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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

lunedì 15 settembre 2008

Dossier sulla presenza dei cattolici in politica

La battuta di avvio al dibattito è stata data dalla riflessione del prof. De Marco su www.chiesa.it curato da Sandro Magister e da me inviato agli amici di Appunti alessandrini e a Mons. Charrier. Sono arrivati subito alcuni stimoli alla riflessione che riporto, fino alla lunga riflessione di Agostino Pietrasanta. Ma il dossier è aperto e il dibattito pure...

Sui cattolici "scomparsi dalla politica"

di Pietro De Marco

1. La diagnosi della scomparsa dei cattolici, come tali, dalla vita pubblica e politica italiana è semplicemente un equivoco. Oppure è un incubo, che nasce dalla ristretta autoreferenzialità di alcuni cattolici, quelli che pensano ancora di essere gli unici politici cattolici legittimi. Al contrario: oggi dei cattolici governano in Italia con un ampio mandato di elettori cattolici, senza che abbiano dietro di sé un partito cristiano né un percorso formativo in associazioni confessionali. Il fenomeno costituisce in Italia e in Europa una relativa novità. Vediamo.
Nella discussione corrente sui cattolici manca un protagonista: la sociologia della religione. Non i sondaggi socio-demoscopici, ma la sociologia in quanto tale.
La sociologia della religione italiana è tra le migliori del mondo, per conoscenza del proprio oggetto, per finezza metodologica, per qualità di risultati e intelligenza di persone. Eppure nel dibattito politico è come se non esistesse. Per due ragioni, credo.
La prima: la sociologia della religione in Italia è prevalentemente destinata all'accertamento e all’analisi delle credenze e delle pratiche – e questa è in effetti la sua forza, oggi –, ma il committente e destinatario delle sue conoscenze è un limitato sottogruppo del mondo cattolico ed ecclesiastico.
La seconda ragione dipende dalla prima: le conoscenze socioreligiose – nel percorso che va dal sociologo al clero e ai laicati qualificati, e viceversa – sono usate da élite che leggono i dati con pessimismo minoritario o paternalismo pastoralistico. È una lettura che appare concentrata sui fenomeni di diminuzione o di ripresa della pratica religiosa alta, quella dei praticanti assidui, riservando una riflessione pressoché nulla, al di là del dato statistico, alle forme meno assidue e marginali della credenza e della pratica cattolica.
In questo utilizzo selettivo dei dati è come se la religione "modale" (espressione che Roberto Cipriani riferisce ai tantissimi praticanti occasionali e deboli credenti) fosse composta di uomini e donne che sono "qualcosa di meno", dal punto di vista spirituale, etico, rituale, rispetto ai soggetti che rientrano nel modello virtuoso. In quanto tali, i credenti "modali" sono pensati come esterni al corpo sociale cattolico.
Insomma, dopo decenni di polemiche contro una sociologia della religione che sarebbe stata funzionale alla istituzione preconciliare, ci troviamo oggi alle prese con una sociologia della religione sì valida, ma utilizzata soltanto da una minoranza cattolica: fatta di sociologi. di pastoralisti, di alcuni vescovi e di qualche giornalista. Una minoranza ecclesiale che da tempo sta monitorando – senza il conforto dei fatti – l’atteso declino della Chiesa cattolica, dal quale declino secolaristico aspetta da decenni la rigenerazione del cristianesimo o della religione. Una siffatta lettura dei dati raramente interessa l’opinione pubblica, se non per le episodiche notizie su quanti sono d’accordo o no con il magistero della Chiesa circa questa o quella materia bioetica.

2. Fino a quando in Italia la classe politica cattolica democristiana ed ex democristiana, collocata oggi a sinistra, apparteneva al nucleo virtuoso della religione di Chiesa "orientata e riflessiva", come qualche sociologo la definisce, o, con linguaggio più corrente, ai credenti e praticanti assidui, la categoria di "politico cattolico" sembrava chiara e rassicurante, anche per l’osservatore.
Oggi, però, i cattolici attivi nella politica e nei governi italiani sono per lo più dei praticanti ordinari, non i risultati di trafile virtuose. Sono spesso religiosi "modali", quelli che si dicono "abbastanza d’accordo" nelle risposte ai questionari, quelli della pratica "quasi regolare". Sono anche cattolici che si dichiarano talora "distanti e a disagio".
Per una sociologia della religione emancipata dall’empito profetico conciliare, almeno per la più affinata, che conosce la varietà e complessità della Chiesa di Roma, anche questi cattolici non "virtuosi", "quasi regolari", talora un po' "a modo mio", dovrebbero essere considerati cattolici a pieno titolo, ai quali dedicare analisi adeguate, e non dei semi-cattolici, catastrofico segnale della secolarizzazione avanzante. Non è compito del sociologo discriminare il gregge cattolico secondo modelli interni di eccellenza. E quale eccellenza poi? Quella del solidarista o quella del mistico? Del comunitarista liturgico o del missionario carismatico? Il sociologo, ad esempio, non può avere remore nel definire cattolico un "ritualismo" che permane per robusta tradizione familiare o per il venerato ricordo di una mamma che ci accompagnava in chiesa. Lascerà a qualche parroco dire – non credo sotto impulso dello Spirito Santo – che se si va alla messa "per tradizione" è meglio non andarci.
Il ragionamento cattolico minoritario si fonda su una invecchiata lettura dei sintomi: posto che i cattolici poco assidui o "modali" sono masse in via di allontanamento dalla Chiesa e dalla sua disciplina, si conclude che non ha più senso chiamarli cattolici, né ritenerli politicamente rilevanti come cattolici.
Sennonché le indagini degli ultimi venti anni in Italia invalidano la previsione dell’abbandono progressivo della Chiesa cattolica, di cui le forme deboli di credenza e appartenenza sarebbero fasi o sintomi. La composizione plurale, le disomogeneità e le difformità tra i credenti – che giustamente preoccupano chi si dedica alla cura d’anime – sono stabili da anni, per non dire strutturali. Rappresentano la complessità cattolica, quella propria dell’eccezione italiana brillantemente analizzata da Luca Diotallevi. Una complessità cattolica che, al di là delle sue differenziazioni di forme e di intensità religiosa, ritiene comunque rilevanti la tradizione e l’appartenenza cattolica, con le persone e le istituzioni che le rappresentano e trasmettono.
Solo così posto, il profilo cattolico che investe oltre l’80 per cento della popolazione italiana diviene significativo anche per l’analista della società civile. In altri termini: la varietà delle opzioni religiose corrisponde alla possibilità moderna di differenziarsi da altre persone e da altri modelli. Ma questo differenziarsi non corrisponde a una deriva individualistica postcristiana. Se le religiosità che qualche sociologo chiama "a modo mio" hanno caratteri ricorrenti e riconoscibili, questo implica che ogni "a modo mio" percorre tracciati costanti e neppure molto numerosi, dei quali si possono individuare i modelli. E almeno una parte di questi modelli di religiosità debolmente conformi possono essere considerati un effetto – qualcuno direbbe un successo – dell'azione antisecolarista della Chiesa.


3. Ora, il nuovo blocco elettorale di maggioranza e di governo in Italia appare costituito in maggioranza proprio da cattolici "modali". Ossia da quei cattolici che non siedono nelle prime panche delle chiese, non operano nei consigli parrocchiali, non leggono saggi di teologia, ma credono nella morale cattolica anche se la praticano con difficoltà, fanno frequentare ai figli l’ora di religione nelle scuole (diversamente dai cattolici progressisti, che non lo fanno) e non amano sentire dire dai catechisti che il diavolo non esiste e neppure esiste il peccato.
Vi è in questi cattolici poco assidui un attaccamento al nucleo istituzionale e dogmatico cattolico, magari ereditato dal catechismo, che nei cattolici "qualificati" non c’è, nonostante la maggiore cultura religiosa di questi ultimi. Credo che tra i politici che governano oggi l’Italia siano scarsi gli atei professi alla Piergiorgio Odifreddi, o gli scettici anticattolici alla Corrado Augias. Dal punto di vista socioreligioso l'attuale classe governante è cattolica, cattolica secondo realtà, la realtà composita della "Chiesa di popolo" italiana. È cattolica in quanto consente sull’essenziale della visione cattolica del mondo. Questo consenso non fa, per se stesso, le persone virtuose. Ogni credente, specialmente se umile, sa di essere nel peccato e di non avere garanzia di salvezza personale, se non per la misericordia di Dio e la mediazione della Chiesa. Non è abbastanza istruito da pensare, come il teologo "moderno" Vito Mancuso, che Cristo è una intensificazione dell’energia della vita universale che tutti ci investe e infine ci salverà tutti. I cattolici più vecchi ricordano di aver letto qualcosa del genere nei romanzi del modernista Antonio Fogazzaro.
Così, se è necessario che i parroci richiamino i cattolici a fedeltà e pienezza di amore, è meno necessario che dei politici cattolici "virtuosi" si esibiscano a modello di autentica laicità, di vera cultura sociale cattolica e simili. I cattolici, quanto meno sono "virtuosi" (felice categoria coniata da Max Weber), più sono consapevoli dei loro limiti, più hanno bisogno della Chiesa e sanno di averne. Né potrebbe essere diversamente. È così dalle origini.
Ora, a un semplice esame delle posizioni personali dei ministri e dei quadri dell'attuale governo, è facile trovare tra essi una maggioranza di cattolici, magari distribuita nelle diverse tipologie che da anni i sociologi propongono per cogliere la differenziazione entro e ai margini della "Chiesa di popolo" che costituisce l'eccezione italiana.

4. Da quanto detto, dunque, l'automatismo che in Italia identifica i cattolici con gli eredi della Democrazia Cristiana, ovvero con i membri di organizzazioni diversissime tra loro come l'Azione Cattolica, Comunione e Liberazione, l'Opus Dei, i volontariati e il sindacalismo cristiano, implica un rischio di cecità diagnostica del presente.
In sede di analisi politica dobbiamo non dimenticare ciò che sappiamo in sede socioreligiosa. Cattolici non sono soltanto, o anzitutto, i "virtuosi", ma tutta la costellazione dei credenti. In sede politica pubblica, il ragionamento del ministro del tesoro Giulio Tremonti sulla necessità di un ordinamento cristiano nel cuore dell'Occidente è forse meno significativamente cattolico di quello di un "virtuoso" che invece ama l'invisibilità della "differenza cristiana"? È forse meno cattolica l’effervescenza di un praticante del largo popolo della Lombardia, preso tra lavoro e timori di sicurezza, di quella di un uomo o di una donna che si dedicano alla parrocchia nella presunta prospettiva escatologista della "Lettera a Diogneto"? Sono domande paradossali, ma credo serissime.
La forma "virtuosa" sviluppata nel cattolicesimo politico italiano col nome di "azione cattolica" fu la creazione necessaria, ma contingente, di una Chiesa sottoposta nel XIX secolo alla sfida dei nuovi stati liberali e delle nuove religioni civili laiciste. Ma oggi l'indebolimento dell'imperatività degli stati impone di riconoscere e valorizzare coloro che sono cattolici anche al di fuori di quella passata grande milizia. E proprio questo è stato lo stile di governo della presidenza della conferenza episcopale italiana negli ultimi venti anni.
La CEI del cardinale Camillo Ruini ha operato inoltre con la consapevolezza che quel modello "virtuoso" di militanza cattolica era stato permeato da spiritualismi e utopie che l'avevano spinto fino all'autoannientamento, specialmente dopo gli anni Sessanta, e spesso alimentava l'opposizione interna agli ultimi due pontificati. Anche per questo i papi e la CEI si sono rivolti e si rivolgono preferibilmente al "popolo cristiano" piuttosto che ai "virtuosi", nonostante tutte le fragilità e gli accomondamenti quotidiani del cristiano comune.

5. Sia la base elettorale moderato-conservatrice, sia l'attuale governo italiano possono dunque essere detti cattolici, sia pure in un senso radicalmente diverso rispetto alla passata lunga stagione della Democrazia Cristiana.
Per questo la presenza e la guida della Chiesa sui fondamentali cristiani e umani, se ha oggi lo svantaggio di non disporre della storica intermediazione dei laicati addestrati a questo, ha il vantaggio di rivolgersi in Italia a una società ancora cristianamente sensibile e a quadri di governo non ostili od estranei alla Chiesa, come invece sono le culture politiche marxiste e laiche radicali che la tradizione cattolica "virtuosa" ha più volte legittimato a governare.
Se oggi il Principe non è più cristiano nel senso delle società di Ancien Régime, neppure è anticristiano. Né saranno i cattolici modernizzanti ad imporre quasi da soli, oggi, la finzione di una sfera pubblica laicamente neutralizzata. Non è casuale che i meno capaci di orientare cristianamente l'agire politico, in Italia e in Europa, siano oggi proprio loro, i cattolici "virtuosi" laico-democratici. Nella stagione conciliare essi avevano troppo scommesso, per autenticare la legittimità dei cristiani ad esistere, su una comprenetrazione tra cristianità e modernità che idealizzava il Moderno come nuova cristianità trasfigurata e realizzata.
In un paesaggio religioso e civile come quello italiano, la Chiesa docente è chiamata ad agire politicamente come in una paradossale condizione di nuova cristianità postsecolare. Dovrà agire non attraverso le milizie "virtuose" collaudate nelle stagioni del liberalismo e dei totalitarismi (milizie che si sono spesso contrapposte alla stessa gerarchia sul terreno teologico-politico), ma in un orizzonte universalistico di proposta, di negoziato, di consultazione, e anche di necessario comando. Dico universalistico perché, senza tale respiro rivolto a tutti, la guida cattolica dell'uomo comune (che è anche in larga maggioranza il cattolico comune) rimarrà chiusa negli affetti solidali delle piccole comunità delle parrocchie e delle organizzazioni, e la Chiesa docente non riuscirà ad esprimere posizioni razionali all’altezza del bene di tutti. Rischiando di ottenenere oggi, sul terreno pubblico, meno di quanto ottenne la conclusa tradizione di "azione cattolica".
Per riassumere. Primo: l'immagine di un parlamento e di un governo "senza cattolici", e conseguentemente di una Chiesa senza referenti politici, si alimenta di una diagnosi erronea. Secondo: l’intelligencija cattolica con radici nel dopoconcilio e nella Democrazia Cristiana è largamente assorbita dalla costellazione delle sinistre laiche radicali, con differenziati destini di cultura di opposizione. Terzo: la gerarchia e i cattolici che interpretano la Chiesa nello spazio pubblico devono ridefinire canali e codici di una comunicazione politica autorevole con l'universo popolo cristiano. E con una classe di governo "cattolica" ma non di "azione cattolica".


Meriterebbe però una riflessione, anche su Appunti.
Perché in effetti c’è la tendenza ad identificare i “rappresentanti” (se si può usare questo termine) del mondo cattolico in chi ha militato in associazioni e movimenti, mentre esiste anche un cattolicesimo all’acqua di rose che possiede comunque una sua fisionomia e che forse si sente più rappresentato da altre figure.
C’è di che meditare.
Marco Ciani


Un anno e mezzo fa sapevo di fare parte di una forza di minoranza (la Margherita). Pazienza. In fondo l'alternanza non è un male assoluto. Anzi. Poi però ho strada facendo sono entrato a far parte politicamente di una minoranza della minoranza ("area cattolica" del PD). In realtà però alle primarie del 2007 facevo parte dei riformisti di sinistra della minoranza cattolico-democratica del PD (minoranza della minoranza della minoranza). Caspita! Una cosa comunque stimolante. Secondo questo articolo ora dovrei, per coerenza, disprezzare i catechisti e non mandare i miei figli all'ora di religione, ma sedermi in prima fila in chiesa e leggere mucchi di libri di teologia... Siccome così non è, dovrei quindi essere viceversa etichettabile come "cattolico modale". Ne consegue, per esclusione, che sarei una "minoranza, della minoranza, della minoranza, della minoranza!" (cattolico modale, ma dell'area riformista di sinistra, però della minoranza cattolico-democratica del PD, che oggi è netta minoranza nel paese!). Mah!!!
Delle due l'una: O sono sempre stato di destra senza saperlo, o posso chiedere un colloquio di lavoro a Moira Orfei come acrobata-trapezzista...
Carlo Piccini


Non mi convince... Certo, c'è materia da discutere e forse sarà opportuno farlo.
Ma mi pare che il prof. De Marco delinei la figura di un cattolico di cui mi sono occupato spesso nei miei articoli: un cattolico da "religione civile". C'è una "vaga appartenenza", c'è un'adesione di principio ad alcuni principi dottrinali (che poi l'adesione intellettuale corrisponda anche ad uno sforzo di coerenza nella prassi o nelle scelte morali personali lo lasciamo tra parentesi, perchè il giudizio non ci compete), ma alla fine in tutta la riflessione di De Marco appare chiara una cosa: la fede non c'entra. Basta l'anagrafe parrocchiale, basta una partecipazione saltuaria, basta la dichiarazione... Che uno sia cattolico alla Giovanardi, alla Berlusconi, alla Bindi, alla Dossetti, alla Formigoni... non ha importanza. Basta dichiararsi tali. Non è questione di rappresentanza dei cattolici nella Margherita o nel PD, nell'UDC o nella Lega o nel PdL. Dal punto di vista pastorale (ma credo anche dal punto di vista dell'impegno politico) io credo che dobbiamo andare alla ricerca - e impegnarci a formare - il "cattolico adulto", che abbia una maturità di fede tale che gli dà la capacità di scegliere la "fatica del DISCERNERE", come ho già detto altrove e come alla fine ha ben scritto anche Agostino nell'ultimo editoriale di Appunti alessandrini. Anche se talvolta la gerarchia dà l'impressione di preferire un "cattolico modale" pronto a fare suo ogni imput della Chiesa, senza preoccuparsi nè di discernere nè di mediare...
Sono solo pensieri sparsi, bisognosi di approfondimento, ma ve li butto lì...
don Walter



IL RISCHIO DELL’IRRILEVANZA

C’è un dibattito in corso che non fa notizia di particolare rilevanza, ma che ritorna su alcune riviste e su qualche media di tiratura nazionale, dopo che Giuliano Ferrara, ha denunciato la scomparsa dei cattolici, almeno dei cattolici eredi dall’associazionismo e dei movimenti ecclesiali, dal governo del Paese, dopo l’ultimo trionfo elettorale di Silvio Berlusconi.
Personalmente credo, si tratta ovviamente di una mia opinione, che il problema vada ripreso in una dimensione del tutto diversa. In effetti non interessa tanto o solo se oggi i cattolici abbiano un peso nelle presenze istituzionali, ma se abbiano, come tali, ancora una rilevanza politica ed un progetto politico di ispirazione cristiana da far valere.
Se infatti limitassimo l’incidenza dei cattolici solo all’ipotesi che siano, o meno, presenti nelle istituzioni e nei governi nazionali e locali, dovremmo aderire alle ragioni proposte da qualche sociologo. Secondo costoro sono si assenti dal potere i cattolici eredi della grande tradizione di impegno caritativo, sociale e politico dell’associazionismo ecclesiale (chiamati “virtuosi”: Dio perdoni, almeno in questo caso, la sociologia!), ma sono ben presenti i rappresentanti del “cattolicesimo di Popolo” di cui anche la Chiesa fa sovente richiamo e che il convegno di Verona ha richiamato come categoria.
Certo bisognerebbe distinguere la religiosità popolare autentica dalle derive devozionistiche (troppe Madonne che piangono o troppe stimmate e apparizioni mi lasciano sempre perplesso) e dalle ragioni dei cattolici che fanno riferimento alla Chiesa solo se le ragioni sono le loro ed ancora da quei cattolici che sono fedeli all’insegnamento della Chiesa con parecchie libertà di pensiero e comportamento.
Il discorso però è un altro e, mi permetto di sottolinearlo, si tratta di argomentazione di prospettiva storica. In altre parole, c’è oppure no, una frattura nella continuità storica, circa la presenza dei cattolici nella società italiana?
Ora è di constatazione che, almeno dall’inizio del secolo scorso, ci sono stati due modi di porsi della succitata presenza; due modi che hanno fatto storia ed hanno marcato, fra di loro, un confronto molto spesso inconciliabile. Va subito detto che, se usassimo i parametri della sociologia moderna le due posizioni, pur inconciliabili, costituivano il risultato e la scelta di cattolici provenienti prevalentemente dall’esperienza “virtuosa” e cioè dalle forze del Movimento cattolico(M.C.) ottocentesco che aveva espresso presenze impegnate nel sociale, nel caritativo e nello spirituale, indipendente dal modo scelto per operare.
Una parte di quegli eredi, nel primo decennio del secolo scorso (il XX) scelse un intervento in politica attraverso i blocchi clerico/moderati che permettessero l’inserimento nelle istituzioni per far valere, attraverso la norma giuridica, i principi predicati e proposti dalla Chiesa; si trattava di ripristinare, o tentare il ripristino di uno Stato, almeno in parte, che si facesse paladino dei diritti della Chiesa e che adombrava una lontana parvenza di “Stato cattolico”. L’idea, superata da eventi di straordinaria rilevanza, nel corso di tutto l’ottocento, dalla Rivoluzione francese in poi, allignava ancora nel sogno o nelle illusioni dei promotori dei blocchi di cui si faceva cenno.
Alla fine del secondo decennio del secolo si impose, sia pure per breve tempo, un altro criterio di partecipazione, criterio che riteniamo incompatibile col primo: l’idea del popolarismo, di un partito cioè di cattolici che rinunciavano. per indicazione di Luigi Sturzo, ad uno Stato cristiano, ma chiedevano allo Stato di rinunciare alla strumentalizzazione egemonica della coscienza religiosa.
Il fascismo bloccò in radice la seconda esperienza e dichiarò inutile (almeno nei fatti) la prima, facendosi diretto paladino di alcune garanzie richieste dalla Chiesa, in cambio di una esplicita richiesta di consenso, che non mancò di coinvolgere la Chiesa stessa in non pochi compromessi.
Sono cose ben note, ma vanno sinteticamente richiamate dal momento che costituiscono la premessa di alcune conclusioni che faremo seguire tra poco.
Può considerarsi di generalizzata conoscenza che le due istanze dell’attività dei cattolici in politica marcò nel secondo dopoguerra una singolare convergenza, sia per costituire argine alla forte compagine del partito comunista, sia per dare consistenza al partito nuovo di cattolici, la Democrazia cristiana; ciò permise di creare una compagine fortemente maggioritaria che rappresentò anche interessi molto ampi di categorie che tradizionalmente avevano piuttosto combattuto che appoggiato il MC, ma che vedevano nella DC il contrappeso dialettico al Partito comunista. Il fatto è che le due posizioni tradizionali della presenza cattolica finirono per coesistere e le espressioni più radicali di una presenza di conquista finalizzata ad imporre le logiche di uno stato cristiano si stemperarono e la DC, contenitore di tale coesistenza, riuscì a contenere anche ogni deriva autoritaria di tipo reazionario e clericale che pure continuavano a premere sulle sue scelte; ma si trattava appunto di posizioni, talora eclatanti, ma scarsamente incisive, salvo rare eccezioni, rispetto alle scelte sostanzialmente laiche del partito di cattolici, la DC appunto.
Va aggiunto che le punte radicali della presenza dello Stato cristiano e/o cattolico furono letteralmente sepolte dal discorso di apertura del Concilio Vaticano II; in esso Giovanni XXIII denunciava, in presa diretta i pericoli corsi dalla Chiesa nei periodi in cui subiva l’indebita ingerenza delle autorità civili, le quali “…si proponevano si di proteggere con tutta sincerità la Chiesa (la garanzia delle sue prerogative); ma più spesso ciò avveniva non senza danno e pericolo spirituale, poiché se ne occupavano secondo i calcoli di una loro politica interessata e pericolosa”. Di fatto si indicava, in sede magisteriale, il comportamento del popolarismo sturziano: ovviare allo stato cristiano, ma nel contempo rifiutare la strumentazione egemonica della coscienza cristiana.
Crollata con la DC la coesistenza delle due categorie di presenza dei cattolici, nella vita politica, venuta meno in sostanza, la tradizionale “unità politica dei cattolici”, si sono intraprese strade diverse, nel centrosinistra e nel centrodestra.
Con una precisazione. Né gli uni, né gli altri potevano richiamarsi, almeno nella generalità dei casi alla categoria dei “virtuosi” e mi riferisco ovviamente alla categoria sociologica che si va imponendo, non certo alla coscienza delle singole persone; purtroppo la formazione spirituale, etica, culturale ed anche politica assicurata dall’associazionismo ai cattolici presenti sulla scena politico/istituzionale aveva subito, col passare dei decenni, una cesura.
Ora, a mio parere, il problema sta proprio in questa generalizzata assenza di “virtuosi” che si esprime nella riduzione della politica a semplice gestione del potere.
In ogni caso però le presenze cattoliche del centrodestra sembrano svolgere il ruolo di una cinghia di trasmissione delle domande della Chiesa, senza mediazione culturale e politica e propongono una collaborazione, anche di governo, che richiama in qualche modo la metodologia dei vecchi ed ovviamente superati (?) blocchi clerico/moderati, senza la preparazione “virtuosa” dei protagonisti del primo novecento e si richiamano alla rappresentanza di quella “cristianesimo di popolo” che transige parecchio, anche nei comportamenti, senza badare se proclamati i diritti e le proposte della Chiesa (i cristiani che tali si dichiarano, senza preoccuparsi di esserlo), ne debba conseguire un risultato coerente ed adeguato.
Sulle presenze cattoliche nel centrosinistra il discorso è più complesso. Sia chiaro, anche se gli eredi dell’associazionismo ecclesiale si trovano, in gran numero, su questo versante, si tratta appunto di singole persone. La rappresentanza, anche in questo caso, non può che riferirsi ad un popolo che segue a singhiozzo le prescrizioni della Chiesa, anche qui i “virtuosi” non incidono più di tanto: la formazione è venuta meno per tutti.
E tuttavia se per la presenza nel centrodestra la mancanza di formazione è grave, qui rischia di essere mortale. Si prende atto che è necessaria più che mai una politica del confronto, che le varie ragioni della proposta cristiana devono essere mediate (non compromesse: distinguiamo tra compromesso e mediazione) in un contesto plurale di fatto e che i principi vanno realizzati nel confronto con altre culture politiche e che si punta, rispetto ai principi, al massimo di bene possibile. La conseguenza è molto semplice: la mediazione verso il massimo possibile, presuppone una radicata conoscenza ed una adeguata comprensione intellettuale e pratica del principio di riferimento.
Altro è proporre una legislazione che accontenti la Chiesa, altro è creare un radicamento del valore cristiano con modalità sufficientemente compatibili rispetto alle culture di confronto, da essere accettato, secondo logica del massimo possibile; grazie a tale augurabile radicamento si arriva anche alla proposta istituzionale. Per l’obiettivo di primo livello forse potrebbe bastare la strada del potere (ma se non c’è formazione “virtuosa” non vedo quali esiti ne possano derivare); per l’obiettivo di secondo livello necessita confronto, dibattito, elaborazione, possibili, secondo la Costituzione, nel partito politico, come luogo in cui il cittadino determina la politica nazionale.
Qui la questione non solo è aperta, ma apre scenari inquietanti, perché lo stesso Partito democratico (PD), scelto dai cattolici che vorrebbero fare politica, secondo i parametri che abbiamo chiamato di secondo livello, non decolla, perché si mimetizza sulle ragioni della corsa al potere ed una parte dei sedicenti cattolici che sono presenti nel PD, si adeguano.
Ed allora. Di quale presenza si parla? Io, al momento non ne intravedo, se non in qualche intenzione, magari anche seria.
Qualcuno legittimamente potrebbe pensare il contrario.
Agostino Pietrasanta

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