Fondo Sociale, utilizzando i contributi già versati dalle aziende italiane alla stessa.
2. L'ammontare del Fondo Sociale sarà utilizzato per le finalità che sono state previste al punto 4 del Comunicato Congiunto italo-libico del 4 luglio 1998 per avviare la realizzazione delle Iniziative Speciali, di cui all'articolo 10 lettere b) e c) del presente Trattato, fino a concorrenza di tale ammontare. In particolare, potranno essere finanziati progetti di bonifica dalle mine e valorizzazione delle aree interessate, programmai di cura in favore di cittadini libici danneggiati dallo scoppio delle mine, nonché altre iniziative a favore dei giovani libici nel settore della formazione universitaria e post-universitaria, sino ad esaurimento del credito del Fondo Sociale. Quindi continuerà il finanziamento dalla Parte italiana, in attuazione del Trattato.
3. A tal fine, è istituito un Comitato Misto paritetico per la gestione dei Fondo Sociale secondo le modalità previste dal Comunicato Congiunto.
4. Definite le modalità di gestione dell'ammontare già costituito del Fondo Sociale e le iniziative da finanziare, le due Parti considerano definitivamente esaurito il Fondo Sociale.
Articolo 13
Crediti
1. Per quanto riguarda i crediti vantati dalle aziende italiane nei confronti di Amministrazioni ed Enti libici, le Parti si impegnano a raggiungere con uno scambio di lettere una soluzione sulla base del negoziato nell'ambito del Comitato Crediti.
2. Con il medesimo scambio di lettere, le Parti si impegnano a raggiungere una soluzione anche per quanto riguarda gli eventuali debiti di natura fiscale e/o amministrativa di aziende italiane nei confronti di Enti libici.

CAPO III
NUOVO PARTENARIATO BILATERALE
Articolo 14
Comitato di Partenariato e consultazioni politiche
1. Le due Parti imprimono nuovo impulso alle relazioni bilaterali politiche, economiche, sociali, culturali e scientifiche ed in tutti gli altri settori, con la valorizzazione dei legami storici e la condivisione dei comuni obiettivi di solidarietà tra i popoli e di progresso dell'Umanità.
2. Nel desiderio condiviso di rinsaldare ì legami che le uniscono, le due Parti decidono la costituzione di un Partenariato all'altezza del livello di collaborazione e coordinamento cui ambiscono sui temi bilaterali e regionali e sulle questioni internazionali di reciproco interesse. A tale scopo, le due Parti decidono quanto segue:
a) una riunione annuale del Comitato di Partenariato, a livello del Presidente dei Consiglio dei Ministri e del Segretario del Comitato Popolare Generale, da tenersi alternativamente in Italia e in Libia;
b) una riunione annuale del Comitato dei Seguiti, a livello del Ministro degli Affari Esteri e del Segretario del Comitato Popolare Generale per il Collegamento Estero e la Cooperazione Internazionale, da tenersi alternativamente in Italia e in Libia, con il compito di seguire l'attuazione del Trattato e degli altri Accordi di collaborazione, che presenterà le proprie relazioni al Comitato di Partenariato. Qualora una delle Parti ritenga che l'altra Parte abbia contravvenuto ad uno qualsiasi degli impegni previsti dal presente Trattato, richiederà una riunione straordinaria del Comitato dei Seguiti, per un esame approfondito e al fine di trovare una Soluzione soddisfacente.
c) il Comitato di Partenariato adotta tutti i provvedimenti necessari all'attuazione degli impegni previsti dal presente Trattato e le due Parti si adoperano per la realizzazione dei suoi scopi;
d) lo svolgimento di regolari consultazioni tra altri rappresentanti delle due Parti.
3. Il Ministro degli Affari Esteri e il Segretario del Comitato Popolare Generale per il Collegamento Estero e la Cooperazione Internazionale, ricevuta la segnalazione di cui all'Articolo 9 comma 6, si adoperano per definire una soluzione adeguata.
Articolo 15
Cooperazione negli ambiti scientifici
Le due Parti intensificano la collaborazione nel campo della scienza e della tecnologia e realizzano programmi di formazione e di specializzazione a livello post-universitario. Favoriscono a tal fine lo sviluppo di rapporti tra le università e tra gli Istituti di ricerca e di Formazione dei due Paesi. Sviluppano ulteriormente la collaborazione nel campo sanitario e in quello della ricerca medica, promuovendo i rapporti tra enti ed organismi dei due Paesi.
Articolo 16
Cooperazione culturale
1. Le due Parti approfondiscono i tradizionali vincoli culturali e di amicizia che legano i due popoli ed incoraggiano í contatti diretti tra enti ed organismi culturali dei due Paesi. Sono altresì facilitati gli scambi giovanili e i gemellaggi tra città ed altri enti territoriali dei due Paesi.
2. Le due Parti danno ulteriore impulso alla collaborazione nel settore archeologico. In tale ambito è altresì esaminata, da un apposito Comitato Misto, la problematica concernente la restituzione alla Libia di reperti archeologici e manoscritti.
Le due Parti collaborano anche ai fini della eventuale restituzione alla Libia, da parte di altri Stati, di reperti archeologici sottratti in epoca coloniale.
3. Le due Parti agevolano, sulla base della reciprocità, l'attività rispettivamente dell'Istituto Italiano di Cultura a Tripoli e dell'Accademia Libica in Italia.
4. Le due Parti concordano sulla opportunità di rendere le nuove generazioni sempre più consapevoli delle conseguenze negative generate dalle aggressioni e dalla violenza e si adoperano per la diffusione dì una cultura ispirata ai principi della tolleranza e della collaborazione trai Popoli.
Articolo 17
Collaborazione economica e industriale
1. Le due Parti promuovono progetti di trasferimento di tecnologie e di collaborazione industriale, con riferimento anche a iniziative comuni in Paesi terzi.
2. Sviluppano la collaborazione nei settori delle opere infrastrutturali, dell'aviazione civile, delle costruzioni navali, del turismo, dell'ambiente, dell'agricoltura e della zootecnia, delle biotecnologie, della pesca e dell'acquacoltura, nonché in altri settori di reciproco interesse, favorendo in particolare lo sviluppo degli investimenti diretti.
3. Esse sostengono le PMI e la costituzione di società miste.
4. Le due Parti si adoperano per concordare entro breve una Intesa tecnica in materia di cooperazione economica, scientifica e tecnologica nel settore della pesca e dell'acquacoltura e favoriscono Intese analoghe tra altri Enti competenti dei due Paesi.
Articolo 18
Collaborazione energetica
1. Le due Parti sottolineano l'importanza strategica per entrambi i Paesi della collaborazione nel settore energetico e si impegnano a favorire il rafforzamento del partenariato in tale settore.
2. Attribuiscono particolare rilievo alle energie rinnovabili ed incoraggiano la cooperazione tra enti ed organismi dei due Paesi, sia sul piano industriale che su quello della ricerca e della formazione.
Articolo 19
Collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, all'immigrazione clandestina
1. Le due Parti intensificano la collaborazione in atto nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti e all'immigrazione clandestina, in conformità a quanto previsto dall'Accordo firmato a Roma il 13/12/2000 e dalle successive intese tecniche, tra cui, in particolare, per quanto concerne la lotta all'immigrazione clandestina, i Protocolli di cooperazione firmati a Tripoli il 29 dicembre 2007.
2. Sempre in tema di lotta all'immigrazione clandestina, le due Partì promuovono la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche, da affidare a società italiane in possesso delle necessarie competenze tecnologiche. Il Governo italiano sosterrà il 50% dei costi, mentre per il restante 50% le due Parti chiederanno all'Unione Europea di farsene carico, tenuto conto delle Intese a suo tempo intervenute tra la Grande Giamahiria e la 'Commissione Europea.
3. Le due Parti collaborano alla definizione di iniziative, sia bilaterali, sia in ambito regionale, per prevenire il fenomeno dell'immigrazione clandestina nei Paesi di origine dei flussi migratori.
Articolo 20
Collaborazione nel settore della Difesa
1 Le due Parti si impegnano a sviluppare la collaborazione nel settore della Difesa tra le rispettive Forze Armate, anche mediante la finalizzazione di specifici Accordi che disciplinino lo scambio di missioni di esperti, istruttori e tecnici e quello di informazioni militari nonché l'espletamento, di manovre congiunte.
2. Si impegnano altresì ad agevolare la realizzazione. di un forte ed ampio partenariato industriale nel settore della Difesa e delle industrie militari.
3. In tale ambito, l'Italia sosterrà nelle sedi internazionali la richiesta della Libia di indennizzi per i danni subiti da propri cittadini vittime dello scoppio delle mine e per la riabilitazione dei territori danneggiati, con tutti gli Stati interessati.
Articolo 21
Collaborazione nel settore della non proliferazione e del disarmo
Le due Parti si impegnano a proseguire e rinsaldare la collaborazione nel settore del disarmo e della non proliferazione delle armi di distruzione di massa e dei relativi vettori e ad adoperarsi per fare della Regione del Mediterraneo una zona libera da tali armi, nel pieno rispetto degli obblighi derivami dagli Accordi e Trattati internazionali in materia.
Articolo 22
Collaborazione parlamentare e tra Enti locali
Le due Parti favoriscono lo sviluppo di rapporti tra il Parlamento italiano ed il Congresso Generale del Popolo della Grande Giamahiria, nonché tra gli Enti locali, nella consapevolezza della loro importanza per una più intensa ed approfondita conoscenza reciproca.
Articolo 23
Disposizioni finali
1. Il presente Trattato, nel rispetto della legalità internazionale, costituisce il principale strumento di riferimento per lo sviluppo delle relazioni bilaterali. Esso è sottoposto a ratifica secondo le procedure costituzionali previste dall'ordinamento di ciascuna delle Parti ed entra in vigore al momento dello scambio degli strumenti di ratifica.
2. Il presente Trattato sostituisce il Comunicato Congiunto del 4 luglio 1998 e il Processo verbale delle conclusioni operative del 28 ottobre 2002, che pertanto cessano di produrre effetti.)
3. A partire dal corrente anno, il giorno del 30 Agosto viene considerato, in Italia e nella Grande Giamahiria, Giornata dell'Amicizia italo-libica.
4. Il presente Trattato può essere modificato previo accordo delle Parti. Le eventuali modifiche entreranno in vigore alla data di ricezione della seconda delle due notifiche con le quali le Parti si comunicano ufficialmente l'avvenuto espletamento delle rispettive procedure interne.

sabato 8 novembre 2008

Cossiga: «Speriamo che ci sia qualche ferito»

Riprendo e offro alla lettura di tutti dal http://ilsecoloxix.ilsole24ore.com questo articolo (non firmato). E' demenza senile o è un dire ad alta voce, in maniera paradossale e parossistica, un pensiero che si aggira nelle menti di molti? O non descrive un aspetto del clima che si sta creando in Italia, prima attraverso il revisionismo storico, poi attraverso un decisionismo che vuole annullare ogni diritto di opposizione e di dissenso, che vuole umiliare l'avversario politico visto e presentato come nemico (anche se il leader maximo usa espressioni diverse e più colorite e volgari), che attua il diritto a governare con l'abolizione di fatto del Parlamento, che dà a taluni gruppi nerovestiti una sensazione e una convinzione di impunità? Io ho sospetti, non risposte...

La polizia lasci che i manifestanti del mondo della scuola, universitari e studenti delle scuole medie superiori, continuino a manifestare e facciano anche danno. Anzi, l’ideale sarebbe che «qualche commerciante, qualche proprietario di automobili, e anche qualche passante, meglio se donna, vecchio o bambino» fossero feriti o «danneggiate, se fosse possibile, la sede dell’arcivescovo di Milano, qualche sede della Caritas o di Pax Christi». È l’ennesima provocazione del presidente emerito della Repubblica che, in una lettera aperta al capo della Polizia Antonio Manganelli, ha messo nero su bianco i suoi “consigli” sul modo migliore per affrontare il problema delle manifestazioni studentesche di piazza, o meglio su come usare “la durezza” reprimendo le proteste degli studenti quando diventeranno troppo difficili da gestire con la semplice presenza delle forze dell’ordine come deterrente.
«Gli studenti più grandi, anche se in qualche caso facendosi scudo con i bambini, hanno cominciato a sfidare le forze di polizia, a lanciare bombe carta e bottiglie contro di esse e a tentare occupazioni di infrastrutture pubbliche, e ovviamente, ma non saggiamente, le forze di polizia hanno reagito con cariche d’alleggerimento, usando anche gli sfollagente e ferendo qualche manifestante. E’ stato, mi creda - dice a Manganelli - un grande errore strategico. Io ritengo che, data anche la posizione dell’opposizione queste manifestazioni aumenteranno nel numero, in gravità e nel consenso dell’opposizione». Secondo Cossiga «un’efficace politica dell’ordine pubblico deve basarsi su un vasto consenso popolare, e il consenso si forma sulla paura, non verso le forze di polizia, ma verso i manifestanti. A mio avviso, dato che un lancio di bottiglie contro le forze di polizia, insulti rivolti a poliziotti e carabinieri, a loro madri, figlie e sorelle, l’occupazione di stazioni ferroviarie, qualche automobile bruciata non è cosa poi tanto grave, il mio consiglio è che in attesa di tempi peggiori, che certamente verranno, Lei disponga che al minimo cenno di violenze di questo tipo, le forze di polizia si ritirino, in modo che qualche commerciante - prosegue - qualche proprietario di automobili, e anche qualche passante, meglio se donna, vecchio o bambino, siano danneggiati, se fosse possibile la sede dell’arcivescovo di Milano, qualche sede della Caritas o di Pax Christi, da queste manifestazioni,e cresca nella gente comune la paura dei manifestanti e con la paura l’odio verso di essi e i loro mandanti o chi da qualche loft o da qualche redazione, ad esempio quella de L’Unità, li sorregge».
Poi la provocazione: «L’ideale sarebbe che di queste manifestazioni fosse vittima un passante, meglio come ho già detto un vecchio, una donna o un bambino, rimanendo ferito da qualche colpo di arma da fuoco sparato dai dimostranti: basterebbe una ferita lieve, ma meglio sarebbe se fosse grave, ma senza pericolo per la vita». A quel punto «io aspetterei ancora un po’ - dice - adottando straordinarie misure di protezione nei confronti delle sedi di organizzazioni di sinistra. E solo dopo che la situazione si aggravasse e colonne di studenti con militanti dei centri sociali, al canto di “Bella ciao”, devastassero strade, negozi, infrastrutture pubbliche e aggredissero forze di polizia in tenuta ordinaria e non antisommossa e ferissero qualcuno di loro, anche uddicendendolo, farei intervenire massicciamente e pesantemente le forze dell’ordine contro i manifestanti, ma senza arrestare nessuno». «E il comunicato del Viminale dovrebbe dire che si è intervenuto - conclude Cossiga - contro manifestazioni violente del Blocco Studentesco,di Casa Pound e di altri manifestanti di estrema destra, compresi gruppi di naziskin che manifestavano al grido di “Hitler! Hitler!”».

Clandestini anche nella morte - Omelia


Deuteronomio 26
Salmo Lam 1, 1-3
Matteo 2, 13-18

Ho scelto una pagina del Deuteronomio per sottolineare la dimensione dell’Esodo come dimensione tipica della spiritualità del cristiano, ma avrei potuto scegliere pagine paoline, vista la coincidenza dell’anno a lui dedicato. Paolo ha saputo rivolgersi e dialogare con i greci, i palestinesi, romani, ecc… Paolo, nei suoi viaggi apostolici, ha trovato tante resistenze negative. É stato mandato via dalle piazze, cacciato dalle sinagoghe … Il messaggio cristiano è arrivato a noi attraverso degli immigrati. Esiste una specie di connaturalità tra i cristiani e la mobilità umana, perché la “Chiesa pellegrina”, identifica il proprio camminare con quello delle persone in mobilità umana. É molto significativo il pellegrinare del popolo dell’Antica Alleanza.
Nel dramma della Famiglia di Nazareth, obbligata a rifugiarsi in Egitto, è facile vedere la dolorosa condizione di tutti i migranti, i rifugiati, gli esuli, gli sfollati, i profughi, i perseguitati. Intravediamo le difficoltà di ogni famiglia migrante, i disagi, le umiliazioni, le ristrettezze e la fragilità di milioni e milioni di migranti, profughi e rifugiati. Eppure, sulla speranza di questa famiglia e di ogni famiglia “debilitata dall’emigrazione”, incombe il monito biblico della strage degli innocenti: avvenne a Betlemme e sradicò la vita di bambini inermi, per invidia e paura di Erode, simbolo di un potere incapace di accogliere e tutelare la vita. Lungo le rotte disperate della ricerca di futuro, quante sono le donne e gli uomini in fuga che muoiono prima di raggiungere la meta, falciati dalla violenza, esposti al pericolo? Quante le moderne stragi degli innocenti?
Non voglio fare una omelia “politica”, ma se il Vangelo non diventa impegno per costruire nuove relazioni umane, nuova mentalità, nuova cultura, impegno per costruire la Città dell’uomo, che cosa ne resta? Perciò il Vangelo non può non diventare “Politica”… Offro solo alcuni temi di meditazione…

1. La lingua italiana utilizza termini diversi per definire i resti di un essere vivente dopo la morte. Se l’essere umano morto si definisce “cadavere”, oggi pare quasi un inutile insulto definire il corpo morto di un animale con una parola come “carogna” che acquisisce un tono dispregiativo. La razza umana da migliaia di anni seppellisce con pietà i propri morti e perfino le guerre (salvo episodi recenti) hanno sempre previsto brevi tregue perché ognuno seppellisse i propri caduti. Oggi, in quelle terre italiane che guardano verso la Tunisia e con l’Africa immensa di fronte, oggi si contano centinaia di morti in quella tragedia causata dalle leggi che impediscono di fatto l’immigrazione legale in Italia e da chi alimenta il mercato di schiavi che ingrassa la criminalità organizzata. Centinaia di morti, centinaia di cadaveri tutti in fila rappresentano una strage, una tragedia immensa. Ognuna di quelle singole morti meriterebbe di essere vegliata e pianta. Le nostre stragi quotidiane, quelle del sabato sera per esempio o dei morti per lavoro, meritano spesso poche righe in cronaca. Ma i morti non perdono la loro umanità, i loro nomi, la loro età vengono citate, le loro foto vengono pubblicate, nella rappresentazione di una pietà pubblica che fa superare a quelle morti il carattere di morte privata. Nulla di tutto questo accade per gli esseri umani inghiottiti dalle leggi che reprimono l’immigrazione clandestina più che dal mare. Per la strage di Natale del 1996, quando 286 migranti dallo Sri Lanka morirono nel Canale di Sicilia, ci vollero anni solo perché i superstiti fossero creduti. Intanto il mare restituiva resti umani che nessuno aveva interesse a considerare come tali. Come se il cadavere di un immigrato fosse in realtà la carogna di un immigrato e la sepoltura divenisse, di fronte all’estrema solitudine del migrante, null’altro che un’operazione sanitaria.

2. È agghiacciante quello che sta avvenendo sotto i nostri occhi in questo nostro paese. I campi Rom in fiamme, il nuovo pacchetto di sicurezza, il montante razzismo e la pervasiva xenofobia, la caccia al diverso, la fobia della sicurezza, la nascita delle ronde notturne … offrono un’agghiacciante fotografia dell’Italia 2008. È prioritario richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica su storie di uomini, donne e bambini che all'Europa chiedono solidarietà senza essere considerati semplicemente dei "clandestini". Questa ecatombe di immigrati in fuga dalla fame dell’Africa e dell’Asia. Questa tragedia infinita dell’economia globale che ruba loro riserve d’acqua, trasforma raccolti di grano e granturco in combustibili per rifornire carri armati, aerei e navi da guerra, fa schizzare i prezzi di riso e farina, rendendo impossibile ogni rifornimento a una miriade di villaggi privi di mezzi. Un’economia mondiale che ruba al mondo la speranza.

3. Nel frattempo la povertà in Italia è diventata un reato, ne sono prova le tante ordinanze dei sindaci per cui non si può risiedere in un posto se non si possiede un certo reddito, è vietato frugare nei cassonetti, non si può sostare nei giardini e così via. Ci illudiamo, scacciando via i poveri, di non vedere e quindi di non sapere che esistono i poveri, la povertà? essa sì è un male che va combattuto ma promuovendo il bene, non annientando chi ne è vittima. Sono parole lontane «promozione umana» che volevano indicare all'umanità la direzione da prendere: lontani dall'ingiustizia, promuovendo il bene, riscattando ogni schiavitù, ogni miseria, ogni malattia. Riuscirà l'Italia ad occultare la povertà? Forse sì: allontanando i barconi degli immigrati, magari sparandogli addosso, distruggendo le misere baracche dei rom, impedendo la richiesta dell'elemosina per evitare ogni fastidio (addirittura ad Assisi dove Francesco rischierebbe almeno una multa). E quindi ogni povero è trattato alla stregua di un criminale, sanzionando ogni comportamento che faccia trasparire una mancanza, una richiesta d'aiuto, una trasgressione all'ordine tacito impartito dalla nostra società: essere sempre belli, ricchi, giovani, senza affanno alcuno. Del resto il più potente e ricco in Italia incarna perfettamente questa norma che deve valere per tutti quelli che vogliono far parte a pieno titolo della nostra società. E nessuno si ribella; le voci dissonanti che ho sentito mi sono sembrate troppo flebili, quasi concordi con chi vuole colpire come odierni lebbrosi i poveri da isolare, meglio da seppellire in caverne da cui non provengono neppure più i gemiti di chi soffre. Una società senza pietà è condannata a vivere unicamente nel presente ma non ha prospettive di futuro. Il “Maestro unico” ha detto in un tempo lontano «i poveri li avrete sempre con voi», ma questo non per insegnarci la rassegnazione o per insegnarci a difenderci da loro ma per dire che con loro ci si convive sempre - e che la povertà non può essere esclusa dalla nostra vita, da qualsiasi vita. Magari non la povertà materiale, ma è una malattia da cui nessuno può difendersi: un lutto, un abbandono, la solitudine che neppure i soldi riescono a colmare.

4. Qui si muore di lavoro. Ma il lavoro è una speranza, meglio affrontare l’incertezza del viaggio che la morte sicura d’inedia in Africa o in Asia. Meglio rischiare di cadere da un’impalcatura a Milano che lasciarsi morire dove l’acqua non scorre più e i terreni aridi non fruttificheranno per secoli. Meglio affrontare il mare in vista dell’Italia che li tratta da delinquenti, non da uomini in fuga. Far rientrare la figura dell’immigrato irregolare nel penale è un orrore. Significa creare dal nulla una popolazione di un milione di latitanti che andrebbero individuati e arrestati: questo vuol dire trasformare il nostro Paese di uno Stato di polizia, creando un clima di arbitrio poliziesco di cui gli immigrati non sarebbero gli unici a fare le spese. Il tema non è parte del dibattito nel paese europeo dove l’ottenimento della piena cittadinanza da parte degli immigrati resta culturalmente prima che giuridicamente un tabù. Nel nostro Paese la cittadinanza è un diritto di sangue non estendibile ai non nati italiani. É lo “ius sanguinis” sul quale si basa il nostro ordinamento, per il quale ha diritto alla cittadinanza e al voto un discendente dominicano di Cristoforo Colombo, ma non ha diritto a cittadinanza e voto un dominicano che vive e lavora in Italia. E neanche un suo figlio nato in Italia ha diritto alla cittadinanza. L’ormai indispensabile passaggio allo “ius solis” non è ancora maturo per gli italiani. Così quattro milioni di cittadini (come ci ha detto il “rapporto Caritas”) pagano le tasse e ottengono appena l’elementare diritto a risiedere nel territorio che popolano per la stretta durata del contratto di lavoro. Il lavoro è merce. L’immigrato è merce e se muore lungo il viaggio è nulla più che un carico disperso! Ma l’esigenza di futuro non è “clandestina” e non è reato, ma si deve e si può coniugare e incontrare con l’altro, non avendo paura della fatica di costruire nella pace, nella giustizia e nella corresponsabilità, un futuro per tutti. E chi entra nel nostro paese, rimane un uomo, una donna, un giovane, anche quando non è in grado di regolarizzare il suo ingresso, spesso a motivo di difficoltà insuperabili per chiunque.

5. Non c’è sdegno, senza solidarietà. Non c’è nemmeno sicurezza, senza accoglienza e senza integrazione. Certo faticosa, ma è più faticoso vivere di sola paura e lasciare che questa modelli la cultura, i comportamenti e le scelte. Il Male, quando c’è, non appartiene a un popolo, ad un’etnia: è invece la minaccia reale che colpisce chi fugge, e che induce noi a vivere senza guardare al futuro. A nessuno sfugge il conflitto di identità, che spesso si innesca nell’incontro tra persone di culture diverse. Non mancano in ciò elementi positivi. Inserendosi in un nuovo ambiente, l’immigrato diventa spesso più consapevole di chi egli è, specialmente quanto sente la mancanza di persone e di valori che sono importanti per lui. È necessario cercare un giusto equilibrio tra il rispetto dell’identità propria e il riconoscimento di quella altrui. É infatti necessario riconoscere la legittima pluralità delle culture presenti in un Paese, compatibilmente con la tutela dell’ordine da cui dipendono la pace sociale e la libertà dei cittadini. E bisogna escludere sia i modelli assimilazionisti, che tendono a fare del diverso una copia di sé, sia i modelli di marginalizzazione degli immigrati, con atteggiamenti che possono giungere fino alle scelte di vero apartheid.

6. Voglio chiudere questi pensieri sparsi, un piccolo panorama dei problemi che non sappiamo e non vogliamo affrontare con le parole dure, ma vere, di Padre Zanotelli: «Mi vergogno di appartenere a un paese che si dice cristiano, ma che di cristiano ha ben poco. I cristiani sono i seguaci di Gesù di Nazareth, povero, crocifisso “fuori dalle mura”, che si è identificato con gli affamati, i carcerati, gli stranieri. «Quello che avrete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli lo avrete fatto a me».
Come possiamo dirci cristiani, mentre dalla nostra bocca escono parole di odio e disprezzo verso gli immigrati e i Rom? Come possiamo gloriarci di fare le adozioni a distanza, mentre ci rifiutiamo di fare le “adozioni da vicino”?».

7 novembre 2008
Celebrazione per i “clandestini anche nella morte”.

Seguite il link. Sì siamo diversi...

venerdì 7 novembre 2008

Finalmente parole nuove nel mondo

Ecco il discorso integrale che il neo eletto presidente degli Stati Uniti d'America, Barack Hussein Obama, ha pronunciato dal palco del Grant Park di Chicago. Nutro la speranza, poi, che il Presidente Obama impari presto una distinzione che ormai - per nostra fortuna - nel mondo tutti hanno imparato: a distinguere tra il popolo italiano, amato, stimato, guardato con simpatia, portatore di valori che tutti apprezzano, e i suoi governanti, in particolare il suo Primo Ministro, e i suoi comportamenti e le sue esternazioni che meglio troverebbero posto in un leggero e volgarotto show televisivo.
Se c’è ancora qualcuno là fuori che dubita che l’America sia un posto dove tutte le cose sono possibili; che ancora si chiede se il sogno dei nostri padri fondatori è vivo ai nostri giorni; che ancora si pone domande sul potere della nostra democrazia, stasera è la risposta.
È la risposta data dalle file di persone che circondano intorno alle scuole e alle chiese, in un numero che questa nazione non ha mai visto; da persone che hanno aspettato tre ore e quattro ore, molti per la prima volta nella loro via, perché credevano che questa volta poteva essere differente, che la loro voce avrebbe potuto fare così tanto la differenza.
È la riposta data dai giovani e dai vecchi, ricchi e poveri, democratici e repubblicani, neri, bianchi, latini, asiatici, native americani, omosessuali, eterosessuali, disabili e non disabili – americani che hanno inviato un messaggio al mondo, che noi non siamo solo una raccolta di stati rossi (per i repubblicani, ndt) e blu (per i democratici, ndt): noi siamo, e saremo sempre, gli Stati Uniti d’America.
È la risposta che guida coloro a cui è stato detto per troppo tempo da così tanti di essere cinici, e paurosi, e dubbiosi di cosa possiamo ottenere nel mettere le loro mani sull’arco della storia e piegarlo un’altra volta verso la speranza di un giorno migliore.
Ci è voluto del tempo per arrivare qui, ma stanotte, proprio per quello che abbiamo fatto in questo giorno, in questa elezioni, in questo preciso momento, il cambiamento è arrivato in America.
Ho appena ricevuto una telefonata molto cortese dal senatore McCain. Lui ha combattuto a lungo e duramente in questa campagna, e ha combattuto anche di più e più duramente per il paese che ama. Ha sopportato sacrifici per l’America che molti di noi non possono neanche iniziare a immaginare, e noi stiamo meglio grazie al servizio reso da questo leader coraggioso e altruista. Mi congratulo con lui e con il governatore Palin per tutto quello che hanno ottenuto, e aspetto con ansia di lavorare con loro per rinnovare la promessa della nazione nei mesi a venire.
Voglio ringraziare il mio compagno in questo viaggio, un uomo che ha portato avanti una campagna elettorale dal suo cuore e ha parlato per gli uomini e le donne con i quali lui è cresciuto nelle strade di Scranton e con i quali ha viaggiato sul treno verso casa nel Delaware, il neo eletto vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden.
Non sarei potuto essere qui stasera senza l’inflessibile supporto della mia migliore amica degli ultimi 16 anni, la roccia della nostra famiglia e l’amore della mia vita, la prossima first lady della nazione, Michelle Obama. Sasha e Malia, vi amo entrambe così tanto, e voi vi siete guadagnate il nuovo cucciolo che verrà con noi alla Casa Bianca. E mentre lei non è più con noi, io so che mia nonna ci sta guardando, insieme alla famiglia che mi ha fatto diventare quello che sono. Mi mancano tutti loro stanotte, e so che il mio debito verso di loro è oltre la misura.
Al manager della mia campagna David Plouffe, al mio capo strategia David Axelrod, e alla migliore squadra per un campagna elettorale che si sia mai creata nella storia della politica – voi avete fatto in modo che questo accadesse, e io vi sarà grato per sempre per quello che avete sacrificato per farlo accadere.
Ma sopra a tutto, non dimenticherò mai a chi questa vittoria veramente appartiene – appartiene a voi.
Non sono mai stato il candidate migliore per questa carica. Non abbiamo iniziato con molti soldi o molti appoggi. La nostra campagna non è stata covata nelle sale di Washington – è iniziata nei cortili di Des Mooines e nelle sale da pranzo di Concord e sui portici di Charleston.
È stata costruita da uomini e donne lavoratrici che hanno scavato nei pochi risparmi che avevano e hanno dato cinque dollari e dieci dollari e venti dollari per questa causa. È diventata forte con i giovani che hanno rifiutato il mito dell’apatia della loro generazione; che hanno lasciato la loro casa e le loro famiglie per lavori che hanno offerto loro poca paga e ancor meno sonno; dai non più giovani che hanno affrontato il freddo pungente e il calore bruciante per bussare alle porte di perfetti sconosciuti; dai milioni di americani che hanno fatto volontariato, e hanno organizzato e provato che più di due secoli dopo, un governo del popolo, dal popolo e per il popolo non è morto sotto questa terra. Questa è la vostra vittoria.
Io so che voi non avete fatto questo solo per vincere un’elezione e so che non l’avete fatto solo per me. Voi l’avete fatto perché capite l’enormità del compito che ci si pone davanti. Mentre noi celebriamo stanotte, sappiamo che le sfide che il domani ci riserva sono le più grandi della nostra vita – due guerre, un pianeta in pericolo, la peggiore crisi economica in un secolo. Anche mentre stiamo qui questa sera, sappiamo che ci sono americani coraggiosi che si svegliano nei deserti dell’Iraq e sulle montagne dell’Afghanistan per rischiare la loro vita per noi. Ci sono madri e padri che rimarranno svegli dopo che i loro bambini si saranno addormentati e immagineranno come pagare il mutuo, o le spese del medico, o mettere da parte abbastanza soldi per pagare il college. C’è una nuova energia da sfruttare e nuovi lavori da creare; nuove scuole da costruire e minacce da affrontare e alleanze da rimettere a posto.
La strada davanti a noi sarà lunga. La nostra scalata sarà ripida. Noi potremmo non arrivarci in un anno o anche in un solo mandato, ma America – io non sono mai stato così speranzoso come lo sono la sera che ci siamo arrivati. Vi prometto – noi come popolo ci arriveremo.
Ci saranno sconfitte e false partenze. Ci saranno molti che non saranno d’accordo con ogni decisione o politica che prenderò come presidente, e noi sappiamo che il governo non può risolvere ogni problema. Ma io sarà sempre onesto con voi riguardo alle sfide che dobbiamo affrontare. Io vi ascolterò, specialmente quando saremo in disaccordo. E sopra a tutto, io vi chiederà di unirvi al mio lavoro nel ricostruire questa nazione nell’unico modo è stato fatto in America per 221 anni, isolato dopo isolato, mattono dopo mattone, mani callose dopo mani callose.
Quello che è iniziato 22 mesi fa nel mezzo dell’inverno non deve finire in questa sera d’autunno. Questa vittoria da sola non è il cambiamento che cerchiamo – è solo il cambiamento per noi che facciamo il cambiamento. E che non può accadere se torniamo indietro a come le cose erano prima. Non può accadere senza di voi.
Per cui raccogliamo un nuovo spirito di patriottismo; di servizio e responsabilità dove ognuno di noi decide di mettersi sotto e lavorare più duramente e non pensare solo a noi stessi, ma ad ognuno di noi. Ricordiamoci che se questa crisi finanziaria ci ha insegnato qualcosa, è che noi non possiamo avere una Wall Street fiorente mentre le strade principali soffrono – in questo paese, noi cresciamo e cadiamo come una sola nazione; come un solo popolo.
Resistiamo alla tentazione di tornare indietro alle stesse partigianerie e meschinità e immaturità che hanno avvelenato la nostra politica per così tanto tempo. Ricordiamoci che è stato un uomo di questo stato che per primo ha portato lo stendardo del partito repubblicano alla Casa Bianca – un partito fondato sui valori della fiducia in se stessi, sulla libertà individuale e sull’unità nazionale. Questi sono i valori che tutti noi condividiamo, e mentre il partito democratico ha conseguito una grande vittoria stanotte, noi lo facciamo nella misura dell’umiltà e nella determinazione di guarire le divisioni che hanno tenuto fermo il nostro progresso. Come ha detto Lincoln a una nazione molto più divisa della nostra, “Noi non siamo nemici, ma amici…. Benché la passione possa averli sforzati, noi non dobbiamo rompere i nostri legami di affetto”. E a quegli americani il cui sostenimento devo ancora guadagnare – io posso non aver vinto con il nostro voto, ma sento le vostre voci, ho bisogno del vostro aiuto, e sarò anche il vostro presidente.
E a tutti coloro che ci guardano stanotte da oltre i nostri confini, dai parlamenti ai palazzi a coloro che sono rannicchiati accanto alle radio negli angoli più dimenticati del nostro mondo – la nostra storia è singolare, ma il nostro destino è comune, e una nuova alba della leadership americana è a portata di mano. A coloro che vorrebbero distruggere questo mondo – vi sconfiggeremo. A coloro che cercano la pace e la sicurezza – noi vi diamo supporto. E a tutti quelli che si chiedono se il faro americano ancora illumini bene – stanotte vi proviamo ancora una volta che la vera forza della nostra nazione non viene dalla potenza del nostro esercito o dalla scala del nostro benessere, ma dal potere duraturo dei nostri ideali: democrazia, libertà, opportunità e speranza inflessibile.
Perché questo è il vero ingegno dell’America – che l’America può cambiare. La nostra unione può essere perfetta. E quello che noi abbiamo già raggiunto ci dà speranza per quello che noi possiamo e dobbiamo raggiungere domani.
Questa elezione ha avuto molti inizi e molte storie che potranno essere raccontate per generazioni. Ma una che ho in mente è su una donna che ha votato ad Atlanta. Lei è come milioni di altre persone che hanno fatto la fila per far sentire la propria voce in questa elezione, con una sola differenza – Ann Nixon Cooper ha 106 anni.
È nata solo una generazione dopo la schiavitù; un tempo in cui non c’erano macchine sulle strade o aerei nel cielo; quando qualcuno come lei non poteva votare per due ragioni – perché era una donna e causa del colore della sua pelle.
E stanotte, penso anche a tutto quello che lei ha visto attraversando un secolo di storia americana – la pena e la speranza; la battaglia e il progresso; i tempi in cui ci veniva detto che non potevamo, e la gente che è andata avanti con il credo americano: sì, noi possiamo.
Un tempo in cui le voci delle donne erano zittite e le loro speranze ignorate, lei ha vissuto per vederle alzarsi in piedi e parlare e andare a votare. Sì, noi possiamo.
Quando c’era la disperazione nel profondo sud (nel profondo sud del Texas, ndt) e la depressione attraversava la nazione, lei ha visto una nazione conquistare la paura stessa con un New Deal, nuovi lavori e un nuovo senso di scopo comune. Sì noi possiamo.
Quando le bombe sono cadute nel nostro porto e la tirannia ha minacciato il mondo, lei era lì per testimoniare una generazione in crescita verso una grandezza e una democrazia che ci ha salvati. Sì, noi possiamo.
Lei era per gli autobus a Montgomery, gli idranti a Birmingham, un ponte a Selma, e un predicatore di Atlanta che ha detto alla gente che “noi vinceremo”. Sì noi possiamo.
Un uomo che cammina sulla luna, un muro che cade a Berlino, un mondo che è collegato dalla nostra scienza e dalla nostra immaginazione. E questo anno, in questa elezione, lei ha toccato uno schermo con un dito, e dato il suo voto, perché dopo 106 anni in America, attraverso i nostri tempi migliori e le ore più buie, lei sa che l’America può cambiare. Sì noi possiamo.
America, siamo arrivati così lontano. Noi abbiamo visto così tanto. Ma c’è ancora tanto da fare. Così stanotte, chiediamoci tutti – se i nostri figli dovessero vivere per vedere il prossimo secolo; se le mie figlie potessero essere così fortunate da vive tanto a lungo quanto Ann Nixon Cooper, che cambiamento vedranno? Che progressi noi avremo compiuto?
Questa è la nostra possibilità di rispondere a quella chiamata. Questo è il nostro momento. Questo è il nostro tempo – per mettere le nostre persone al lavoro e aprire le porte delle opportunità ai nostri bambini; per ristabilire la prosperità e promuovere la causa della pace; per recuperare il sogno americano e riaffermare quella verità fondamentale – che su tanti, siamo uno; che mentre noi respiriamo, noi speriamo, e dove ci scontriamo con il cinismo, e il dubbio, e coloro che ci dicono che noi non possiamo, noi rispondiamo con quel credo senza tempo che raccoglie lo spirito della nostra gente: Sì noi possiamo. Grazie, Dio vi benedica, e possa Dio benedire gli Stati uniti d’America.