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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

giovedì 29 gennaio 2009

Un grido accorato

di Angelo Bertani/giornalista da "Evangelizzare" - Gennaio 2009 (evangelizzare at dehoniane.it). Un "grido accorato" per dire che pensare, riflettere, cercare di discernere, obiettare, lasciare uscire flebili voci critiche, non significa "non amare la Chiesa"... Oggi chi non la ama la lascia! Vuol dire piuttosto avere nostalgia di un sogno coltivato per tanti anni, per molti sono tutti gli anni della giovinezza e della maturità, un sogno suscitato dal Concilio e dagli anni che ne sono seguiti, dove si ricercava la perenne esaltante novità del Vangelo anche nella pesante staticità di talune istituzioni che vi sono germinate, un sogno dove la Chiesa non appariva più come un'arida e dura "custode" di una verità che non può essere "posseduta" da nessuno, ma solo quotidianamente ricercata con amore e umiltà sentendosi mai "padroni" del frammento di verità intuito e raggiunto per dono, ma sentendoci sempre, tutti e con tutti, "cercatori di Dio".

Non riesco a capire, sinceramente, se coloro che portano nella Chiesa le maggiori responsabilità (la gerarchia anzitutto, ma anche una ristretta cerchia di laici che hanno in mano le chiavi della finanza, dell’informazione e di un certo tipo di “cultura” cattolica) abbiano una percezione realistica della delusione, e dei severi giudizi che sono ormai molto diffusi tra i credenti, soprattutto fra quelli che un tempo si sarebbero chiamati “impegnati”. E non si tratta di una divisione, di un’incomprensione che riguardi soprattutto i temi teologici o politici; non é prevalente questione di destra o sinistra, di tradizione o di novità. Il punto riguarda essenzialmente 1a percezione che si ha dell’«essere Chiesa» e dunque, più in radice, del rapporto con Dio, della natura della relazione fra gli uomini, della centralità assoluta dell’amore come misura rispetto a tutti gli altri valori.

Mistero di comunione o pura organizzazione?
Ma fermiamoci oggi alla coscienza dell’essere Chiesa. Semplificando direi che molti oggi condividono l’allarme che padre Bevilacqua (l’amico e maestro di Paolo VI) esprimeva nei primi anni cinquanta nel suo “Equivoci. Mondo moderno e Cristo”: la Chiesa rischia di trasformarsi da mistero di comunione e di salvezza, da “piccolo resto” di poveri che ripongono in Gesù di Nazareth la speranza della loro salvezza, in superorganizzazione mondana che ripone la sua fiducia nei mezzi materiali, nella superorganizzazione clericale, “volontà di dominio investe sacrale”. Ma tanti altri profeti della nostra Chiesa (Mazzolari, Turoldo, Milani, ma anche preti e vescovi e tanti laici) in questi decenni hanno levato la loro voce per denunciare questo rischio; e con grande gioia hanno accolto lo stile e lo spirito del Concilio.

Impegno o rassegnazione?
Vorrei citare una voce estremamente equilibrata, libera e limpida, che afferma: «Guardando alla realtà dei laici che sono impegnati nella vita delle comunità parrocchiali e nelle strutture della pastorale, non si può non notare il crescere di un disagio, che si manifesta in diverse forme [...]. Su tutto, mi pare che prevalga un senso di rassegnazione. Lo stile del servizio di molti laici risulta mortificato e compromesso. La qualità della presenza laicale è collaborativa, ma esecutiva; tranquilla, ma spenta… La partecipazione sostituisce la corresponsabilità; l’operatività, il servizio; il quieto vivere, la comunione. E questo, che per molti costituisce motivo di sofferenza, da altri viene accettato senza troppe domande e contribuisce ad allargare lo spazio di quel laicato la cui mentalità è omologata a un sentire ecclesiale chiuso e un po’ ripiegato. Il disagio dei laici nasce dal riconoscimento che la propria presenza nella comunità viene desiderata in quanto necessaria a mandare avanti le attività, ma sopportata e messa in discussione quando diventa l’offerta di un punto di vista diverso sulla realtà. La presenza di un laicato che si pone con inquietudine domande sulle forme della missione della Chiesa viene guardata con diffidenza - e non solo dai preti - e non serve ad aprire nuovi spazi di dialogo, di interpretazione, di comunicazione con la realtà. Il disagio dei laici in genere non si esprime in forme polemiche, conflittuali, o rivendicative, ma in quelle più pericolose della rinuncia» (Paola Bignardi, Esiste ancora il laicato?, pp. 30-31). Questa citazione mi sembra di straordinaria importanza perché rappresenta la voce di chi si è impegnato senza risparmi dalla mattina alla sera, in piena fedeltà e collaborazione con la Gerarchia. Non parla certo per spirito polemico: dice queste cose perché, come direbbe don Milani (nella famosa lettera a Pistelli), “tacere non è rispetto”.

Modello “radiale” o fraternità?
Ecco il punto: tacere non è rispetto. I laici che non dicono ad alta voce quello che pensano non sono fedeli alla loro vocazione. E non lo sono neppure i vescovi che non fanno tutto il possibile affinché i laici (e non parliamo dei religiosi e delle religiose, che hanno molte e forti cose da dire!) parlino tra loro e con la gerarchia, a tutti i livelli.
Prevale oggi un modello ecclesiale che chiamerei “radiale”: laici, associazioni, movimenti, diocesi, organizzazioni, giornali… Tutti si sentono ecclesiali per il solo fatto di avere un rapporto diretto con l’autorità, la gerarchia; ciascuno direttamente, per conto suo amministra questo mandato, di delega, di coordinamento. Talora il rapporto è davvero di fiducia, ma non sempre. Spesso è solo di operatività, di efficienza (per dire così). Ognuno ha il suo rapporto operativo con gli uffici della “organizzazione”, riceve la sua parte di finanziamenti (quanto centralismo e quanta cattiva superorganizzazione è nata dai troppi soldi dell’otto per mille!).
In risposta a ciò stanno nascendo altri minicircuiti di collegamento. Presso i monasteri, tra amici, con bollettini o tramite siti internet si creano reti per scambiarsi esperienze ecclesiali, per realizzare incontri, per valutare la situazione ecclesiale, per incoraggiarsi… Certo non c’è più la speranza un po’ utopistica degli anni sessanta che faceva sognare una Chiesa comunità di comunità, di piccoli gruppi… però ce ne sono ancora molti e cercano un legame di sintonia profonda, di fraternità umile e disarmata.

Centralismo o partecipazione?
Fino a pochi anni fa c’era la speranza che la linea indicata dal Concilio potesse tenere assieme non solo nell’unità del Mistero, ma anche nella visibilità della fraternità evangelica, tutte le varie forme e ricerche di vita cristiana. Si pensava che le consulte dei laici, le commissioni, le assemblee diocesane, i consigli pastorali dalle parrocchie al livello nazionale, le esperienze di comunione intorno alla Parola, ai temi pastorali più urgenti, alle sfide stesse della giustizia sociale, della cultura, dell’incontro coi giovani e con gli immigrati… Si pensava che una gran rete di comunicazione, di incontro e dialogo potesse trasformare la Chiesa italiana in una grande comunità articolata e fervente nella carità.
Non c’è bisogno di dire che tutto ciò non è nato; e quando c’era è stato spento da un centralismo autoritario a tutto interessato tranne che al dialogo. Trenta o quarant’anni fa i laici partecipavano a tutti i livelli alle attività della Conferenza episcopale, la stampa cattolica era vivace e pluralista, tra organizzazioni, associazioni e movimenti c’erano incontri continui, favoriti ma non dominati dalla presenza episcopale. I laici organizzati e quelli che partecipavano anche a organismi della Cei potevano prendere posizioni responsabili, intelligenti e incisive. L’università cattolica di Lazzati promuoveva convegni estivi di grande vivacità e livello. Adesso è stata cancellata persino la commissione Giustizia e Pace, le Settimane sociali sono poco vivaci e lo stesso Convegno ecclesiale che si tiene… ogni dieci anni (!) è sempre meno significativo; della Consulta dei laici non si sente neppure parlare, ad associazioni e movimenti significativi è stato messo il silenziatore, i consigli pastorali languiscono in molte diocesi e non è stato creato un organismo nazionale.
Certo le responsabilità sono di tutti; anche dello spirito un po’ settario di alcuni, anche della pigrizia di molti, anche degli interessi di pochi; anche del troppo potere di uomini di scarso valore. Soprattutto c’è stata una drammatica insufficienza culturale, la mancata percezione della crisi culturale che attraversiamo e che si riassume in una parola: non c’è nessun capo, nessun comitato ristretto che abbia l’intelligenza, la fede, le idee, la credibilità per leggere la realtà del Vangelo nell’oggi.

mercoledì 28 gennaio 2009

Vale un articolo!

Parole da bandire

Riprendo dal sempre interessante blog UNUM MULTIPLEX - a cura di Pasquale Ferrara - un importante dizionario da cancellare dal nostro linguaggio, non per ragioni di forma ma di sostanza di idee e di considerazioni. Purtroppo è un linguaggio che a volte è usato non solo da giornalisti e politici, ma anche in talune omelie o interventi di uomini di chiesa.

CLANDESTINO
Questo termine, molto usato dai media italiani, ha un'accezione fortemente negativa. Evoca segretezza, vite condotte nell'ombra, legami con la criminalità. Viene correntemente utilizzato per indicare persone straniere che per varie ragioni non sono in regola, in tutto o in parte, con le norme nazionali sui permessi di soggiorno, per quanto vivano alla luce del sole, lavorino, conducano esistenze "normali". Sono così definite "clandestine" persone che non sono riuscite ad ottenere il permesso di soggiorno (magari perché escluse da quote d'ingresso troppo basse) o a rinnovarlo, altre che sono entrate in Italia con un visto turistico poi scaduto, altre ancora - ed è il caso meno frequente - che hanno evitato sia il visto turistico sia le procedure (farraginose e poco praticabili per ammissione generale) previste per ottenere nei paesi d'origine il visto d'ingresso in Italia. Spesso sono considerati "clandestini" anche i profughi intenzionati a richiedere asilo o in attesa di una risposta alla loro richiesta, oppure ancora sfollati in fuga da guerre o disastri naturali. E' possibile identificare ogni situazione con il termine più appropriato ed evitare SEMPRE di usare una definizione altamente stigmatizzante come "clandestino".
Alternative
All'estero si parla di "sans papiers" (Francia), "non-documented migrant workers" (definizione suggerita dalle Nazioni Unite) e così via. A seconda dei casi, e avendo cura che l'utilizzo sia il più appropriato, è possibile usare parole come "irregolari", "rifugiati", "richiedenti asilo". Sono sempre disponibili e spesso preferibili le parole più semplici e più neutre: "persone", "migranti", "lavoratori". Altre locuzioni come "senza documenti", o "senza carte", o "sans papiers" definiscono un'infrazione amministrativa ed evitano di suscitare immagini negative e stigmatizzanti.

EXTRACOMUNITARIO
Letteralmente dovrebbe indicare cittadini di paesi esterni all'Unione europea, ma questo termine non è mai stato usato per statunitensi, svizzeri, australiani o cittadini di stati "ricchi"; ha finito così per indicare e stigmatizzare persone provenienti da paesi poveri, enfatizzando l'estraneità all'Italia e all'Europa rispetto ad ogni altro elemento (il prefisso "extra" esprime un'esclusione). Ha assunto quindi una connotazione dequalificante, oltre ad essere poco corretto sul piano letterale.
Alternative
E' possibile usare “non comunitario” per tutte le nazionalità non Ue, o fare riferimento - quando necessario (spesso la nazionalità viene specificata anche quando è superflua, specie nei titoli) - al paese di provenienza.

VU CUMPRA'
E' un'espressione che storpia l'italiano "Vuoi comprare" ed è usata da anni per definire lavoratori stranieri, specialmente africani, che esercitano il commercio ambulante. E' una locuzione irrispettosa delle persone alle quali si riferisce e stigmatizzante, oltre che inutile sul piano lessicale.
Alternative
E' possibile usare i termini "ambulante", "venditore".

NOMADE (e CAMPI NOMADI)
Il nomadismo, nelle popolazioni rom e sinte, è nettamente minoritario, eppure il termine nomade è continuamente utilizzato come sinonimo di rom e sinti. Un effetto perverso di questo uso scorretto, è la derivazione "campi nomadi", che fa pensare a luoghi adatti a gruppi umani che si spostano continuamente e quindi a una forma d'insediamento tipica di quelle popolazioni e in qualche modo "necessaria". Non è così. In Europa l'Italia è conosciuta come "il paese dei campi" per le sue politiche di segregazione territoriale; solo una piccola parte dei sinti e dei rom residenti in Italia non sono sedentari. Parlare di nomadi e campi nomadi è quindi improprio e fuorviante, ha esiti discriminatori nella percezione comune e "conferma" una serie di pregiudizi diffusi in particolare nella società italiana.
Alternative
I termini più corretti sono rom e sinti, a seconda dei casi (sono due "popoli" diversi), e in aggiunta alla eventuale nazionalità. Al posto di "campi nomadi" è corretto utilizzare, a seconda degli specifici casi, i termini "campi", "campi rom/campi sinti" (gran parte dei rom venuti dalla ex Jugoslavia sono fuggiti da guerre e persecuzioni).

ZINGARI
E' un termine antico, diffuso con alcune varianti in tutta Europa, ma ha assunto una connotazione sempre più negativa ed è ormai respinto dalle popolazioni rom, sinte, etc. E' spesso percepito come sinonimo di "nomadi" e conduce agli stessi effetti distorsivi e discriminatori.
Alternative
Rom, sinti

martedì 20 gennaio 2009

Meditazione per il Giorno della Memoria

In piena sintonia...



«Hai fatto una strage di bambini e hai dato la colpa ai loro genitori dicendo che li hanno usati come scudi. Non so pensare a nulla di più infame (…) li hai chiusi ermeticamente in un territorio, e hai iniziato ad ammazzarli con le armi più sofisticate, carri armati indistruttibili, elicotteri avveniristici, rischiarando di notte il cielo come se fosse giorno, per colpirli meglio. Ma 688 morti palestinesi e 4 israeliani non sono una vittoria, sono una sconfitta per te e per l'umanità intera».
(Stefano Nahmad, la cui famiglia ha subito le persecuzioni naziste)


Insegno in una scuola serale per lavoratori, in gran parte stranieri. E' un ottimo osservatorio per capire quel che accade nel mondo.
L'anno scorso, avvicinandosi il giorno della memoria che ogni anno si celebra nelle scuole, leggemmo brani dal libro Se questo è un uomo di Primo Levi. A-vevamo parlato molto della questione ebraica, e della storia del popolo ebreo dalle epoche lontane al ventesimo secolo. Proposi che tutti scrivessero un bre-ve testo sugli argomenti di cui avevamo parlato.
Claude D, un ragazzo senegalese di circa venti anni, piuttosto pigro ma dotato di vivacissima intelligenza concluse il suo lavoro con queste parole: "Ogni an-no si fanno delle cerimonie per ricordare lo sterminio degli ebrei, ma gli ebrei non sono i soli che hanno subito violenza. Perché ogni anno dobbiamo stare lì a sentire i loro pianti quando altri popoli sono stati ammazzati ugualmente e nessuno se ne preoccupa?". Questa frase mi colpì, e decisi di proporla alla discussione della classe, in cui oltre Claude c'erano cinque italiani due marocchini un peruviano una brasiliana, un somalo, due ragazze romene una ucraina e due russi. L'opinione di Claude era quella di tutti. Sia ben chiaro: nessuno mise in dubbio la verità storica dell'Olocausto, neppure Yassin, un ragazzo marocchino appassionato alla causa palestinese e sempre pronto a criticare con durezza Israele. Tutti avevano seguito con attenzione e partecipazione la lettura delle pagine di Primo Levi. Però tutti mi chiedevano: perché non si fanno cerimonie pubbliche dedicate allo sterminio dei rom, dei pellerossa, o allo sterminio in corso dei palestinesi? Claude a un certo punto uscì fuori con una frase che non potevo contestare: perché nessuno ha pensato a un giorno della memoria dedicato all'olocausto africano? Pensai ai milioni di suoi antenati deportati da negrieri schiavisti, pensai all'irreparabile danno che questo ha prodotto nella vita dei popoli del golfo d'Africa occidentale, e conclusi il discorso in maniera che a tutti apparve risolutiva (vorrei quasi dire salomonica): "Nel giorno della memoria si ricorda l'Olocausto ebraico perché attraverso questo sacrificio si ricordano tutti gli Olocausti sofferti dai popoli di tutta la terra."
Ammesso che la parola "identità" significhi qualcosa, e non lo credo, per me l'identità non è definita dal sangue e dalla terra, blut und boden come dicono i romantici tedeschi, ma dalle nostre letture, dalla formazione culturale e dalle nostre mutevoli scelte. Perciò io affermo di essere ebreo. Non solo perché ho sempre avuto un interesse fortissimo per le questioni storiche e filosofiche po-ste dall'ebraismo della diaspora, non solo perché ho letto con passione Isaac Basheevis Singer e Abraham Jehoshua, Gerhom Sholem, Akiva Orr, Else Lasker Shule e Daniel Lindenberg, ma soprattutto perché mi sono sempre identificato
profondamente con ciò che definisce l'essenza culturale dell'ebraismo diasporico. Nell'epoca moderna gli ebrei sono stati perseguitati perché portatori della Ragione senza appartenenza. Essi sono l'archetipo della figura moderna dell'intellettuale. Intellettuale è colui che non compie scelte per ragioni di appartenenza, ma per ragioni universali. Gli ebrei, proprio perché la storia ha fatto di loro degli apatridi, hanno avuto un ruolo fondamentale nella costruzione della figura moderna dell'intellettuale ed hanno avuto un ruolo fondamentale nella formazione dell'Illuminismo e della laicità, e anche dell'internazionalismo socialista. Come scrive Singer, nelle ultime pagine del suo Meshugah. "La libertà di scelta è strettamente individuale. Due persone insieme hanno meno libertà di scelta di quanto ne abbia una sola, le masse non hanno virtualmente nessuna possibilità di scelta." Per questo io sono ebreo, perché non credo che la libertà stia nell'appartenenza, ma solamente nella singolarità. So bene che nel ventesimo secolo gli ebrei sono stati condotti dalla forza della catastrofe che li ha colpiti, a identificarsi come popolo, a cercare una terra nella quale costituirsi come stato: stato ebraico. E' il paradosso dell'identificazione. I nazisti costrinsero un popolo che aveva fatto della libertà individuale il valore supremo ad accettare l'identificazione, la logica di appartenenza e perfino a costruire uno stato confessionale che contraddice le premesse ideologiche che proprio il contributo dell'ebraismo diasporico ha introdotto nella cultura europea.

In Storia di amore e di tenebra scrive Amos Oz: "Mio zio era un europeo con-sapevole, in un'epoca in cui nessuno in Europa si sentiva ancora europeo a parte i membri della mia famiglia e altri ebrei come loro. Tutti gli altri erano panslavi, pangermanici, o semplicemente patrioti lituani, bulgari, irlandesi slo-vacchi. Gli unici europei di tutta l'Europa, negli anni venti e trenta, erano gli ebrei. In Jugoslavia c'erano i serbi i croati e i montenegrini, ma anche lì vive una manciata di jugoslavi smaccati, e persino con Stalin ci sono russi e ucraini e uzbeki e ceceni, ma fra tutti vivono anche dei nostri fratelli, membri del po-polo sovietico."
Il mio punto di vista sulla questione mediorientale è sempre stato lontano da quello dei nazionalisti arabi. Avrei mai potuto sposare una visione nutrita di autoritarismo e di fascismo? E oggi potrei forse sposare il punto di vista dell'integralismo religioso che pervade la rabbia dei popoli arabi e purtroppo ha infettato anche il popolo palestinese nonostante la sua tradizione di laicismo? Proprio perché non ho mai creduto nel principio identitario non ho mai provato
particolare affezione per l'idea di uno stato palestinese. I palestinesi sono stati costretti all'identificazione nazionale dall'aggressione israeliana che dal 1948 in poi si è manifestata in maniera brutale come espulsione fisica degli abitanti delle città, come cacciata delle famiglie dalle loro abitazioni, come espropria-zione delle loro terre, come distruzione della loro cultura e dei loro affetti. "Due popoli due stati" é una formula che sancisce una disfatta culturale ed etica, perché contraddice l'idea - profondamente ebraica - secondo cui non esistono popoli, ma individui che scelgono di associarsi. E soprattutto contraddice il principio secondo cui gli stati non possono essere fondati sull'identità, sul sangue e sulla terra, ma debbono essere fondati sulla costituzione, sulla volontà di una maggioranza mutevole, cioè sulla democrazia.
Pur avendo un interesse intenso per l'intreccio di questioni che la storia ebraica passata e recente pone al pensiero, non ho mai scritto su questo argomento neppure quando l'assedio di Betlemme o il massacro di Jenin o l'orribile violenza simbolica compiuta da Sharon nel settembre del 2000 o i bombardamenti criminali dell'estate 2006 provocavano in me la stessa ribellione e lo stesso orrore che provocavano gli attentati islamici di Gerusalemme o di Netanja o gli omicidi casuali di cittadini israeliani provocati dal lancio di razzi Qassam.
Non ho mai scritto nulla, (mi dispiace doverlo dire), perché avevo paura. Come ho paura adesso, non lo nascondo. Paura di essere accusato di una colpa che considero ripugnante - l'antisemitismo. So di poter essere accusato di antisemitismo a causa della convinzione, maturata attraverso la lettura dei testi di Avi Shlaim, e di cento altri studiosi in gran parte ebrei, che il sionismo, discutibile nelle sue scelte originarie, si è evoluto come una mostruosità politica. Pur avendo paura non posso però più tacere dopo aver discusso con lo
studente Claude. Considero il sionismo causa di infinite ingiustizie e sofferenze per il popolo palestinese, ma soprattutto lo considero causa di un pericolo mortale per il popolo ebraico. A causa della violenza sistematica che il sionismo ha scatenato negli ultimi sessant'anni, la bestia antisemita sta riemergendo, e sta diventando maggioritaria se non nel discorso pubblico nel subconscio collettivo.
Dato che non è possibile affermare a viso aperto che il sionismo è una politica sbagliata che produce effetti criminali, molti non lo dicono, ma non possono impedirsi di pensarlo.
Aprendo la discussione sulle parole dello studente Claude, ho scoperto che gli altri studenti, italiani e marocchini, romeni e peruviani, che pure nel loro svol-gimento avevano trattato la questione secondo gli stilemi politicamente corretti, costretti ad approfondire il ragionamento e a far emergere il loro vero sentimento, finivano per identificare il sionismo con il popolo ebraico e quindi a ripercorrere la strada che conduce verso l'antisemitismo. Considerando criminale e arrogante il comportamento dello stato di Israele, identificandosi spontaneamente con il popolo palestinese vittimizzato, finivano inconsapevolmente per riattivare l'antico riflesso anti-ebraico.
Proprio la rimozione e il conformismo che si coltivano nel giorno della memoria stanno producendo nel subconscio collettivo un profondo antisemitismo che non si confessa e non si esprime. Perciò credo che occorra liberarsi della rimozione e denunciare il pericolo che il sionismo aggressivo rappresenta soprattutto per il popolo ebraico.
Trasformare la questione ebraica in un tabù del quale è impossibile parlare senza incorrere nella stigmatizzazione benpensante sarebbe (anzi è già) la condizione migliore per il fiorire dell'antisemitismo.
Si avvicina il 27 gennaio, che sarà anche quest'anno il giorno della memoria. Come potrò parlarne nella classe in cui insegno quest'anno? Non c'è più Clau-de, ma ci sono altri ragazzi africani e arabi e slavi ai quali non potrò parlare dell'immane violenza che colpì il popolo ebraico negli anni Quaranta senza riferirmi all'immane violenza che colpisce oggi il popolo palestinese. Se tacessi questo riferimento apparirei loro un ipocrita, perché essi sanno quel che sta accadendo. E come potrò tacere le analogie tra l'assedio di Gaza e l'assedio del Ghetto di Varsavia del quale abbiamo parlato recentemente? E' vero che gli ebrei uccisi nel ghetto di Varsavia nel 1943 furono 58.000 mentre i morti palestinesi sono per il momento solo mille. Ma come dice Woody Allen i record sono fatti per essere battuti. La logica che ha preparato la ghettizzazione di Gaza (che un cardinale cattolico ha definito "campo di concentramento") non è forse simile a quella che guidò la ghettizzazione degli ebrei di Varsavia? Non vennero forse gli ebrei di Varsavia costretti ad ammassarsi in uno spazio ristretto che divenne in poco tempo un formicaio? Non venne forse costruito intorno a loro un muro di cinta della lunghezza di 17 chilometri di tre metri di altezza esattamente come quello che Israele ha costruito per rinchiudere i palestinesi? Non venne agli ebrei polacchi impedito di uscire dai valichi che erano controllati da posti di blocco militari? Per motivare la loro aggressione che uccide quotidianamente centinaia di bambini e di donne, i dirigenti politici israeliani denunciano i missili Qassam che in otto anni hanno causato dieci morti (tanti quanti l'aviazione israeliana uccide in mezz'ora). E' vero: è terribile, è inaccettabile che il terrorismo di Hamas colpisca la popolazione civile di Israele. Ma questo giustifica forse lo sterminio di un popolo? Giustifica il terrore indiscriminato, la distruzione di una città? Anche gli ebrei di Varsavia usarono pistole, bombe a mano, bottiglie molotov e perfino un mitra per opporsi agli invasori. Armi del tutto inadeguate, come lo sono i razzi Qassam. Eppure nessuno può condannare la difesa disperata degli ebrei di Varsavia.
Cosa posso dire, dunque, nel giorno della memoria? Dirò che occorre ricordare tutte le vittime del razzismo, quelle di ieri e quelle di oggi. O questo può valermi l'accusa di antisemitismo? Se qualcuno vuole accusarmi a questo punto non mi fa più paura. Sono stanco di impedirmi di parlare e quasi perfino di pensare ciò che appare ogni giorno più evidente: che il sionismo aggressivo, oltre ad aver portato la guerra e la morte e la devastazione al popolo palestinese, ha stravolto la stessa memoria ebraica fino al punto che nelle caserme israeliane sono state trovate delle svastiche, e fino al punto che cittadini israeliani bellicisti hanno recentemente insultato cittadini israeliani pacifisti con le parole "con voi Hitler avrebbe dovuto finire il suo lavoro".
Proprio dal punto di vista del popolo ebraico il sionismo aggressivo può divenire un pericolo mortale. L'orrenda carneficina che Israele sta mettendo in scena nella striscia di Gaza, come i bombardamenti della popolazione di Beirut due anni fa, sono segno di demenza suicida. Israele ha vinto tutte le guerre dei passati sessant'anni e può vincere anche questa guerra contro una popolazione disarmata. Ma la lezione che ne ricavano centinaia di milioni di giovani islamici
che assistono ogni sera allo sterminio dei loro fratelli palestinesi è destinata a far sorgere un nuovo nazismo.
Israele può sconfiggere militarmente Hamas. Può vincere un'altra guerra come ha vinto quelle del 1948 del 1967 e del 1973. Può vincere due guerre tre guerre dieci guerre. Ma ogni sua vittoria estende il fronte dei disperati, il fronte dei terrorizzati che divengono terroristi perché non hanno alcuna alternativa. Ogni sua vittoria approfondisce il solco che separa il popolo ebraico da un miliardo e duecentomilioni di islamici. E siccome nessuna potenza militare può
mantenere in eterno la supremazia della forza, i dirigenti sionisti aggressivi dovrebbero sapere che un giorno o l'altro l'odio accumulato può dotarsi di una forza militare superiore, e può scatenarla senza pietà, come senza pietà oggi si scatena l'odio israeliano contro la popolazione indifesa di Gaza.

Franco Berardi

Israele parli anche con Hamas (David Grossman)

Ho in più occasioni, anche in questo blog, espresso una mia personale valutazione su come andrebbe affrontata la "questione Hamas" per favorire un suo - ritengo possibile - ricupero alla piena democrazia, al dialogo con tutti e prima di tutto al dialogo con gli altri Palestinesi. Quanto accaduto nelle settimane scorse a Gaza ritengo possa aver portato molti suoi esponenti a valutare l'enormità del danno subito dal popolo palestinese dalla frattura che si è creata al suo interno, all'interno delle sue strutture "di potere", che se possono trovare spazio altrove, lì, dove l'unico potere è quello dell'esercito israeliano, sono un totale non senso e una divisione tragica. Ciò non toglie che sia semplicistico fotografare la poliedrica realtà di Hamas, sempre nel guado tra terrorismo e lotta di liberazione, come organizzazione terroristica. So bene che è una posizione solitaria, questa, tra chi conta condivisa dal solo ex ministro degli Esteri D'Alema. Un amico mi ha scritto recentemente: "Caro Walter, come spesso mi accade, sono colpito, da quanto scrivi; ma chiariscimi almeno su di un punto: perché nello Statuto di Hamas, e dunque non solo nelle sue componenti terroristiche, si esclude, programmaticamente, l’esistenza dello Stato di Israele?". Ho così risposto: "Perchè il ragionamento, che non è solo di Hamas, è questo: perchè io devo riconoscere lo Stato di Israele, quando Israele non vuole riconoscere il mio? E fa di tutto da 60 per impedire che nasca uno Stato palestinese? Non dimenticare che nel 1948 lo Stato d'Israele e lo Stato Palestinese, secondo il piano dell'ONU avrebbero dovuto nascere insieme il 1 ottobre, ma gli israeliani l'hanno unilateralmente proclamato in maggio, sostanzialmente con una guerra. E di fatto aiutati dall'intervento delle nazioni arabe, che in realtà non sono mai state davvero interessate ai palestinesi come tali, ma piuttosto ai loro interessi, alle loro finalità interne, alle loro mire espansionistiche (del resto i confini dei loro Stati erano stati tracciati col righello dagli inglesi e dalle Nazioni...). Da allora tutte le scelte israeliane hanno sempre avuto la caratteristica dell'unilateralità, anche in presenza di Accordi come quelli di Oslo. E l'occupazione militare quarantennale, gli insediamenti dei coloni (400.000) e il Muro, dicono della volontà di Israele di impedire la nascita dello Stato palestinese. Come dar torto alla critica di Hamas in queste condizioni? Il cambiamento radicale delle condizioni farebbe cadere anche questo articolo dello Statuto, perchè la maggioranza di chi ha votato Hamas e di chi è stato eletto con Hamas vuole vivere in pace, anche con Israele! Del resto anche nello Statuto del PCI c'erano affermazioni a riguardo della religione che non hanno mai impedito a tanti suoi membri di essere credenti e praticanti!".
Sul sito http://www.repubblica.it compare oggi l'articolo di David Grossman, che non certo bisogno di presentazione, che come sempre esprime un'altro modo di essere e di pensare da israeliani. Purtroppo è ancora solo il pensiero di una élite, ma è comunque un germe di speranza.
A chi continua a parlare di due popoli due stati, l'unica proposta pensato oggi come realistica, consiglio di guardare con realismo la carta della Palestina, di quello che dovrebbe essere lo Stato Palestinese, pubblicata più sotto con il titolo "Più che le parole...". Se questo è il realismo!?


Come le volpi del racconto biblico di Sansone, legate per la coda a un'unica torcia in fiamme, così noi e i palestinesi ci trasciniamo l'un l'altro, malgrado la disparità delle nostre forze. E anche quando tentiamo di staccarci non facciamo che attizzare il fuoco di chi è legato a noi - il nostro doppio, la nostra tragedia - e il fuoco che brucia noi stessi. Per questo, in mezzo all'esaltazione nazionalista che travolge oggi Israele, non guasterebbe ricordare che anche quest'ultima operazione a Gaza, in fin dei conti, non è che una tappa lungo un cammino di violenza e di odio in cui talvolta si vince e talaltra si perde ma che, in ultimo, ci condurrà alla rovina.
Assieme al senso di soddisfazione per il riscatto dello smacco subito da Israele nella seconda guerra del Libano faremmo meglio ad ascoltare la voce che ci dice che il successo di Tsahal su Hamas non è la prova decisiva che lo Stato ebraico ha avuto ragione a scatenare una simile offensiva militare, e di certo non giustifica il modo in cui ha agito nel corso di questa offensiva. Tale successo prova unicamente che Israele è molto più forte di Hamas e che, all'occasione, può mostrarsi, a modo suo, inflessibile e brutale.
Allo stesso modo il successo dell'operazione non ha risolto le cause che l'hanno scatenata. Israele tiene ancora sotto controllo la maggior parte del territorio palestinese e non si dichiara pronto a rinunciare all'occupazione e alle colonie. Hamas continua a rifiutare di riconoscere l'esistenza dello Stato ebraico e, così facendo, ostacola una reale possibilità di dialogo. L'offensiva di Gaza non ha permesso di compiere nessun passo verso un vero superamento di questi ostacoli. Al contrario: i morti e la devastazione causati da Israele ci garantiscono che un'altra generazione di palestinesi crescerà nell'odio e nella sete di vendetta. Il fanatismo di Hamas, responsabile di aver valutato male il rapporto di forza con Tsahal, sarà esacerbato dalla sconfitta, intaserà i canali del dialogo e comprometterà la sua capacità di servire i veri interessi palestinesi.
Ma quando l'operazione sarà conclusa e le dimensioni della tragedia saranno sotto gli occhi di tutti (al punto che, forse, per un breve istante, anche i sofisticati meccanismi di autogiustificazione e di rimozione in atto oggi in Israele verranno accantonati), allora anche la coscienza israeliana apprenderà una lezione. Forse capiremo finalmente che nel nostro comportamento c'è qualcosa di profondamente sbagliato, di immorale, di poco saggio, che rinfocola la fiamma che, di volta in volta, ci consuma.
È naturale che i palestinesi non possano essere sollevati dalla responsabilità dei loro errori, dei loro crimini. Un atteggiamento simile da parte nostra sottintenderebbe un disprezzo e un senso di superiorità nei loro confronti, come se non fossero adulti coscienti delle proprie azioni e dei propri sbagli. È indubbio che la popolazione di Gaza sia stata "strozzata" da Israele ma aveva a sua disposizione molte vie per protestare e manifestare il suo disagio oltre a quella di lanciare migliaia di razzi su civili innocenti. Questo non va dimenticato. Non possiamo perdonare i palestinesi, trattarli con clemenza come se fosse logico che, nei momenti di difficoltà, il loro unico modo di reagire, quasi automatico, sia il ricorso alla violenza.
Ma anche quando i palestinesi si comportano con cieca aggressività - con attentati suicidi e lanci di Qassam - Israele rimane molto più forte di loro e ha ancora la possibilità di influenzare enormemente il livello di violenza nella regione, di minimizzarlo, di cercare di annullarlo. La recente offensiva non mostra però che qualcuno dei nostri vertici politici abbia consapevolmente, e responsabilmente, afferrato questo punto critico.
Arriverà il giorno in cui cercheremo di curare le ferite che abbiamo procurato oggi. Ma quel giorno arriverà davvero se non capiremo che la forza militare non può essere lo strumento con cui spianare la nostra strada dinanzi al popolo arabo? Arriverà se non assimileremo il significato della responsabilità che gli articolati legami e i rapporti che avevamo in passato, e che avremo in futuro, con i palestinesi della Cisgiordania, della striscia di Gaza, della Galilea, ci impongono?
Quando il variopinto fumo dei proclami di vittoria dei politici si dissolverà, quando finalmente comprenderemo il divario tra i risultati ottenuti e ciò che ci serve veramente per condurre un'esistenza normale in questa regione, quando ammetteremo che un intero Stato si è smaniosamente autoipnotizzato perché aveva un estremo bisogno di credere che Gaza avrebbe curato la ferita del Libano, forse pareggeremo i conti con chi, di volta in volta, incita l'opinione pubblica israeliana all'arroganza e al compiacimento nell'uso delle armi. Chi ci insegna, da anni, a disprezzare la fede nella pace, nella speranza di un cambiamento nei rapporti con gli arabi. Chi ci convince che gli arabi capiscono solo il linguaggio della forza ed è quindi quello che dobbiamo usare con loro. E siccome lo abbiamo fatto per così tanti anni, abbiamo dimenticato che ci sono altre lingue che si possono parlare con gli esseri umani, persino con nemici giurati come Hamas. Lingue che noi israeliani conosciamo altrettanto bene di quella parlata dagli aerei da combattimento e dai carri armati.
Parlare con i palestinesi. Questa deve essere la conclusione di quest'ultimo round di violenza. Parlare anche con chi non riconosce il nostro diritto di vivere qui. Anziché ignorare Hamas faremmo bene a sfruttare la realtà che si è creata per intavolare subito un dialogo, per raggiungere un accordo con tutto il popolo palestinese. Parlare per capire che la realtà non è soltanto quella dei racconti a tenuta stagna che noi e i palestinesi ripetiamo a noi stessi da generazioni. Racconti nei quali siamo imprigionati e di cui una parte non indifferente è costituita da fantasie, da desideri, da incubi. Parlare per creare, in questa realtà opaca e sorda, un'alternativa, che, nel turbine della guerra, non trova quasi posto né speranza, e neppure chi creda in essa: la possibilità di esprimerci.
Parlare come strategia calcolata. Intavolare un dialogo, impuntarsi per mantenerlo, anche a costo di sbattere la testa contro un muro, anche se, sulle prime, questa sembra un'opzione disperata. A lungo andare questa ostinazione potrebbe contribuire alla nostra sicurezza molto più di centinaia di aerei che sganciano bombe sulle città e sui loro abitanti. Parlare con la consapevolezza, nata dalla visione delle recenti immagini, che la distruzione che possiamo procurarci a vicenda, ogni popolo a modo suo, è talmente vasta, corrosiva, insensata, che se dovessimo arrenderci alla sua logica alla fine ne verremmo annientati.
Parlare, perché ciò che è avvenuto nelle ultime settimane nella striscia di Gaza ci pone davanti a uno specchio nel quale si riflette un volto per il quale, se lo guardassimo dall'esterno o se fosse quello di un altro popolo, proveremmo orrore. Capiremmo che la nostra vittoria non è una vera vittoria, che la guerra di Gaza non ha curato la ferita che avevamo disperatamente bisogno di medicare. Al contrario, ha rivelato ancor più i nostri errori di rotta, tragici e ripetuti, e la profondità della trappola in cui siamo imprigionati. David Grossman

domenica 18 gennaio 2009

Lettera di Nelson Mandela al giornalista ebreo Thomas Friedman sull’apartheid in Palestina

Riprendo da www.cacaoinline.it questa preziosa e lucida lettera di Nelson Mandela, primo presidente del nuovo Sud Africa a Thomas Friedman (articolista del New York Times).
Chi ha avuto negli anni passati la cortesia e la pazienza di leggere i numerosi articoli che ho scritto troverà in questa lettera ben più autorevole delle mie parole idee, valutazioni, letture e concetti più e più volte espressi. Se qualcuno è interessato ad avere la raccolta dei miei articoli sulla Palestina, che ho riunito in un file "Con la Palestina nel cuore" e possono avere l'utilità di una documentazione per quanto possibile accurata anche se è visibile da che parte sta il cuore, può inviarmi una richiesta attraverso la mia email. Riceverà il file per posta elettronica.


"Caro Thomas (Friedman),
So che entrambi desideriamo la pace in Medioriente, ma prima che tu continui a parlare di condizioni necessarie da una prospettiva israeliana, devi sapere quello che io penso. Da dove cominciare? Che ne dici del 1964?
Lascia che ti citi le mie parole durante il processo contro di me. Oggi esse sono vere quanto lo erano allora:
"Ho combattuto contro la dominazione dei bianchi ed ho combattuto contro la dominazione dei neri. Ho vissuto con l'ideale di una società libera e democratica in cui tutte le sue componenti vivessero in armonia e con uguali opportunità. È un ideale che spero di realizzare. Ma, se ce ne fosse bisogno, è un ideale per cui sono disposto a morire".
Oggi il mondo, quello bianco e quello nero, riconosce che l'apartheid non ha futuro. In Sud Africa esso è finito grazie all'azione delle nostre masse, determinate a costruire pace e sicurezza. Una tale determinazione non poteva non portare alla stabilizzazione della democrazia.
Probabilmente tu ritieni sia strano parlare di apartheid in relazione alla situazione in Palestina o, più specificamente, ai rapporti tra palestinesi ed israeliani. Questo accade perché tu, erroneamente, ritieni che il problema palestinese sia iniziato nel 1967. Sembra che tu sia stupito del fatto che bisogna ancora risolvere i problemi del 1948, la componente più importante dei quali è il Diritto al Ritorno dei profughi palestinesi.
Il conflitto israelo-palestinese non è una questione di occupazione militare e Israele non è un paese che si sia stabilito "normalmente" e che, nel 1967, ha occupato un altro paese. I palestinesi non lottano per uno "stato", ma per la libertà, l'indipendenza e l'uguaglianza, proprio come noi sudafricani.
Qualche anno fa, e specialmente durante il governo Laburista, Israele ha dimostrato di non avere alcuna intenzione di restituire i territori occupati nel 1967; che gli insediamenti sarebbero rimasti, Gerusalemme sarebbe stata sotto l'esclusiva sovranità israeliana e che i palestinesi non avrebbero mai avuto uno stato indipendente, ma sarebbero stati per sempre sotto il dominio economico israeliano, con controllo israeliano su confini, terra, aria, acqua e mare. Israele non pensava ad uno "stato", ma alla "separazione". Il valore della separazione è misurato in termini di abilità, da parte di Israele, di mantenere ebreo lo stato ebreo, senza avere una minoranza palestinese che potrebbe divenire maggioranza nel futuro. Se questo avvenisse, Israele sarebbe costretto a diventare o una democrazia secolare o uno stato bi-nazionale, o a trasformarsi in uno stato di apartheid non solo de facto, ma anche de jure.
Thomas, se vedi i sondaggi fatti in Israele negli ultimi trent'anni, scoprirai chiaramente che un terzo degli israeliani è preda di un volgare razzismo e si dichiara apertamente razzista. Questo razzismo è della natura di: "Odio gli arabi" e "Vorrei che gli arabi morissero". Se controlli anche il sistema giudiziario in Israele, vi troverai molte discriminazioni contro i palestinesi. E se consideri i territori occupati nel 1967, scoprirai che vi si trovano già due differenti sistemi giudiziari che rappresentano due differenti approcci alla vita umana: uno per le vite palestinesi, l'altro per quelle ebree. Ed inoltre, vi sono due diversi approcci alla proprietà ed alla terra. La proprietà palestinese non è riconosciuta come proprietà privata perché può essere confiscata. Per quanto riguarda l'occupazione israeliana della West Bank e di Gaza, vi è un fattore aggiuntivo. Le cosiddette "aree autonome palestinesi" sono bantustans. Sono entità ristrette entro la struttura di potere del sistema di apartheid israeliano.
Lo stato palestinese non può essere il sottoprodotto dello stato ebraico solo perché Israele mantenga la sua purezza ebraica. La discriminazione razziale israeliana è la vita quotidiana della maggioranza dei palestinesi. Dal momento che Israele è uno stato ebraico, gli ebrei godono di diritti speciali di cui non godono i non-ebrei. I palestinesi non hanno posto nello stato ebraico.
L'apartheid è un crimine contro l'umanità'. Israele ha privato milioni di palestinesi della loro proprietà e della loro libertà. Ha perpetuato un sistema di gravi discriminazione razziale e disuguaglianza. Ha sistematicamente incarcerato e torturato migliaia di palestinesi, contro tutte le regole della legge internazionale. In particolare, esso ha sferrato una guerra contro una popolazione civile, in particolare bambini.
La risposta data dal Sud Africa agli abusi dei diritti umani risultante dalla rimozione delle politiche di apartheid, fa luce su come la società israeliana debba modificarsi prima di poter parlare di una pace giusta e durevole in Medio oriente.
Thomas, non sto abbandonando la diplomazia. Ma non sarò più indulgente con te come lo sono i tuoi sostenitori. Se vuoi la pace e la democrazia, ti sosterrò. Se vuoi l'apartheid formale, non ti sosterrò. Se vuoi supportare la discriminazione razziale e la pulizia etnica, noi ci opporremo a te.
Quando deciderai cosa fare, chiamami."

sabato 17 gennaio 2009

Santoro non è "embedded"...


Premetto che non ho visto, contrariamente al solito, tutta la trasmissione di Annozero e lo scontro Annunziata - Santoro l'ho successivamente visto su You Tube.
Sappiamo tutti che Santoro è un giornalista duro, forse intollerante, certamente schierato, ma - ritengo - non fazioso nè disonesto. Non ha certo la pacatezza di un Enzo Biagi, ma in un clima di regime (non solo dell'informazione) neppure la pacatezza salva dagli ostracismi. Forse poteva trattenere certe affermazioni che potevano suonare offensive nei confronti di Lucia Annunziata, ma neppure lei avrebbe accettato di sentirsi criticare nel suo modo di impostare e condurre una trasmissione di cui ha la responsabilità.
Ma mi sembra orribilmente ipocrita accusare di faziosità chi, per la prima volta dopo più di venti giorni di guerra e di strage, dopo anni di giornalismo embedded nei confronti di Israele accreditato sempre e in ogni caso come vittima e mai come oppressore, anche a fronte di una dura occupazione militare armata, di incursioni per arresti al di fuori di ogni supporto legale (solo la dichiarazione: è un terrorista!) con l'annessa distruzione della casa e la ricaduta su tutta la famiglia e sulla parentela, di omicidi mirati mai sospesi neppure in tempo di tregua più o meno vera, sul furto di terra e di beni essenziali per la vita con il metodo mai interrotto dei cosiddetti "insediamenti", con la chiusura ermetica della Striscia di Gaza non solo alle armi, ma anche a tutto ciò che è indispensabile per una vita decorosa di un milione e mezzo di esseri umani, dopo tutto questo e molto altro ancora, ci fa vedere in diretta non la morte di Hamas, ma la morte di Gaza e dei suoi abitanti!
Si può tollerare per qualcuno la testimonianza di Vittorio Arrigoni, che in Italia raggiunge solo un pubblico di "nicchia", non ci si preoccupa di Al Jazeera, perchè ha giusto 25 spettatori in Italia e in Europa e i suoi giornalisti da Gaza sono palestinesi e dunque faziosi, di parte e amici dei terroristi, ma che la RAI faccia per una volta vedere l'altra faccia della medaglia questo è intollerabile!
Io non mi stancherò mai di dire che amo Israele, ma non i suoi governanti, "guide cieche" (leggi il cap. 23 di Matteo...), sento forte e profondo il legame indissolubile che lega il mio cristianesimo alla sua radice ebraica che non può essere rinnegata, ma sono anche convinto che passi avanti si potranno fare in Terrasanta quando si uscirà dalla propaganda, dalla doppiezza, dal revisionismo storico, più volte smascherato da onesti storici e intellettuali ebrei e israeliani (uno per tutti: Ilan Pappe) e si avrà il coraggio di dire tutta la verità su quanto avvenuto nei sessant'anni passati, sui progetti espressi e su quelli taciuti, sul significato e sulle conseguenze nel passato, nel presente e nel futuro dell'insediamento di circa 400.000 coloni nel Territorio palestinese, insediamenti che nascondono la certa volontà di non permettere in alcun modo la nascita di uno Stato palestinese!
Accanto a questo nessuna simpatia per Hamas nella sua componente violenta e armata e disposta anche a dividere i Palestinesi! Ma neppure accetto la semplicistica affermazione che Hamas sia solo e nulla più di una organizzazione terroristica con l'aggravante della sua connotazione religiosa: terrorismo islamico! I palestinesi non ragionano fortunatamente in questi termini. I palestinesi non accettano questa etichetta religiosa; mi diceva un amico: "Quando io mi presento non dico: sono un palestinese cristiano, ma sono un palestinese e se uno mi dicesse: sono un palestinese musulmano lo contesto, non lo riconosco, perchè questa divisione non è nostra!".
Perciò alla fine sto dalla parte di Santoro, magari invitandolo ad una moderazione più utile. Come dice Tonio Dell'Olio non possiamo essere in questa guerra e in questo eterno conflitto "equidistanti": «In un conflitto tanto evidentemente sproporzionato nessuno che abbia un briciolo di buon senso può parlare di equidistanza a fronte del numero delle vittime, dell'efferatezza del fuoco, delle distruzioni e dell'odio che si sta seminando nel terreno della storia. Credo piuttosto che si dovrebbe parlare di
equivicinanza. Equivicinanza a tutte le vittime sempre. Al di là del passaporto che
hanno in tasca, dell'appartenenza nazionale, etnica, razziale, politica, ideologica.
L'equivicinanza ti fa scegliere di stare dalla parte delle vittime biasimando tutti coloro che ricorrono all'uso della forza e che credono che la violenza possa risolvere qualcosa. Stare contro coloro che continuano a ritenere che anche la morte di un solo bambino (purché della parte avversa) possa essere un sacrificio necessario per il raggiungimento del proprio obbiettivo di sicurezza, di autonomia, di riconoscimento». A me pare che fosse ciò che Santoro cercava di fare, quando tutti ritengono "equidistante" chi sta sempre e comunque dalla parte di Israele, sotto il ricatto continuo della equivalenza "critico del governo israeliano = antisemita". dwf

domenica 11 gennaio 2009

Il cuore di un Palestinese

Venerdì sera un gruppo di amici di Kamal Al-Qaisi, palestinese di Betlemme, morto il 27 dicembre 2007, si sono ritrovati per ricordarlo se non credenti, o per pregare con lui e per lui se credenti. Nell'invito inviato avevo scritto: "Il 27 dicembre 2008 è stato il primo anniversario della scomparsa di Kamal Al-Qaisi, che i suoi tanti amici ricordano per il suo impegno a favore degli altri, per il suo interessamento per la soluzione di molti casi umani, per la sua generosità a costo anche di sacrifici personali e familiari, un uomo che potremmo osare definire “giusto”.
In sua memoria e in sua amicizia, abbiamo nei primi giorni di gennaio dello scorso anno, dato vita all’Associazione “L’ulivo e il libro”.
Per ricordare Kamal vorremmo ritrovarci con tutti i suoi amici per una breve serata “ecumenica”, aperta a tutti: per chi si sente laico e non credente, per ricordare e tener desto l’affetto per Kamal e continuare ad agire per le cose in cui lui ha creduto; per chi è credente, per pensare a Kamal “oltre la soglia di Dio” e chiedere all’unico Dio il dono della Pace, visto che le azioni degli uomini non offrono molta speranza; insieme per ribadire la volontà comune di non piegarci all’ingiustizia, all’indifferenza montante, al fatalismo rassegnato.
Sarà gesto simbolico anche il ritrovarci in riflessione e/o preghiera nella cripta del Suffragio, dedicata alla Trasfigurazione, sperando in una vera trasfigurazione della Terrasanta che, o per conoscenza diretta o per quanto ci ha comunicato Kamal, tutti amiamo come “terra nostra”, nostra comune radice". E' stato un incontro ricco di affetto e di commozione. Ma il momento più commovente è stato quella della lettura di uno scritto di Lucia, la moglie di Kamal, uno scritto che ci fa, più di ogni nostra parola o testimonianza, capire com'è il cuore di un Palestinese vero.


Sono palestinese e noi palestinesi non abbiamo paura della morte. La morte per noi è come l'ombra, ci segue ovunque andiamo, più forte è il sole, più scura è l'ombra, più amiamo la vita, più accettiamo la morte.
Entrerò presto in quello che per me ora sembra buio, ma sarà luce.
So che incontrerò mio padre, e che finalmente risponderà a tutte quelle domande alle quali non mi ha mai dato risposta. Ritroverò mia madre con il volto sereno che riuscivo solo ad intravedere, quando era ancora in vita. Riabbraccerò i miei compagni di ideali, senza il rimorso di aver acceso in loro l'amore per la libertà che hanno pagato con la loro stessa vita. Mi diranno di avere sempre saputo che anche io ero pronto a morire come loro.
Ripenso alla mia vita e, libero dal dolore e dalla rabbia, ne sento la bellezza. Che bellezza c'è nella vita di un profugo? Eppure le immagini della sofferenza ora sono luce.
Non posso essere io quel bambino che trema di freddo, mentre unisce le mani a quelle dei suoi fratellini attorno al palo centrale della tenda per impedirle di volare via in una notte d'inverno. Come sono fredde le loro manine arrossate, e non so se quelle che vedo sul viso di mia madre sono gocce di pioggia o altro e la notte è ancora tanto lunga.
Sono io quel ragazzo arrabbiato che studia alla luce del lampione sulla strada di Betlemme? Nelle case del campo non c'era luce, poche gocce non estinguevano la mia sete di studiare e di capire.
Come è dolce il tocco delle dita di mia madre che unge di olio le mie mani stanche al termine di una giornata nel cantiere dove svolgo i lavori più faticosi. Come sono ridenti le facce dei miei fratellini, mentre succhiano i dolci che ho comprato loro, il più piccolo mi chiama "Baba", papà, e pensare che a me non cresce ancora la barba.
Poi cominciava a divamparmi dentro il fuoco della lotta del mio popolo e di quella di mille altri popoli oppressi, mi sembrava che niente dovesse domare quelle fiamme prima che la pianta della Giustizia fosse stata liberata dai rovi che la soffocavano.
Ora sento sgorgare dai miei occhi mille gocce di pietà a bagnare quella cenere e un desiderio di salvezza anche per il mio torturatore, forse vittima di ferite più antiche e profonde di quelle che lascia sul mio corpo. Prima cercavo i suoi occhi per accusarlo, adesso vedo attraverso il suo cuore e perdono.
Ora vedo occhi limpidi e innocenti nei quali la mia immagine continuerà a riflettersi, mai offuscata: sarò sempre con voi per proteggervi e guidarvi.
Ora sento mani affettuose che non finiranno mai di stringere e scaldare le mie, mani che sanno, capiscono, perdonano, mi dicono di non avere paura perchè non vi sarà distacco: mi avrai sempre vicino.
Così avanzo nella luce sempre più vivida. E mi accorgo che questa luce è anche una Voce di Misericordia Infinita, parla la mia lingua e quella di mille altri, tutti La sentiremo e tutti, tutti ugualmente La comprenderemo.

giovedì 8 gennaio 2009

Intromettendomi nel dialogo tra Marcello Pera e Benedetto XVI

di Antonietta Potente, teologa

Ci sono dei momenti storici nei quali le idee sembrano seguire il flusso di movimenti ondulatori e irrompere sulle rive come se non se ne fossero mai andate. Anche se coscienti dei molteplici cambi epocali, ci sono visioni del mondo che paiono preferire gli eterni ritorni delle più certe sistematizzazioni ideologiche e dottrinali, in nome di una fedeltà che rende la maggioranza numerica di noi poveri mortali, insensati e moralmente peccatori. Certamente la nostra epoca è complessa; certamente le coordinate storiche su cui ci muoviamo, a volte sembrano essere molto disordinate. Nonostante questo, ogni lettura storica che fa dell’umanità e dell’epoca attuale uno spazio di totale contraddittorietà, dove, secondo questa visione, tutti camminiamo ambiguamente, abbagliati dalla luce della superficialità, mi sembra davvero riprovevole, oltre che suscitare in me, una profonda tristezza. A chi mi riferisco? All’eco che già c’è giunto via Corriere della Sera, in una lettera di Benedetto XVI, che raccoglie la trama principale della pubblicazione del libro del senatore e filosofo Marcello Pera, dal titolo: Perché dobbiamo dirci cristiani (Mondadori).


Non voglio e non posso ancora addentrarmi nei dettagli del contenuto del libro, ma voglio farlo riguardo alla lettera che accompagna il testo di Marcello Pera, resa pubblica il 23 di novembre, pochi giorni fa, e che probabilmente è, allo stesso tempo, cassa di risonanza e ispirazione, poiché non è la prima volta che i due autori fanno un concerto a quattro mani su temi socio-culturali e religiosi (Senza radici, Mondadori 2004). Per ora, dunque, è solo la lettera di Joseph Ratzinger che provoca in me alcuni sentimenti e alcuni pensieri. Raccolgo dunque alcuni frammenti, per poi lasciare libero l’eco interiore che hanno suscitato in me.
Il primo frammento è con riferimento alle radici del liberalismo che si alimentano – secondo Ratzinger - nell’immagine cristiana di Dio. Non voglio fare un riassunto su ciò che s’intende per “liberalismo” e soprattutto sulle sue multipli sfaccettature assunte lungo la storia, ma ritengo inconsueto sentire affermare, senza ombra di critica, che il liberalismo è la condizione ideale per una cultura veramente cristiana. Forse questo mi appare ancora più strano, sapendo che Benedetto XVI sta commentando il testo di Marcello Pera, uno degli esponenti di quelle correnti politiche che hanno scalpellato gli ideali liberali fino a renderli a immagine e somiglianza di quelli dell’economia neoliberale. Il liberalismo italiano, pronipote del liberalismo anglosassone nato alla fine del secolo XVII e rappresentato, in Inghilterra, da David Hume, Adam Smith, Edmund Burke ed altri.
Com’è possibile affrettarci per trovare sintonie tra cristianesimo e liberalismo e dubitare, invece, su possibili dialoghi con culture e religioni di altre geografie storiche ed esistenziali? Com’è possibile cercare complicità, senza ombra di dubbio e senza paura, tra il messaggio cristiano e quello del liberalismo europeo e avere, invece, tanti dubbi e tanta paura quando si tratta di leggere il parto storico d’intere società e culture di fronte alla complessità e alle sue nuove esigenze vitali?
Com’è possibile benedire e affiancarsi al sogno di chi pensa a una Costituzione europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità?
Forse il concetto dell’ecumene evangelico, non corrisponde alla realtà cosmopolita di una Europa interrogata da altre culture e da altre religioni? O forse Benedetto XVI si è dimenticato che questo flusso e riflusso di persone, culture e religioni è dovuto anche agli ideali imposti di un certo liberalismo culturale e neoliberalismo economico e politico de nostri giorni, che sospingono interi popoli a sottomettersi agli imperativi sociali e ai miti culturali dei paesi così detti sviluppati?
Che cosa succede? Com’è possibile che chi, come rappresentante di una confessione religiosa che dovrebbe sostenere il sogno dell’estensione del pensiero, della comprensione delle idee e della sintonia dei gesti, appoggi, invece, con convincimento, che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile? Qual è secondo Ratzinger il dialogo interreligioso in senso stretto…? Perché, forse ne esiste uno in senso largo?
Infatti, il dialogo vero non si gioca nelle sfere più alte, perché la vita non è in gioco nelle sfere più alte delle nostre istituzioni, politiche e religiose, di per sé già morte. La vita è in gioco nei meandri più quotidiani di questa società europea in cui le persone cercano di dialogare non per mantenere privilegi e poteri, ma semplicemente per vivere, giorno dopo giorno. E sono questi gli ambiti in cui la fede sussiste comunque, tra cosmovisioni e gesti diversi, perché sussiste la voglia di vivere e la ricerca costante per abitare il mondo in un altro modo.
E’ vero, forse il cristianesimo potrebbe contribuire a questo nuovo volto dell’Europa, ma mi domando quale cristianesimo? Leggendo tra le righe, mi accorgo che Ratzinger, se avesse scritto più a lungo, avrebbe fatto ulteriori distinzioni e non solo sulle religioni, ma sull’unico specifico cristiano che, secondo lui può contribuire, cioè il cattolicesimo.
E allora gli altri, con le loro sapienze, esperienze, con le loro ricerche di Dio, di se stessi, della storia; questi altri che? Forse le loro evoluzioni, rivoluzioni e rivelazioni non servono, non contano, sono assurde? Ma questo mondo postmoderno è così cattivo?

Ma la teologia cattolica, non ha mai il dubbio della sua insufficienza? Quale privilegio abbiamo? Pazienza che questi dettagli non siano colti dal senatore Pera, ma un rappresentante di una chiesa e per di più un teologo: com’è possibile?
Allora, se scruto e mi soffermo, mi ritornano in mente le parole della figlia di una mia amica (una bambina di circa 9/10 anni) che una sera mi domandò cosa significavano le ombre, nell’allegoria della caverna di Platone. E’ vero, forse c’è bisogno di ricordare quest’allegoria e tentare una semantica del testo, per capire cosa succede nella teologia della chiesa cattolica.
Dei prigionieri sono legati in modo che possono vedere soltanto la parete di una caverna. Un grande fuoco, dal dietro, proietta delle ombre sulla parete. Che cosa vedono i prigionieri? Essi vedono le ombre proiettate dai loro corpi o da qualsiasi oggetto o sagoma che si proietti sulla parete. In poche parole, i prigionieri non possono vedere oggetti reali, ma osservano solo ombre bidimensionali proiettate da oggetti che, in realtà, non possono vedere veramente. Ed è per questo che non potendo vedere le cause reali delle ombre, i prigionieri pensano che le ombre sono l’unica vera realtà.
Sappiamo che l’antico filosofo, nel proporre l’allegoria, sperava di scoprire alcune proprietà del “mondo delle forme”. Oggi, quest’allegoria è divenuta molto importante anche per la fisica e, la fisica, ci aiuta a capire che ciò che vedono i prigionieri sono immagini bidimensionali, così che, loro, pensano che il mondo è solo bidimensionale. Questo, a mio avviso è il problema del pensiero teologico e della cultura europea di matrice cristiana oggi. Pensiamo di continuare a vivere in un mondo bidimensionale di cui ci assicuriamo conoscere tutto, anche se in realtà sono solo ombre, riflessi. Ma oggi, la storia, precisamente in quest’auto-riscoperta delle identità, si mostra in tutta la sua complessità e dunque diversità. Le culture sono espressione di una molteplicità d’individui, categorie sociali, soggetti di genere diverso, visioni del cosmo. La rivendicazione che il mondo oggi fa della sua maturità e dei suoi impulsi, non è un peccato deplorevole, ma piuttosto un’ iniziativa mistica, dal di dentro dell’essere umano, che si riscopre degno di prendere iniziativa e soprattutto desideroso di non abbandonare la storia per raggiungere l’essenza di sé, della verità e del mondo intero. Il mondo, oggi, non è più bidimensionale e forse la scienza potrebbe dirci qualcosa su queste inquietudini religiose e culturali dell’Europa.
E’ per questo che restiamo perplessi di fronte alle opinioni di un rappresentante religioso che non sostiene l’osato sogno di chi nella storia di oggi, con fatica, osa uscire dall’idea o dall’esperienza fatta nella caverna e, uscendo, percepisce altre dimensioni. Personalmente penso che cercare altre persone, altre idee, altri lineamenti, non solo storici ma anche trascendentali per ritessere la trama della vita sociale, affettiva, spirituale e politica dell’umanità, non significa perdere l’identità del proprio credo. Mentre invece mi sembra che precluderci al dialogo è un vero e proprio precluderci al mistero, alla rivelazione, alla complicità divina con l’umanità e la sua biodiversità cosmica. Certamente questo non è un cammino facile, certamente questo non è il frutto d’incontri sociali e politici, oltre che religiosi, che si fondano sulle logiche dei privilegi, a cui la chiesa cattolica, nel mondo intero, è da sempre abituata; logiche economiche, di potere, in nome del riconoscimento della propria fede.
Si tratta di un parto, di veri e propri dolori di parto; sono sforzi quotidiani, di cui forse chi sta in certi luoghi e legge la storia da un certo punto di vista, si è dimenticato o non ha mai conosciuto. Vivere le diversità costa, ha dei prezzi molto alti. Certamente è più facile omologare o meglio dominare, con un pensiero unico e testimoniare le scintille del vero con un’unica esperienza. Quando è così, forse finiscono i dolori del parto della creatività umana, ma anche, finiscono i sogni di tutti quei cambi storici reali e, invece, si riconduce tutto all’eterno ritorno dell’olimpo divino dei poteri religiosi e sociali.
Comunque, potremmo discutere fino all’infinito su questa lettura e interpretazione della storia e della vita, ma almeno facessimo memoria di qualcosa di molto semplice, che riguarda proprio le radici cosmopolite del cristianesimo primitivo, quelle raccontate dagli Atti degli Apostoli, quelle raccontate da Paolo. Forse tutti contesti ancora più bidimensionali di quelli che conosciamo noi oggi, ma che nonostante tutto, hanno permesso al cristianesimo di alimentarsi anche nelle circostanze più complesse e diverse, proprio nella sua caratteristica fondamentale di passione profonda per la riconciliazione.
Una passione che rende la teologia più apofatica, nel suo insufficiente linguaggio e per questo in ricerca, tra visione, ascolto e nostalgia per l’assenza, l’Assente e gli assenti. Un progressivo itinerario di svelamento di linguaggi alternativi, che curino le rughe non solo dell’umanità, ma anche di questa comunità credente cattolica prigioniera delle ombre. Mi auguro che qualcuno, uscendo dalla caverna, torni e ci racconti le multipli dimensioni della realtà e così continueremo a cercare, noi stessi e Dio che, secondo la visione di Ratzinger e Marcello Pera, sembra essere così estraneo alle nostre fatiche e timide comprensioni della vita. Personalmente spero che, ancora una volta, tutti coloro che bramiamo e osiamo il mondo in un altro modo, si sia perdonati per avere amato troppo e per aver dedicato la vita a cercarci reciprocamente e a cercare. Se oggi, la figlia della mia amica, torna a rifarmi la domanda, le risponderò che ogni ombra evoca qualcosa di più, non solo quello che ci sta dietro, ma quello che ci sta davanti e che sta fuori e che lei e solo lei, per essere fedele, dovrà scoprire con altre e altri.

Padre Musallam, parroco di Gaza

"Qui a Gaza ci rifiutiamo di distinguere tra musulmani e cristiani. Oggi tutti soffrono insieme... I cristiani a Gaza sono il popolo della Palestina. E non temono di essere aggrediti dai musulmani, la cui maggioranza è del tutto contraria ad azioni contro i cristiani".

“Pesanti bombardamenti, un gran numero di vittime, i soldati israeliani non distinguono più tra civili e combattenti, questa è guerra, guerra, guerra; qualcuno provi a fermarli”
Nella sua parrocchia della Sacra Famiglia, padre Manuel Musallam, unico sacerdote cattolico della Striscia di Gaza, racconta l’ennesima tragedia di un popolo senza patria chiuso da decenni in una prigione e inascoltato dal resto del mondo.
“I soldati israeliani si trovano nell’area dei loro vecchi insediamenti abbandonati nel 2005 - dice - ma non entrano nelle nostre città perché hanno paura di fronteggiare il cuore della resistenza palestinese; i bombardamenti da cielo, da terra e dal mare sono continui, alcuni colpi sono arrivati a nemmeno 20 metri dalla chiesa.
Dopo la morte della piccola Cristine, un’altra bimba è morta questa mattina per il terrore e i boati continui.
Era musulmana, frequentava la nostra scuola, il padre Abu Ras è disperato”.
C’è rassegnazione nelle parole del sacerdote che vede con i suoi occhi ciò che molti mezzi di informazione continuano a nascondere o a far finta di non vedere.
“Gli israeliani – continua – non solo colpiscono indiscriminatamente, ma stanno usando nuove e più insidiose armi. Ho parlato con il direttore del maggiore ospedale di Gaza che mi ha riferito di corpi con strane ferite mai viste prima qui a Gaza. Non so cosa stiano usando, nuove diavolerie di guerra e di morte”.
Chiuso nei confini stretti di una striscia di terra lunga 40 chilometri e larga 15, un milione e mezzo di persone aspetta gli sviluppi di un attacco di cui non si riescono ancora a vedere con chiarezza le finalità.
“Nonostante il resto del mondo dica il contrario, anche perché spinti da una informazione faziosa e disonesta – prosegue il sacerdote - sono stati gli israeliani a violare la tregua ripetutamente, non Hamas.
Hamas non è un movimento estremista, gode del sostegno della popolazione e questo sostegno nell’ultima settimana si è accresciuto.
Moltiplicare i motivi di risentimento dei palestinesi, come sta facendo Israele uccidendo donne, uomini e bambini che non hanno mai preso un’arma in pugno, non farà altro che allontanare ancor di più la pace”.

4/1/2009
padre Manuel Musallam

Sussurri obliqui: Le dichiarazioni di Fabio Cannavaro contro Gomorra e i gay: un vero italiano (!) e un vero uomo (!)

domenica 4 gennaio 2009

Hanno oscurato il cielo della Palestina


Una stella indicava il cammino in quelle notti di buio e timore, Signore.
Uomini saggi, da lontano, compresero che li avrebbe condotti a te,
Dio della pace e della fraternità tra tutte le creature,
e “gioirono molto di gioia grande”.
E andarono. E videro. E si inchinarono alla novità di un Dio venuto a condividere, a soffrire e ad amare fino in fondo i suoi figli, tutti quanti.
Signore, oggi a Gaza quella stella è oscurata da bombe e razzi seminatori di paura e di morte.
Ti supplichiamo: aiuta i potenti che abitano la Terra santa a fermarsi.
A far cessare i bagliori mortiferi delle armi, a non spegnere la stella.

Signore, Dio-con-noi! Tu che bambino piangevi
come tutti i bambini del mondo,
asciuga le lacrime dei bimbi di Terra Santa, perché ora il loro cielo ha il colore della notte senza speranza.
Consola il pianto delle mamme di Gaza, che non vedranno mai crescere i loro figli perchè la loro veglia, in queste notti senza luce, è una veglia funebre. Dona loro la forza di non spegnere nei loro cuori straziati la fiammella del perdono.

Signore, tu che attraverso a stella hai chiamato ad una vita buona per ogni uomo e donna del mondo, tu che della trepidazione dei pastori e dei magi hai colto il movimento, l’andare verso, restituisci a noi, che forse ci sentiamo lontani dalla tragedia che si sta compiendo in queste ore a Gaza, il senso di una giustizia che cerchi il bene di tutti.

Signore, Dio degli ultimi e degli oppressi, tu che ti sei lasciato umiliare e ferire per vivere fino alla fine il dramma di tutti i crocifissi nell’ingiustizia, accarezza le migliaia di bambini, donne e uomini innocenti che non hanno trovato riparo dalla follia delle bombe intelligenti, degli attacchi mirati. Signore, Padre di tutti i danni collaterali di questa tragedia, tu che non l’hai certo voluta, ma che la subisci insieme a loro, sostieni dignità di questi tuoi figli amatissimi.

sabato 3 gennaio 2009

Pensieri d'inizio d'anno

Ricevo da Marco Ciani questi pensieri che desidera condividere... Mi fanno tornare alla mente le parole che ci ha detto due anni fa Mons. Michel Sabbah, ora Patriarca Latino emerito di Gerusalemme: "La libertà non è un optional, è dimensione essenziale dell'essere umano. Non si può rinunciare alla libertà. Per essa bisogna impegnarsi, lottare, riconquistarla se l'abbiamo persa! La libertà non è un optional!".

La potentissima e lucentissima e amplissima ventata della Libertà,
travolga ogni altro mediocre, meschino, sentire.
La trasfiguri nella luce di Dio; la rifletta nel prossimo.
Questa speranza va al di là di un semplice aggregato di parole che suona bene.
Libertà è base della civiltà, è motore del pensare, è alimento dell’anima.
Libertà è tanto, tutto, è desiderio indissociabile dell’uomo. Tanto, tutto.
Libertà equivale a possibilità d’esprimersi senza limiti che non siano quelli già congeniti nell’uomo – prender coscienza dei propri limiti e raggiungerli con la fraternità, l’amore…superarli, superarsi.
Libertà è sorridere e godere del minuscolo spoglio silenzioso povero antipatico, oggetto sentimento organismo persona paese giorno, Vita magari – risalire la corrente del consumismo.
Libertà è ambire a grandi cose che si realizzano con piccoli gesti.
Mantenersi eterni bambini nella spontaneità, nella dolcezza.
Inserirsi nella comunità attraverso un giornalino, attraverso un atteggiarsi rivoluzionario, scontroso, ma che ha bisogno della Libertà che si disseta alla fonte della Verità ed è sostenuta dall’Amore puro, per, non altro che, realizzarci pienamente!
E’ d’obbligo per noi giovani:
ampliare le prospettive
aprire nuove strade
radere al suolo inutili complessi,
assurdi moti d’orgoglio – la vera rivoluzione si realizza solamente rispettando e aderendo all’uomo.
Eppure è ancora poco, prima è necessario studiare o apprendere o assimilare il possibile poiché “chi non sa niente non ama niente” (Paracelso).

Nicola Danieli

venerdì 2 gennaio 2009

Ma siamo imbecilli o siamo considerati tali?

Un conto da 4 miliardi. Accordo fatto con Air France
di TITO BOERI

DIECI mesi dopo, con quasi lo 0,3 per cento di pil sottratto ai contribuenti e 7.000 posti di lavoro in meno, Alitalia torna a parlare francese. Era il 14 marzo 2008 quando Air France-KLM depositava la propria offerta vincolante, subito accettata dal Consiglio di Amministrazione di Alitalia. Sono stati 10 mesi da incubo per i viaggiatori, presi ripetutamente in ostaggio in una battaglia senza esclusioni di colpi in cui la politica ha occupato un ruolo centrale, dimentica della recessione che ci stava investendo. In questi 300 giorni gli italiani hanno visto franare il prestito ponte di 300 milioni di euro concesso quasi all'unanimità dal Parlamento italiano. Oltre a perdere così un milione al giorno, i contribuenti si sono accollati i debiti contratti dalla bad company per quasi tre miliardi.
Ci sono poi circa 7.000 posti di lavoro in meno nella nuova compagnia rispetto all'offerta iniziale di Air France, che comporteranno, oltre ai costi sociali degli esuberi (soprattutto di quelli che riguardano i lavoratori precari), oneri aggiuntivi sul contribuente legati al finanziamento in deroga degli ammortizzatori sociali, per almeno un miliardo di euro. Il conto pagato dal contribuente è, dunque superiore ai 4 miliardi di euro, più o meno un terzo di punto di pil, quasi due volte il costo della social card e del bonus famiglia messi insieme.
Sarà Air France-KLM l'azionista di maggioranza, in grado di decidere vita, morte e miracoli della compagnia sorta dalle ceneri di Alitalia. Poco importa che sia italiana la faccia, che si chiami ancora Alitalia la nuova compagnia. Sarebbe stato così comunque, anche con il 100 per cento del capitale nelle mani di Air France-KLM. Come canta Carla Bruni, chi mette la faccia "non è nulla", chi mette la testa "è tutto".
La composita cordata italiana ha dovuto subito rinunciare all'italianità della compagnia perché non era da sola in grado di far decollare neanche il primo aereo, previsto in volo sui nostri cieli il 13 gennaio prossimo venturo. Air France rileva il 25% della nuova compagnia, versando 300 milioni. Questo significa che il 100 per cento del capitale viene oggi valutato 1200 miliardi, circa 150 milioni in più dei 1052 pagati a Fantozzi da Colaninno e soci solo un mese fa. Questo sovrapprezzo si spiega col fatto che CAI ha nel frattempo acquisito Air One. Si tratta di una compagnia in crisi, con un debito verso i soli fornitori valutato attorno ai 500 milioni di euro, ma il valore dell'acquisizione di Air One è tutto nella soppressione dell'unico concorrente sulla tratta Milano-Roma, consumatosi con il beneplacito della nostra Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Anche questi 150 milioni vanno aggiunti al conto pagato dagli italiani. E' sono sicuramente una sottostima dei costi che dovremo pagare per la mancata concorrenza.
Conti fatti, è soprattutto Air France dunque ad aver fatto un affare. Rileva una compagnia più leggera di 7000 dipendenti rispetto a quella che avrebbe acquisito nel marzo scorso, che ha nel frattempo assunto una posizione di monopolio nella tratta più redditizia versando molto meno di quel miliardo su cui si era impegnata solo 10 mesi fa.
Dopo avere subìto un danno ingente in conto capitale e avere assistito alla beffa finale di vedere documentata, nero su bianco, la svendita della loro compagnia di bandiera allo straniero da parte dei "patrioti" della Cai, i cittadini italiani rischiano ora di vedere salire ulteriormente le tariffe aeree, in barba alla deflazione. Per scongiurare questo pericolo l'Autorità Antitrust dovrà assicurarsi fin da subito che gli slot lasciati liberi da Alitalià vengano venduti sul mercato. Le speranze di concorrenza in Italia riposano ormai solo sull'ingresso di Lufthansa-Italia nella tratta Milano-Roma. Varrà senz'altro molto di più della moral suasion esercitata da chi, dopo aver benedetto la fusione fra CAI e Air One il 3 dicembre scorso, oggi promette di monitorare da vicino le tariffe della nuova compagnia.
(2 gennaio 2009)

giovedì 1 gennaio 2009

Quanti altri morti, per sentirvi cittadini di Gaza?

di Mustafa Barghouti*

Ramallah, 27 dicembre 2008

E leggerò domani, sui vostri giornali, che a Gaza è finita la tregua. Non era un assedio dunque, ma una forma di pace, quel campo di concentramento falciato dalla fame e dalla sete. E da cosa dipende la differenza tra la pace e la guerra? Dalla ragioneria dei morti? E i bambini consumati dalla malnutrizione, a quale conto si addebitano? Muore di guerra o di pace, chi muore perché manca l’elettricità in sala operatoria? Si chiama pace quando mancano i missili - ma come si chiama, quando manca tutto il resto?
E leggerò sui vostri giornali, domani, che tutto questo è solo un attacco preventivo, solo legittimo, inviolabile diritto di autodifesa. La quarta potenza militare al mondo, i suoi muscoli nucleari contro razzi di latta, e cartapesta e disperazione. E mi sarà precisato naturalmente, che no, questo non è un attacco contro i civili - e d’altra parte, ma come potrebbe mai esserlo, se tre uomini che chiacchierano di Palestina, qui all’angolo della strada, sono per le leggi israeliane un nucleo di resistenza, e dunque un gruppo illegale, una forza combattente? - se nei documenti ufficiali siamo marchiati come entità nemica, e senza più il minimo argine etico, il cancro di Israele? Se l’obiettivo è sradicare Hamas - tutto questo rafforza Hamas.
Arrivate a bordo dei caccia a esportare la retorica della democrazia, a bordo dei caccia tornate poi a strangolare l’esercizio della democrazia - ma quale altra opzione rimane? Non lasciate che vi esploda addosso improvvisa. Non è il fondamentalismo, a essere bombardato in questo momento, ma tutto quello che qui si oppone al fondamentalismo. Tutto quello che a questa ferocia indistinta non restituisce gratuito un odio uguale e contrario, ma una parola scalza di dialogo, la lucidità di ragionare il coraggio di disertare - non è un attacco contro il terrorismo, questo, ma contro l’altra Palestina, terza e diversa, mentre schiva missili stretta tra la complicità di Fatah e la miopia di Hamas. Stava per assassinarmi per autodifesa, ho dovuto assassinarlo per autodifesa - la racconteranno così, un giorno i sopravvissuti.
E leggerò sui vostri giornali, domani, che è impossibile qualsiasi processo di pace, gli israeliani, purtroppo, non hanno qualcuno con cui parlare. E effettivamente - e ma come potrebbero mai averlo, trincerati dietro otto metri di cemento di Muro? E soprattutto - perché mai dovrebbero averlo, se la Road Map è solo l’ennesima arma di distrazione di massa per l’opinione pubblica internazionale? Quattro pagine in cui a noi per esempio, si chiede di fermare gli attacchi terroristici, e in cambio, si dice, Israele non intraprenderà alcuna azione che possa minare la fiducia tra le parti, come - testuale - gli attacchi contro i civili.
Assassinare civili non mina la fiducia, mina il diritto, è un crimine di guerra non una questione di cortesia. E se Annapolis è un processo di pace, mentre l’unica mappa che procede sono qui intanto le terre confiscate, gli ulivi spianati le case demolite, gli insediamenti allargati - perché allora non è processo di pace la proposta saudita? La fine dell’occupazione, in cambio del riconoscimento da parte di tutti gli stati arabi. Possiamo avere se non altro un segno di reazione? Qualcuno, lì, per caso ascolta, dall’altro lato del Muro?
Ma sto qui a raccontarvi vento. Perché leggerò solo un rigo domani, sui vostri giornali e solo domani, poi leggerò solo, ancora, l’indifferenza. Ed è solo questo che sento, mentre gli F16 sorvolano la mia solitudine, verso centinaia di danni collaterali che io conosco nome a nome, vita a vita - solo una vertigine di infinito abbandono e smarrimento.
Europei, americani e anche gli arabi - perché dove è finita la sovranità egiziana, al varco di Rafah, la morale egiziana, al sigillo di Rafah? - siamo semplicemente soli. Sfilate qui, delegazione dopo delegazione - e parlando, avrebbe detto Garcia Lorca, le parole restano nell’aria, come sugheri sull’acqua. Offrite aiuti umanitari, ma non siamo mendicanti, vogliamo dignità libertà, frontiere aperte, non chiediamo favori, rivendichiamo diritti. E invece arrivate, indignati e partecipi, domandate cosa potete fare per noi. Una scuola? Una clinica forse? Delle borse di studio? E tentiamo ogni volta di convincervi - no, non la generosa solidarietà, insegnava Bobbio, solo la severa giustizia - sanzioni, sanzioni contro Israele.
Ma rispondete - e neutrali ogni volta, e dunque partecipi dello squilibrio, partigiani dei vincitori - no, sarebbe antisemita. Ma chi è più antisemita, chi ha viziato Israele passo a passo per sessant’anni, fino a sfigurarlo nel paese più pericoloso al mondo per gli ebrei, o chi lo avverte che un Muro marca un ghetto da entrambi i lati? Rileggere Hannah Arendt è forse antisemita, oggi che siamo noi palestinesi la sua schiuma della terra, è antisemita tornare a illuminare le sue pagine sul potere e la violenza, sull’ultima razza soggetta al colonialismo britannico, che sarebbero stati infine gli inglesi stessi? No, non è antisemitismo, ma l’esatto opposto, sostenere i tanti israeliani che tentano di scampare a una nakbah chiamata sionismo.
Perché non è un attacco contro il terrorismo, questo, ma contro l’altro Israele, terzo e diverso, mentre schiva il pensiero unico stretto tra la complicità della sinistra e la miopia della destra.
So quello che leggerò, domani, sui vostri giornali. Ma nessuna autodifesa, nessuna esigenza di sicurezza. Tutto questo si chiama solo apartheid - e genocidio. Perché non importa che le politiche israeliane, tecnicamente, calzino oppure no al millimetro le definizioni delicatamente cesellate dal diritto internazionale, il suo aristocratico formalismo, la sua pretesa oggettività non sono che l’ennesimo collateralismo, qui, che asseconda e moltiplica la forza dei vincitori.
La benzina di questi aerei è la vostra neutralità, è il vostro silenzio, il suono di queste esplosioni. Qualcuno si sentì berlinese, davanti a un altro Muro. Quanti altri morti, per sentirvi cittadini di Gaza?

*ex ministro dell’informazione del governo di unità nazionale palestinese

(testo raccolto da Francesca Borri)

Il modello di costruzione delle news che ha unificato i tg di Rai e Mediaset nella copertura della crisi di Gaza viene da lontano

Uno dei temi che mi stanno particolarmente a cuore è quello dell'informazione in genere e dell'informazione sulla Palestina in particolare. Più volte ho espresso la mia impotente rabbia nei confronti delle evidenti e, a volte, scandalose manipolazioni dell'informazione a tutti i livelli. L'amico Enrico Peyretti mi ha proprio ieri girato l'interessante studio che qui ripropongo: mi sembra davvero illuminante! Spero che soprattutto chi lavora nei media sappia farne oggetto di attenta riflessione. dwf

1. Il Glasgow Media Group e la Palestina

Il Glasgow Media Group, una rete di accademici e ricercatori britannici che si occupa da oltre un trentennio di monitorare i media del Regno Unito, ha pub-blicato nel 2006 un interessante testo di analisi sulla copertura che i media in-glesi e scozzesi hanno dato al conflitto israelo-palestinese. La ricerca diretta da Greg Philo, uno dei teorici di punta del Glasgow Media Group, e da Mike Berry si chiama Bad News From Israel e non è ovviamente tradotta in Italia dove la saggistica sui temi riguardanti l'informazione risente sempre dell'influenza e del controllo della comunicazione politica istituzionale. Philo e Berry hanno coordinato un lavoro sia di analisi qualitativa che quantitativa, da parte dei ricercatori del Glasgow, su 200 differenti edizioni di tg di BBC one e ITV News, ritenuti rappresentativi del panorama mediale britannico monitorando il conflitto israelo-palestinese in un periodo che va dal 2000 al 2002. Allo stesso tempo sono state intervistate più di 800 persone sulla ricezione delle notizie date dalla televisione in quel periodo. Tra gli intervistati, oltre a telespettatori presi a campione dalla popolazione, c'erano anche specialisti del mondo dei media britannici come George Alagiah e Brian Hanrahan della BBC e Lindsey Hilsum di Channel Four e il regista Ken Loach. Questo per dare alla fase qualitativa delle interviste sia il taglio dell'approfondimento legato al tema della ricezione, e della interpretazione, delle notizie da parte della popolazione sia quello della formazione delle categorie critiche rispetto alla costruzione simbolica del reale operata dai media tramite le notizie. A parte la specificità del tema, se si parla di Israele nel nostro paese è facile incorrere nella incredibile accusa di "antisemitismo di sinistra", un lavoro così sistematico, sofisticato nell'impianto categoriale che usa è ancora impensabile in Italia. Per diversi motivi: perché gli specialisti di comunicazione politica sono quasi tutti arruolati del mainstream, per lo stato di minorità teorica in materia di media di buona parte dell'informazione alternativa, perché in materia di equilibrio dell'informazione in tv in Italia il dibattito è drogato dalla questione del conflitto di interessi di Berlusconi e dall'illusione che una volta risolto questo conflitto le notizie possano tornare li-bere. Inoltre lavori come quello diretto da Philo e Berry in Italia rischiano di non trovare né editoria universitaria, strangolata dalle necessità di bilancio, né tantomeno editoria maggiore che deve sempre fare i conti, anche in quel campo, con la presenza di Berlusconi. Allo stesso tempo le autorità di controllo, nazionali e regionali, che commissionano lavori di monitoraggio della comunicazione lo fanno principalmente su criteri mainstream e non certo critici come quelli di Philo e Berry. E' il classico circolo vizioso: in Italia l'intreccio tra media e politica produce la notizia generalista, le autorità di controllo, costituite dallo stesso intreccio, la monitorizzano secondo gli stessi criteri cognitivi che hanno prodotto questa notizia. E la situazione italiana è per adesso lontana dallo sbloccarsi: nelle recenti vertenze su scuola, università e Alitalia i movimenti i media li hanno semplicemente subiti senza capire che l'agenda setting dei tg è ormai la forza decisiva in ogni contrattazione sindacale, quella che sposta la bilancia a favore di istituzioni e imprenditori in ogni conflitto.

2. I punti salienti della ricerca di Philo e Berry

La ricerca diretta da Philo e Berry ha quindi un doppio valore: quello essere un lavoro critico e sistematico sui telegiornali come non ce ne sono in Italia, e quello di indicare lo standard di copertura e di ricezione delle notizie nel conflitto israelo-palestinese così come si è formato in questi anni nella BBC e che, come possiamo constatare, riassume gli stessi standard complessivi dell'informazione occidentale istituzionale in materia. Andiamo a vedere quindi i punti salienti dei risultati della analisi del lavoro diretto da Philo e Berry. Non prima di aver ricordato un fatto esemplare presente in questa ricerca: la stragrande maggioranza dei bambini uccisi durante la seconda intifada sono stati classificati nei tg britannici come vittime di crossfire, fuoco incrociato. Immaginate la dinamica reale, dei bambini che durante l'intifada tirano pietre all'esercito israeliano, e come è stata riportata la notizia: dei ragazzi sempre e inevitabilmente vittime di uno scontro a fuoco incrociato tra truppe israeliane e palestinesi. Con questi ultimi spesso rappresentati o come coloro che si fanno scudo dei bambini o come coloro che hanno scatenato gli incidenti che hanno prodotto il crossfire.

Ecco i risultati salienti della ricerca diretta da Philo e Berry

1) Sul piano della percezione delle notizie nei tg monitorati, gli spettatori inter-vistati si sono detti confusi nella ricezione dell'insieme del conflitto mentre allo stesso tempo hanno assimilato chiaramente gli argomenti e i linguaggi espressi nei comunicati ufficiali del governo israeliano. Questo anche a causa del fatto che, mediamente, gli israeliani sono stati intervistati oltre il 100% in più delle volte rispetto ai palestinesi e in un contesto di interviste più chiaro e approfondito.

2) Nell'insieme delle cronache e dei commenti è largamente maggioritaria la presenza dei commenti ufficiali del governo di Israele. Sul primo canale della BBC è stata norma intervistare due israeliani ogni palestinese. A supporto delle tesi israeliane sono stati intervistati una serie di parlamentari Usa apertamente a favore di Israele. Quest'ultima categoria di intervistati sulla questione israelo-palestinese è apparsa su BBC one più di qualsiasi altro parlamentare non britannico sullo stesso tema e in misura almeno due volte superiore a quella di qualsiasi parlamentare britannico intervistato sul tema.

3) Un altro grande fattore di confusione, per gli spettatori intervistati, è stata l'assenza di contestualizzazione storica del conflitto israelo-palestinese. Di con-seguenza, buona parte degli spettatori britannici non sapeva neanche "chi" stesse effettivamente occupando i territori occupati, se gli israeliani o addirittura i palestinesi. Praticamente nessuno sapeva che gli israeliani controllano acqua e risorse dei palestinesi. Diversi spettatori intervistati credevano che i palestinesi volessero occupare territori israeliani facendogli fare la fine dei "territori già occupati dai palestinesi".

4) Siccome non è presente nessuna ricostruzione storica degli eventi, la ten-denza dei telespettatori intervistati è di concepire gli eventi come "iniziati" con l'azione dei palestinesi. Quindi praticamente qualsiasi battaglia o incidente in corso viene concepito dai telespettatori come iniziato dai palestinesi con suc-cessiva risposta israeliana. Gli storici del futuro avranno così enormi problemi a sostenere tesi differenti da questa versione, ormai implementata nella percezione generale dello scontro israelo-palestinese. Come dice un ventenne intervistato dal Glasgow Media Group "pensi sempre che i palestinesi siano gente aggressiva dopo quello che hai visto in tv".

5) Nella costruzione delle notizie gli insediamenti dei coloni sono sempre rap-presentati come comunità vulnerabili piuttosto che come istituzioni che hanno un ruolo decisivo nell'occupazione dei territori. Come riportato da Bad News from Israel i coloni occupano il 40% del West Bank. La grande maggioranza dei telespettatori intervistati non solo non aveva alcuna idea di questa percentuale ma si è sempre rappresentata gli insediamenti di coloni come quella di piccoli gruppi isolati entro un enorme territorio palestinese.

6) Una netta differenza di enfasi nella rappresentazione delle morti israeliane rispetto a quelle palestinesi (che, durante la seconda intifada, sono state almeno tre volte superiori a quelle israeliane). Nella settimana del marzo 2002 in cui più alto in assoluto è stato il numero dei decessi palestinesi è stato dato comunque più spazio, in termini di minuti e di rilievo della notizia, alle morti i-sraeliane. I termini quali "macelleria", "atrocità", "brutale assassinio", "selvag-gio omicidio a sangue freddo" sono stati usati per definire solo omicidi di citta-dini israeliani e mai, in nessun caso statistico quindi, per definire l'uccisione di palestinesi. Per i bambini palestinesi, come abbiamo visto, c'è il metodo di de-finirli come vittime del fuoco incrociato. Originato dai palestinesi. Diversi tele-spettatori intervistati sulla percezione del fenomeno mediato dalle news hanno detto che "le vittime israeliane sono in numero almeno cinque volte superiori a quelle palestinesi". Un sovvertimento della realtà statistica di tipo spettacolare.

Gli impressionanti risultati di questo lavoro di Philo e Berry mostrano una co-pertura mediale di applicazione fatta di disinformazione e propaganda lunga due anni e coestensiva con tutta la fase acuta della seconda intifada. E stiamo parlando della BBC, un media che, anche in questi anni, ha saputo mantenere caratteri di indipendenza essendo risultato per questo estremamente sgradito al governo Blair prima, dopo e durante l'invasione dell'Iraq del 2003, appena un anno dopo i fatti rilevati dal Glasgow Media Group. La BBC nel caso israelo-palestinese, ovviamente per decisione congiunta tra piano politico istituzionale e quello mediale editoriale che non è stata così salda sulla questione Iraq, rappresenta quindi un modello di come queste tattiche di costruzione della notizia possano applicarsi sistematicamente e con pieno successo alla disinformazione e alla propaganda in materia di comprensione del conflitto, di rapporti di forza tra le parti e la sostanza delle posizioni politiche, toccando persino la stessa comprensione geografica della zona e la proporzione del numero di morti tra gli schieramenti. Questo genere di tattiche, di cui il testo di Philo e Berry rappresentano eloquente capacità di comprensione, non è però isolabile al solo conflitto israelo-palestinese. Si tratta infatti di un corpo di applicazioni mediali in materia di disinformazione e propaganda che, pur essendosi formate durante gli anni '80 nel mondo occidentale (si veda la vicenda della copertura mediale della guerra delle Falkland), trovano una diffusione e una legittimazione globale nel periodo della prima guerra del golfo all'inizio degli anni '90. La caduta del muro di Berlino ha avuto come conseguenza anche l'unificazione della comunicazione televisiva e, con la guerra del Golfo del '91, questo genere di tattiche ha trovato una legittimazione nel sistema mediale del nuovo mondo delle comunicazioni. L'applicazione al caso israelo-palestinese da parte della BBC non rappresenta quindi l'anomalia ma la norma di un genere di tattiche di costruzione del reale da parte del media mainstream ufficiale di tipo occidentale. Che a partire dall'inizio degli anni '90 si è costruito come egemonia e norma linguistica delle infrastrutture tecnologica di senso delle comunicazioni globali.

3. Il caso italiano

Nel caso italiano possiamo tranquillamente affermare che questo modello di costruzione delle notizie, e quindi della realtà, sia applicabile non solo nei punti salienti rilevati nel lavoro diretto da Philo e Berry ma anche in quelli della recezione da parte dalla popolazione del nostro paese in termini simili rispetto a quella britannica. I sei punti emersi dallo studio del Glasgow Media Group, sia nell'aspetto di costruzione delle notizie che in quello della loro ricezione, rappresentano quindi una formidabile anticipazione su come i media italiani tratteranno la questione israelo-palestinese e di come nel nostro paese questo sarà recepito per tutto il conflitto apertosi di recente. Basta rileggere le categorie emerse in Bad News From Israel per poter classificare le notizie dei tg di questi giorni, sia del servizio pubblico che delle tv private, nel novero delle tattiche di propaganda e disinformazione operate a favore di una percezione positiva dell'agire dello stato di Israele nel conflitto.
Possiamo dire che in Italia l'attenzione all'applicazione delle tattiche di disin-formazione e di propaganda sulla vicenda di Gaza è cominciata prima del con-flitto. Infatti, la notizia dell'imminente attacco a Gaza, quando sui tg tedeschi aveva già preso piede entro una copertura internazionale degli effetti della crisi, è stata abbondantemente sepolta sotto le notizie dedicate al maltempo e all'interruzione dei sentieri di montagna e rappresentata unanimemente come "operazione chirurgica", limitata, di breve durata ed escludente la popolazione nei suoi effetti. Il fatto che la breve durata dell'operazione sia stata smentita dallo stesso governo israeliano il giorno dopo, senza che i tg italiani abbiano dato notizia di questa contraddizione, mostra il doppio lavoro fatto a favore di Israele da parte dei tg italiani a reti unificate. Il primo neutralizzando la portata della notizia dell'attacco a Gaza, tenendo così calma l'opinione pubblica italiana ed evitando l' "effetto concerto" a livello di attenzione dell' opinione pubblica europea, il secondo evitando di contraddire il governo israeliano su una contraddizione palese rispetto a dichiarazioni così importanti. Il giorno dell'attacco israeliano a Gaza, viste queste premesse, ha rappresentato una delle tante Caporetto della libertà di informazione in Italia. Per rappresentare l'attacco chirurgico il media mainstream italiano ha estrapolato 155 (sui 200 complessivi) morti tra la polizia palestinese battezzandoli come "la polizia di Hamas", quando invece si tratta di giovani universitari che si arruolano nella polizia municipale per sfuggire alla disoccupazione e che non sono inquadrabili come Hamas.
Il capo della polizia municipale deceduto è stato frettolosamente ribattezzato come "il capo della polizia di Hamas" per dare l'idea del fatto che era stato colpito un bersaglio eccellente e che, insomma, "solo" 45 morti su 200 bersagli colpiti possono essere classificati come effetti collaterali di una operazione chirurgica. In realtà secondo fonti della cooperazione internazionale si è semplicemente sparato nel mucchio, compresa una scuola elementare, e nessun obiettivo sensibile o capo storico di Hamas è stato colpito il primo giorno. Del resto la verità non la si può dire: se si vuol colpire una organizzazione bisogna fare terra bruciata del consenso che ha dalla popolazione circostante. Come è stato sperimentato nella "missione di pace" afghana, quella tenuta in piedi dal centrodestra e dal centrosinistra, dove si bombardano i villaggi per suggerire, ai villaggi restanti, che è meglio non dare solidarietà alla resistenza.
Una volta costruita, anche se in maniera approssimativa, l'operazione chirurgica i tg unificati sono passati a rappresentare le reazioni politiche. Nei tg italiani la sproporzione, due israeliani intervistati ogni palestinese, tenuta dalla BBC è stata abbondantemente sorpassata.
Nel tg1 delle 20,00 di sabato 27 il monologo delle posizioni ufficiali del governo israeliano è stato interrotto da un brevissimo flash di un rappresentante di Hamas che è stato solo citato nella seguente frase "è stata una provocazione" senza possibilità di far aggiungere una lettura dei fatti da parte di quella che è comunque una componente del conflitto. Ma dopo le posizioni politiche delle parti in conflitto, rappresentate in modo così sbilanciato, si è passati alla fase del commento. Il tg1 ha intervistato una giornalista del Corriere della Sera che ha semplicemente ripetuto le tesi del governo israeliano aggiungendo persino un beffardo "la guerra in fin dei conti fa comodo anche ad Hamas perché la popolazione palestinese tende a stringersi attorno a chi è attaccato".
L'aspetto sicuramente caratteristico dei media italiani sta poi nel fatto che non sono neanche in grado di mantenere le forme. L'inviato dal fronte del tg1 delle 13,30 di domenica 28 ha testualmente detto in diretta "cito direttamente le conclusioni del briefing riservato delle forze militari israeliane al quale ho avuto l'onore di partecipare". Siccome i briefing riservati in momenti di crisi si fanno solo con i media strettamente amici, il giornalista italiano non si è reso probabilmente conto dell'enormità che ha detto in diretta: ha semplicemente sputtanato il ruolo di imparzialità apparente, buona norma di ogni giornalista schierato che fa lavoro di propaganda, per l'ansia di rivelare uno scoop. Del resto nella serata del 28 la Rai ha trasmesso una intervista praticamente a reti unificate del ministro degli esteri israeliano, futuro candidato a primo ministro.
Nel circuito ufficiale dei media italiani si somma quindi la consolidata propa-ganda usata su temi nazionali, in funzione anche nettamente antisindacale, a quella di tipo internazionale. E quest'ultima è leggibile e riconoscibile secondo modelli consolidati dall'inizio degli anni '90 e che sono stati isolati dalla ricerca del Glasgow Media Group in questo lavoro sulla copertura britannica delle noti-zie sul conflitto israelo-palestinese.
E qui tanto per sparare sulla croce rossa bisogna ricordare che il centrosinistra, nelle sue varie articolazioni, in quasi un quindicennio dopo il referendum del '95 sulla concentrazione proprietaria delle tv, ha mai messo in discussione questo sistema di integrazione tra politica e notizie sia sul piano nazionale che su quello internazionale. Perché né è parte integrante. Per questo l'emergenza democratica dell'informazione in Italia non ha mai fatto veramente parte dell'agenda politica mainstream.
Viene quindi da lontano il modello sovranazionale di copertura delle notizie: ol-tre a influenzare l'opinione pubblica, strutturare la percezione dei fatti quando i partiti sono televisivi (ovvero sempre) detta direttamente l'agenda politica. E inoltre influenza la politica estera perché questa la si fa sempre sul modo di coprire televisivamente i fenomeni. Non a caso una copertura televisiva globale sostanzialmente favorevole alla guerra all'Iraq ha favorito politicamente l'invasione del 2003, nonostante che l'opinione pubblica mondiale fosse contraria.
Il modello di integrazione tra politica e media è questo: applicare tattiche di disinformazione e di propaganda alle notizie. Se l'opinione pubblica le recepisce bene, se no agire ugualmente. Tanto alla lunga l'opinione pubblica sfavorevole si disgrega mentre i media agiscono tutti i giorni plasmando e rimodulando la realtà politica.
E' d'obbligo un parere da rivolgersi alle organizzazioni che si occupano di soli-darietà con la Palestina, in questo contesto. A nostro avviso si tratta di intensi-ficare le manifestazioni sotto la Rai e sotto Mediaset pretendendo di contrattare l'agenda setting delle notizie, delegittimando il ruolo di informazione di queste sedicenti televisioni. La solidarietà con la popolazione palestinese passa oggi da ciò che circola su antenne e parabole satellitari.

di mcs da http://www.rekombinant.org, 31 dicembre 2008