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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

giovedì 20 marzo 2008

Il silenzio di Dio e le troppe parole degli uomini

Stimolato dalla "forte" riflessione di Marco Ciani e da lunghe meditazioni che ho dovuto fare nei giorni scorsi a proposito del male e del "dolore innocente", per un incontro dell'UNITRE a cui sono stato invitato come relatore, in occasione del Triduo Pasquale, cuore della fede e dell'esperienza cristiana, mi permetto di riproporre due lunghi articoli pubblicati su La voce alessandrina in occasione della visita del Santo Padre al campo di sterminio di Auschwitz. Dopo la Settimana Santa mi ripropongo di inserire anche qualche riflessione più direttamente riguardante il male e il dolore innocente.

Due immagini della visita del papa Benedetto XVI al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau mi hanno emotivamente colpito, potenza delle immagini certamente, e credo abbiano colpito tutti colo¬ro che hanno potuto vedere la diretta televisiva: l'ingresso in solitudine del papa al campo di Au¬schwitz, passando sotto la scritta “Arbeit Macht Frei” (il lavoro rende liberi) e il segno biblico dell'arcobaleno durante la preghiera e le riflessioni nel campo di Birkenau.

Ho rivissuto in quei momenti i ricordi della mia prima visita a quei luoghi di orrore nel lontano 1981. Il percorso da un Blocco all'altro ad Auschwitz, con le memorie così vive e parlanti della Shoah, l'impossibilità di fronte a quelle testimonianze di orrore di parlare, un'angoscia che ti serrava la gola; l'unica di¬strazione – se così si può chiamare – mia e dei miei compagni di viaggio era proprio il completare il percorso preceduti da tre giovani tedeschi (più o meno ventenni) che, entrati come si entra in un museo, abbiamo visto man mano impallidire e angosciarsi oltre ogni dire, tanto che temevamo ad un certo punto di vederli fuggire o di doverli soccorrere. Posso perciò immaginare il peso sul cuo¬re del papa tedesco passando sotto quella scritta, entrando in quei Blocchi, sostando dinanzi al muro delle fucilazioni, visitando il luogo del martirio di padre Kolbe, passando accanto alle barac¬che di Birkenau, vedendo le macerie dei forni crematori, cose tutte rese ancor più vivide e strazian¬ti proprio da quel segno di pace e riconciliazione apparso nel cielo ancora plumbeo dell'attuale Oswiencim. E se quelle immagini si caricavano di simbologie, le parole dette in quel luogo ritenevo avrebbero indotto tutti ad un silenzio scevro di ogni polemica, di ogni parziale e politica rilettura... ma così non è stato. Secondo alcuni critici, Benedetto XVI avrebbe dovuto chiedere perdono per le colpe della nazione tedesca – alla quale appartiene – e denunciare espressamente l’antisemitismo, in particolare quello dei cristiani. Ma così non è stato. Invece il papa, pur non passando sotto si¬lenzio la sua origine, ha parlato in italiano, quasi a sottolineare che quella era la visita del Vesco¬vo di Roma e non di un rappresentante del popolo tedesco. Ma se non ha nominato espressamente l'antisemitismo, ha dato della Shoah una interpretazione assolutamente originale e gravida di con¬seguenze sul piano dei rapporti tra cristiani ed ebrei. Sappiamo tutti ormai che nel linguaggio co¬mune siamo tutti invitati a non usare la parola “Olocausto”, parlando dello sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti; Shoah è un termine che significa in ebraico “tempesta che travolge tutto”, ben diverso dal termine Olocausto che significa invece “sacrificio” e quindi esprime un significato parziale e addirittura esprime un atto di culto a Dio. Annientando quel popolo – ha detto Benedetto XVI – gli autori dello sterminio “intendevano uccidere Dio”. Il Dio di Abramo e di Gesù Cristo. Il Dio degli ebrei e dei cristiani ma anche di tutta l’umanità alla quale “parlando sul Sinai egli stabi¬lì i criteri orientativi che restano validi in eterno”. Cancellando Israele, gli autori dello sterminio “volevano strappare anche la radice su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte”. Mi pare un passaggio questo che porta alle sue più significative conseguenze la rivoluzionaria definizione di Giovanni Paolo II degli ebrei quali “nostri fratelli maggiori”, non più popolo sostituito definitivamente dal “nuovo Israele”, la Chiesa, non più popolo che si salva se “si converte” al nuovo Patto, ma popolo nei cui confronti Dio mantiene e non rinnega le sue promesse ed i suoi impegni (come già diceva del resto Jaques Maritain). Così, coerentemente la solidarietà di ebrei e cristiani non è stata richiamata dal papa come richiesta di perdono dei secondi ai primi, ma come comune sorte di vittime, come comu¬ne volontà di resistenza al male, come prossimità nella preghiera.
Non posso fare a meno perciò di considerare strumentali e ingiuste le critiche soprattutto di parte ebraica. Prima fra tutte l'accusa di revisionismo, quasi un tentativo di assolvere il popolo tedesco attribuendo la colpa del nazismo a una “cricca di criminali” che avrebbe preso il potere “median¬te promesse bugiarde” e altre illusioni, ma anche con “la forza del terrore e dell’intimidazione”. I tedeschi sarebbero stati insomma vittime, non complici, della macchina dello sterminio nazista che portò non solo alla morte di sei milioni di ebrei e di altri cinque milioni di zingari, gay, dissidenti e handicappati nei campi della morte e di concentramento, ma a decine di milioni di soldati e civili in tutta l’Europa. Mi sembra di tutta evidenza che qui il Papa volesse alludere alla capacità attrat¬tiva del male, che maschera le sue malvagità dietro a fantasie allettanti. Lo stesso potremmo dire della capacità attrattiva che ebbero in Italia il fascismo, anche nelle sue espressioni deteriori, il comunismo nei Paesi dell'Est e non solo, della capacità attrattiva che hanno oggi concetti semplificati e banalizzati che fanno leva sull'interesse, sugli egoismi, sulle paure, sul desiderio di vendetta, sull'odio razziale, sulla superiorità della nostra civiltà su tutte le altre...
Ogni volta che andiamo a Gerusalemme non abbiamo mai mancato di “andare pellegrini” a Yad Vashem, il mausoleo della Shoah che gli israeliani hanno là voluto erigere a costante e perenne memoria di questo agghiacciante momento della loro storia e della storia dell'umanità. Recente¬mente, dallo scorso anno per precisione, una nuova enorme struttura ha occupato quasi metà della collina su cui sorge il memoriale: una struttura che in un gran numero di sale raccoglie una ag¬ghiacciante documentazione dell'antisemitismo lungo tutto il percorso dei secoli. Al di là di alcune letture ed interpretazioni inevitabilmente parziali, non ho potuto fare a meno di riflettere a lungo su quanto si legge entrando nell'ultima sala: “Liberated, but not free” (che tradotto liberamente suo¬na: Liberati ma non liberi). Non penso che la mia interpretazione sia in sintonia con il pensiero di chi ha posto quella scritta, ma non mi pare fuori luogo. “Liberati ma non liberi” mi è sembrata una inconsapevole sintesi del lungo itinerario nell'antisemitismo; che nessuno nega, che spesso è stato “patrimonio culturale” anche di tanti cristiani, ma che oggi troppo spesso viene usato in chiave politica, quasi in forma ricattatoria, come ho sottolineato in altre occasioni, finendo per to¬gliergli tutta la violenza emotiva che proprio la Shoah ha definitivamente dato a questa parola. L'antisemitismo finirà quando non sarà più un cappio nella mente e nel cuore degli ebrei, come laccio con cui imprigionare tutti coloro che non hanno nessun odio né rancore né inimicizia nei loro confronti, ma non possono e non vogliono condividere il sogno “sionista”, non accettano, come ha detto il papa, di cedere “alla tentazione dell'odio razziale, che è all'origine delle peggiori forme di antisemitismo”, rivolte spesso nella storia contro il popolo d'Israele, ma che rischiano oggi di trasferirsi su altri popoli semiti (Oriana Fallaci insegna!); saranno davvero liberi quando l'ac¬cusa di antisemitismo non sarà più strumento politico per coprire qualsiasi azione di un governo, quello dello Stato d'Israele, che ha certo il diritto di esistere, di vivere, di prosperare, ma che mag¬giori consensi attirerebbe se operasse soprattutto e prima di tutto per “costruire insieme - a tutti gli altri popoli del Medio Oriente e di tutta la Terra - un mondo di giustizia, di verità e di pace!”. Mi accorgo che tutto lo spazio disponibile è stato occupato dalle “parole degli uomini”... come sempre accade sono le parole e i fatti degli uomini le cause del “silenzio di Dio”. Mi permetterete di riflettere su questo “silenzio” la prossima settimana. dwf

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