La proposta di introdurre nelle scuole italiane, pubbliche e private, un’ora di religione islamica, alternativa a quella cattolica, per gli alunni di fede musulmana, non ha fatto breccia né nella politica né nella Chiesa… In verità, la proposta ha subito ricevuto un sì autorevole nel mondo cattolico, quello del presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, card. Renato Martino: «A meno che gli islamici non scelgano di convertirsi al cristianesimo – perché la libertà di religione è un principio sancito dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo – se scelgono di conservare la loro religione hanno diritto ad istruirsi nella loro religione. Con i debiti “controlli”, inoltre, l’insegnamento nelle scuole eviterebbe che i giovani di religione islamica finiscano nel radicalismo». Sulla stessa linea il card. Georges Cottier, secondo il quale “per milioni di immigrati la conoscenza è antidoto al fondamentalismo”. D’altra parte, in passato, aveva manifestato una posizione di apertura nei confronti della medesima problematica lo stesso Benedetto XVI, quando il dibattito aveva coinvolto il suo paese natale, la Germania. In un’intervista del ’99 l’allora cardinal Ratzinger specificava che le organizzazioni islamiche richiedenti quell’insegnamento avrebbero dovuto attestare “una piena adesione alla Costituzione” tedesca e dare garanzie che non venisse a realizzarsi “un indottrinamento ma un’informazione equilibrata e oggettiva sull’Islam” (e in effetti in alcuni Länder tedeschi l’insegnamento è stato poi sperimentato secondo questi principi).
Il mondo politico con argomentazioni più o meno etnocentriche e difensive dell’identità cristiana, ha bollato la proposta come espressione di un “malinteso pluralismo culturale”. Una secca smentita delle posizioni del card. Martino è invece giunta dal presidente della Cei, card. Bagnasco: «L’ora di religione cattolica nelle scuole di Stato si giustifica in base all’articolo 9 del Concordato, in quanto essa è parte integrante della nostra storia e della nostra cultura. Pertanto, la conoscenza del fatto religioso cattolico è condizione indispensabile per la comprensione della nostra cultura e per una convivenza più consapevole e responsabile. Non si configura, quindi, come una catechesi confessionale, ma come una disciplina culturale nel quadro delle finalità della scuola. Non mi pare che l’ora di religione ipotizzata corrisponda a questa ragionevole e riconosciuta motivazione». Dichiarazione formalmente ineccepibile; io stesso ho in più occasioni difeso la “necessità” dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola e continuo a difenderlo, anche se non ritengo corretto porlo in maniera esclusiva. Condivido quanto ha scritto Franco Monaco: «La questione, di portata epocale, dell’immigrazione e, segnatamente, le politiche tese all’integrazione dentro una società multiculturale e multireligiosa sono un terreno singolarmente congeniale a un confronto che trascenda gli schieramenti. Nello specifico, la proposta ha il merito di riaprire una discussione su tre problemi di rilievo tra loro connessi: come fare i conti con la società multireligiosa; come svolgere in concreto l’idea di una “laicità positiva e del confronto”, che muova cioè dalla convinzione che le religioni rappresentano una risorsa più che un problema per la vita culturale e civile; come ovviare al problema – sostanzialmente negletto – degli studenti che non si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica e che spesso se ne stanno in oziosi o se ne tornano a casa».
Se la proposta è politicamente impraticabile, al momento attuale credo urgente e importante aprire un dibattito culturale, libero da logiche di parte e da rigidità ideologiche, per ripensare l’intero assetto scolastico del discorso religioso; e intanto, nei prevedibili tempi lunghi di attivazione di una nuova e adeguata risposta della scuola alla “domanda religiosa” della società, qualificare l’attuale offerta scolastica in materia.
Intanto poiché le attività scolastiche per i “non avvalentisi” dovrebbero avere attinenza all’area etico-religiosa, potrebbero proporre, quale oggetto di studio, la religione islamica o/e la religione ebraica o/e un’etica sociale… Sicché, la proposta di un’ora facoltativa di religione islamica potrebbe, in primo luogo, contribuire a coprire “l’ora del vuoto” come è stata definita l’ora alternativa. Si tratterebbe di un’ora rivolta non solo agli eventuali studenti musulmani ma anche ai “non avvalentisi”, che potrebbero scegliere tra le varie opportunità offerte dalla scuola. Capisco che una difficoltà nascerebbe dallo statuto stesso di queste religioni “teocratiche”, nelle quali è faticoso distinguere il sapere dal credere, la religione dalla fede. Se fa difficoltà per la scuola la “confessionalità” della religione cattolica (che però riconosce la laicità delle istituzioni pubbliche), a maggior ragione diventa incompatibile una religione che si identifica con la propria fede. Ma, poi, perché offrire questo necessario approfondimento culturale solo ai “non avvalentesi”?
La provocazione della proposta va allora accolta per aprire un cantiere di riflessione e di rielaborazione dell’intero assetto del discorso religioso nella scuola. Penso che non risponda alle attese di una educazione interculturale l’attivazione di tante “ore” quante sono le religioni professate nella società, tantomeno se destinate, ciascuna, ai fedeli di quelle religioni. Ma nello stesso tempo penso che il diritto di scelta educativa rivendicato per i cattolici debba valere anche per chi cattolico non è, secondo i principi della nostra Costituzione. Ma selezionare gli studenti sulla base della loro anagrafe confessionale, creerebbe e aumenterebbe non l’integrazione ma la ghettizzazione delle diverse appartenenze religiose; le materie di studio, anche quelle religiose, vanno offerte a tutti gli studenti e devono rientrare pienamente nel curricolo scolastico di ciascuno. La moltiplicazione degli insegnamenti confessionali – l’ora islamica oggi, poi quella ortodossa e così via – confermerebbe la tesi che alla religione va riservato un insegnamento particolare e, per di più, mantenuto all’interno dei recinti confessionali; ciò non favorirebbe la reciproca conoscenza, il dialogo tra le fedi e le culture diverse. In questa prospettiva si pone la proposta di attivazione autonoma, da parte della scuola, di un corso curricolare di cultura interreligiosa per tutti declinato sulle tre religioni, ebraica, cristiana, islamica, da articolare su base storico-comparata e con impianto fenomenologico-ermeneutico.
Mi sembra perciò decisamente più persuasiva, e soprattutto più conforme allo statuto ideale di una scuola pubblica compiutamente formativa, l’idea – avanzata vent’anni or sono da Pietro Scoppola e Luciano Pazzaglia, ripresa di recente da Massimo Cacciari – di un insegnamento aconfessionale di cultura religiosa obbligatorio per tutti naturalmente affidato a insegnanti vincitori di regolare concorso pubblico. Non è impossibile mettere a fuoco contenuti e metodi di una tale disciplina, che certamente dovrebbe privilegiare le grandi religioni monoteiste così decisive nel forgiare la civiltà occidentale. Sarebbe altresì uno stimolo a reintrodurre lo studio della teologia e delle scienze religiose nelle università pubbliche, presenza che si è interrotta all’inizio del secolo scorso. A fondamento di tale “terza via” sta il convincimento che il vero, grande problema che ci affligge è l’analfabetismo religioso, l’ignoranza dei grandi Libri sacri. Si attesterebbe, per questa via, la rilevanza delle religioni nella cultura e dunque nella formazione culturale delle nuove generazioni. Ci si porrebbe al riparo dell’insidia dello slittamento di insegnamenti confessionali nella direzione impropria dell’indottrinamento e del proselitismo. Conosco le resistenze della Chiesa di fronte a tale ipotesi. Ma oggi la società multireligiosa è già una realtà. Con le opportunità e i problemi, anche pastorali, che essa porta con sé. Condivido l’auspicio di Franco Monaco: «La Chiesa farebbe bene a rifletterci e a raccogliere positivamente la sfida. Senza timori. Essa ha i mezzi e la forza per farlo. Nessun altra istituzione dispone delle sue risorse umane, culturali, organizzative per forgiare gli insegnanti. Il Concordato è uno strumento e non un fine e, nel suo preambolo, che ne fissa l’ispirazione di fondo, sta scritto che Stato e Chiesa si impegnano a cooperare per la promozione della persona e il bene del paese. In questo caso, il bene della scuola, della cultura, dell’integrazione socio-culturale». dwf
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