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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

lunedì 30 marzo 2009

Israele e la deriva religiosa dell'esercito

di Christopher Hitchens
in “Corriere della Sera” del 25 marzo 2009

Le rivelazioni sulle atrocità commesse dai soldati israeliani a Gaza indicano che i rabbini militari hanno incitato alla «Guerra santa» per l'espulsione dei non ebrei dalla terra di Israele. Lo studioso israeliano Dany Zamir, che per primo ha raccolto testimonianze di soldati israeliani sotto choc, viene citato spesso come se questi insegnamenti estremisti fossero una novità. Non lo sono. Ricordo una visita in Israele nel 1986, quando il capo cappellano dell' esercito nei territori occupati, il rabbino Shmuel Derlich, consegnò alle truppe una lettera pastorale in cui ordinava di applicare il comandamento biblico di sterminare gli Amalechiti, perché «nemici di Israele». Nessuno però si era imbattuto negli ultimi tempi in un Amalechita, e per questo motivo un funzionario dei servizi di informazione dell'esercito israeliano chiese al rabbino Derlich se poteva essere più preciso e indicare chiaramente a chi si riferiva. In maniera piuttosto evasiva — anche se allarmante — il religioso rispose, «i tedeschi». Non ci sono tedeschi in Giudea né in Samaria e neppure, a quanto io ne sappia, nell'intero Antico Testamento, e pertanto l'esortazione del rabbino a trucidare tutti i tedeschi e allo stesso modo, probabilmente, tutti i palestinesi, fu sottoposta al tribunale militare. Quaranta rabbini militari si fecero avanti pubblicamente in difesa di Derlich e la conclusione alquanto fiacca del giudice fu che il nostro uomo non aveva commesso alcun reato, ma gli consigliava in futuro di trattenersi dal fare dichiarazioni politiche a nome dell'esercito.
Il problema in questo caso è appunto che il rabbino non aveva fatto nessuna dichiarazione politica, ma adempiva al suo dovere religioso nel ricordare ai fedeli le parole esatte della Torah. Non è affatto insolito in Israele ascoltare i dibattiti dei rabbini militari su come interpretare il seguente passo del Libro dei Numeri, 31, 13-18 (nella mia traduzione del 1985). Gli Israeliti hanno infierito senza pietà contro i Midianiti, uccidendo tutti i maschi adulti. Ma, interviene il loro severo comandante, non hanno fatto il loro dovere fino in fondo: «Mosè si adirò con i comandanti dell'esercito che erano tornati dalla campagna militare. "Avete risparmiato le donne! Eppure sono state proprio loro che, su ordine di Balaam, hanno indotto gli Israeliti a peccare contro il Signore nella faccenda di Peor, e la comunità del Signore è stata punita con la pestilenza. Ora, pertanto, uccidete tutti i maschi tra i bambini e tutte le giovani donne che hanno conosciuto un uomo carnalmente, ma risparmiate quelle giovani che non hanno avuto rapporti carnali con un uomo"».
(...) Se gettiamo uno sguardo all'orrenda catasta di morti tra i civili palestinesi, risultato dell'attacco israeliano, è facile intuire la strada intrapresa nel medio e lungo termine. I coloni razzisti e i loro complici tra i rabbini stanno allevando un esercito dentro l'esercito in modo che un giorno, se verrà mai presa la decisione di smantellare o evacuare gli insediamenti abusivi nei territori palestinesi, ci saranno ufficiali e soldati a sufficienza, corroborati dai rabbini e dai loro sermoni estremisti, che si rifiuteranno di eseguire gli ordini. Si scoveranno i versetti della Torah che consentono di ammazzare anche gli ebrei laici, e non solo gli arabi. Le prove di tutto ciò sono già in corso, con le attenuanti religiose ripescate per il massacro di Baruch Goldstein e i cavilli talmudici per l'assassinio di Yitzhak Rabin. Questa esegesi biblica, un tempo ritenuta estrema e metaforica, oggi si avvicina pericolosamente alla norma. È giunto il momento che gli Stati Uniti revochino tutti gli aiuti finanziari a Israele che possano venire impiegati anche indirettamente nelle attività degli insediamenti, non solo perché tale colonizzazione rappresenta il furto della terra di un altro popolo, ma anche perché la Costituzione americana ci vieta esplicitamente di spendere denaro pubblico per il sostegno di qualunque fede religiosa.

traduzione di Rita Baldassarre © Nyt Syndicate

lunedì 23 marzo 2009

NON DIMENTICHI - Lettera a Benedetto XVI


Carissimo Saidna, siamo sacerdoti, religiose, religiosi e laici che amano la Terra santa.
La comunione di fede e di fraterna amicizia che ci lega ai cristiani e alle comunità della terra del Santo, ci spinge a scriverLe questa lettera nel giorno in cui ha annunciato il Suo viaggio pastorale con il desiderio forte di “pregare per l’unità e per la pace”.
La visita del Santo Padre alle Chiese locali in ogni parte della terra è sempre evento di Grazia per confermare nella fede, accogliere nella carità e incoraggiare nella speranza i fedeli delle parrocchie e delle diocesi. Per questo vogliamo esprimerLe la nostra preoccupazione per il grado di prostrazione, umiliazione e oppressione che i cristiani, in quanto palestinesi, vivono da decenni soprattutto nei Territori occupati.
Al Santo Padre che viene a confermare nella fede noi, ripetutamente pellegrini nelle comunità cristiane di Terra santa, confermiamo che la fede di questi nostri fratelli è duramente provata da indescrivibili sofferenze.
Al Santo Padre che viene per accogliere nella carità noi, che sperimentiamo la loro straordinaria ospitalità, attestiamo l’evangelica logica di nonviolenza che i palestinesi esercitano ogni giorno nei più di seicento check-point che frantumano le loro esistenze personali e familiari.
Al Santo Padre che viene a incoraggiare nella speranza noi, che tragicamente ne prendiamo atto ogni volta di più, ripetiamo che i nostri cristiani la stanno perdendo giorno dopo giorno, logorati dalla disperazione di una vita senza dignità e senza orizzonti di pace.
Santità, con questa lettera ci facciamo portatori della richiesta di tante sorelle e fratelli desiderosi di incontrarLa e di essere ascoltati perché, anche se fin dai tempi di Gesù la vocazione dei cristiani è stata quella del “piccolo gregge”, la tragedia della loro crescente emigrazione a causa delle conseguenze dell’occupazione militare e del soffocamento economico, preoccupa non solo per la sua riduzione a meno del 2% della popolazione, ma anche perché in occidente è sempre più ricorrente la falsa interpretazione di questa diminuzione a causa di una presunta “persecuzione” da parte dei fratelli musulmani. Ma i nostri preti di Terra santa ci ribattono che non è questa la realtà dei fatti e, insieme ai loro fedeli, insistono con ancor più vigore e apprensione: “Non abbandonateci! Interessatevi di noi e della nostra vita strangolata dal sistema di permessi e restrizioni militari, espropriata, come la nostra terra natia, murata viva da quel muro illegale e immorale”.
Noi ben conosciamo quanta ingiustizia deve sopportare il popolo palestinese, e in esso i cristiani, per la perversa opera distruttiva del sistema di occupazione militare che soffoca le esistenze e le aspirazioni basilari di sopravvivenza dignitosa nella loro terra, con l’ininterrotta colonizzazione, la distruzione delle case, l’abbattimento degli ulivi e la disgregazione della vita sociale ed economica delle comunità arabe, cristiane e musulmane. Questa non è la via per garantire sicurezza e portare pace.
Lei ben conosce le conseguenze del muro di apartheid che è stato costruito per più di settecento chilometri, non sul confine della Linea Verde del 1967, ma in gran parte dentro i Territori Palestinesi per rubare terre, sorgenti d’acqua e risorse. Questo “muro di distruzione” - come lo chiama il Patriarca emerito Sabbah - è la negazione di ogni possibile conoscenza e fiducia reciproca tra israeliani e palestinesi. Per questo Giovanni Paolo II amplificava la condanna inequivocabile della Corte de L’Aja e dell’Assemblea generale dell’Onu con la sua magnifica, lapidaria e nel contempo amara considerazione: “Non di muri ha bisogno la Terra santa, ma di ponti!”.
Lei conosce il dolore di quei sacerdoti che faticano ad ottenere il visto dalle autorità militari israeliane. Trattati alla stregua di terroristi, non possono lasciare le parrocchie per andare in Patriarcato a Gerusalemme o per pregare nei luoghi santi e, a volte per anni, non riescono a far visita ai loro genitori -talvolta neppure il giorno del loro funerale- pena il rischio che venga loro negato il rientro nel luogo del ministero.
Santità, con la Sua parola, Lei potrà aiutare anche tutti i pellegrini di ogni parte del mondo a ripensare le modalità del pellegrinaggio: insieme alla preghiera nei luoghi santi è necessario mettere in programma l’incontro e l’ascolto delle “pietre vive”, le comunità che da due millenni qui custodiscono la presenza cristiana. Ci aiuti Santità a rispondere all’appello del Patriarca di Gerusalemme Mons. Twal: “Vi siamo riconoscenti per gli aiuti concreti che non fate mancare alla Chiesa di Terra Santa ma non dimenticatevi che abbiamo bisogno di giustizia e di pace!”. Ci aiuti a compiere pellegrinaggi che aprano il cuore al dolore e alla paura che segnano la vita di questi popoli spalancando gli occhi sulle ingiustizie di cui milioni di esseri umani sono vittime quotidiane.
Santità siamo consapevoli che tanti, troppi villaggi desidereranno la Sua presenza; comprendiamo l’impossibilità di visitare tutta la Terra santa, ma siamo anche certi che tanti cristiani non avranno il permesso delle autorità militari israeliane per venire ad incontrarLa, così come non possono mai recarsi a Betlemme o a Gerusalemme per pregare. Tutti loro attendono una parola di conforto di fronte a questa palese ingiustizia confidando nella Sua preghiera. Non li dimentichi!
Non dimentichi Santità di onorare la memoria delle migliaia di ulivi strappati alla terra e alle famiglie cristiane di Aboud e concentrati simbolicamente nell’ambone della chiesa parrocchiale: un tronco abbattuto dalle ruspe, da cui risuona ad ogni Eucarestia la Parola che rende veramente liberi.
Non dimentichi Santità i nostri cristiani di Gaza. Siamo consapevoli di quanto sia difficile rispondere all’appello del parroco di andare a visitare la loro comunità, dopo il massacro che solo qualche settimane fa si è abbattuto sulla Striscia, mostruoso come la pioggia infuocata di bombe e di morte che ha ucciso insieme a 1500 persone, tra cui più di 400 bambini, le speranze di sopravvivenza di un popolo stremato da anni di embargo e prigionia.
Non dimentichi Santità che ogni venerdì dal 1 marzo 2004 ci sono suore, preti e laici che pregano il rosario sotto il muro che divide Betlemme da Gerusalemme, invocando il dono della pace e della giustizia per permettere ai due popoli di riprendere a vivere insieme sulla stessa terra.
Santità, Le chiediamo di far Sue le aspettative dei cristiani e di tutti gli uomini alla giustizia, alla dignità umana, alla pace giusta dopo tanta oppressione. Dal pulpito di Betlemme le Sue parole chiare e coraggiose potranno aiutare Israele e l’Autorità palestinese a riconoscere le reciproche responsabilità.
Non è più questo il tempo di parlare di “processo di pace”. Questa è l’ora della pace. L’ora di restituire la libertà ai prigionieri, la terra ai proprietari, la sicurezza a tutti.

Betlemme, 8 marzo 2009
II Domenica di Quaresima, Domenica della Trasfigurazione del Signore

LE FIRME DEI SACERDOTI, RELIGIOSE, RELIGIOSI E LAICI CHE CONDIVIDONO QUESTA LETTERA VERRANNO CONSEGNATE A PAPA BENEDETTO XVI IL 10 APRILE, VENERDI SANTO, TRADIZIONALE GIORNATA DI PREGHIERA E SOLIDARIETA’ CON LA CHIESA DI TERRA SANTA.

Primi firmatari sono i pellegrini che hanno partecipato, insieme ai cristiani di Betlemme, alla giornata di preghiera e sensibilizzazione Un Ponte per Betlemme 2009:
don Nandino Capovilla, Venezia
Rosanna Tommasi, Milano
Chiara Pellicci, Lucca
Annarita Cenacchi, Bologna
Anne Marie Finco, Milano
Ivana Castellani, Torino
don Mario Cornioli, Montevarchi
Giovanna Di Stefano, Ragusa
Adriana Longoni, Bruxelles
Emanuele Sgarra, Andria
Antonino Ielo, Casaleccio
Giovanni Minuto, Genova
Rosaline Costa, Bangladesh
Clara Bigazzi, Pisa
Paolo Berloni, Pesaro
Cristina Martino, Torino
Gabriella Nardin, Milano
Rita Zanutel, Venezia
Giuseppe Scarabelli, Milano
Maria Chiara Zambon, Venezia
Giovanna Bruno, Andria
Armando De Vuono, Firenze
don Roberto Sarti, Pesaro
Franco Dinelli, Pisa
Silvia Pontillo, Firenze
Daniela Rossato, Varese
Carmela Schembari, Ragusa
Elio Maria Pozzi, Concorezzo
Francesca Cecchi, Roma
Giovanni Sacchetti, Pescara
padre Daniele Moschetti, Gerusalemme
Angelo Vianello, Venezia
don Giuseppe Andreozzi, Lucca
Maria Pierina Peano, Cuneo
Olinto Rossato, Varese
Michelina Pia Guagliano, Montichiari
Renzo Dutto, Cuneo
Fabrizia Bigazzi, Pisa
Betta Tusset, Venezia
Chiara Ferrazzini, Milano
don Walter Fiocchi, Alessandria
Anna Maria Di Leo, Andria

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venerdì 20 marzo 2009

Il materialismo di Dio. Meditazione prepasquale.

«Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede» è la limpida constatazione di San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (1 Cor. 15.14).
Alla luce di queste parole appare in tutta la sua sfolgorante evidenza il fatto che la religione più che un discorso su Dio e sui suoi rapporti con l’uomo, assume il significato di una risposta alla drammatica constatazione del fatto che siamo mortali.
Qualora infatti noi credessimo in un essere soprannaturale, ma non nella nostra sopravvivenza, inutile sarebbe veramente la fede; non solo la nostra.
Se è la morte a dare un senso alla nostra esistenza, è altrettanto vero che è la resurrezione a qualificare il nostro credo.
La religione assume significato in quanto è l’unica forma di pensiero in grado di fornire una risposta positiva all’insopprimibile domanda di vita ed all’angoscia allagante prodotta dalla consapevolezza della morte.
«O greggia mia che posi, oh te beata, che la miseria tua, credo, non sai!» scriveva Leopardi; alla base della sofferenza psichica umana sta l’affioramento della coscienza e, con essa, della coscienza del proprio destino.
Senza la speranza «Ammettere dunque si deve che intera si dissipa la sostanza dell’anima, simile al fumo, nell’alte regioni dell’aria, perché la vediamo nascere e crescere insieme col corpo e invecchiare sfinita con gli anni del corpo» (Lucrezio, De rerum natura, III).
E senza di essa «né c’è differenza tra chi non è nato mai in alcun tempo e chi ha dato la vita mortale alla morte immortale» (Lucrezio, De rerum natura, III).
La religione è una biologia/tanatologia, prima di essere una teologia.
Ciò che aggiunge di fondamentale il cristianesimo è una forte componente materialistica.
Tutto il messaggio evangelico è intriso di MATERia: la carne, il sangue, il pane, il vino, l’acqua, la croce.
Si tratta di un materialismo speciale, che non si contrappone alla dimensione spirituale e trascendente, e anzi la integra e la completa.
Un Dio incarnato che nasce come un uomo, vive come un uomo e come un uomo muore; ma anche un uomo che risorge alla vita come solo un Dio può fare.
Questa è l’apoteosi della nostra fede.
Stupendo è il passo del Vangelo di Luca nel quale si racconta l’apparizione di Gesù, dopo l’abbandono del sepolcro, agli apostoli increduli che “Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?» (Luca, 24.37-41).
Il Signore compare non come una visione, ma come un essere umano in tutto e per tutto; si fa tastare e chiede di essere nutrito.
La morte ha perso il suo potere su di lui.
L’inesorabile decadenza della materia, soprattutto di quella organica, è stata arrestata e invertita, questa volta per sempre, e le ferree leggi dell’entropia che regolano la freccia del tempo sono annichilite.
Come questo sia possibile non lo possiamo sapere perché attiene al campo di ciò che sta oltre la Physis e dunque la natura.
Ma se la Pasqua è reale, significa che possiamo immaginare una vita nuova, materica e spirituale insieme.
Una eterna crescita con gli altri esseri nell’amore e nella luce di Dio.
Una esistenza senza tempo dalla quale la morte ed il male fluiranno invano, come in un vaso forato. Marco Ciani

mercoledì 18 marzo 2009

L'Italia non parteciperà alla conferenza Onu sul razzismo

L’Italia non parteciperà alla conferenza dell’Onu sul razzismo, denominata “Durban II”, prevista a Ginevra dal 20 al 25 aprile.
Lo ha comunicato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, che ha giudicato alcune frasi della bozza di dichiarazione finale “aggressive e antisemite”. Il documento esprime infatti una critica durissima nei confronti della politica israeliana nei territori palestinesi occupati. Nella dichiarazione, pubblicata dal quotidiano israeliano Haaretz, si legge che la condotta tenuta da Tel Aviv costituisce “una violazione dei diritti umani internazionali, un crimine contro l'umanità e una forma contemporanea di apartheid”. In altri stralci del testo viene espressa “profonda preoccupazione per le discriminazioni razziali compiute da Israele contro i palestinesi e i cittadini siriani nel Golan occupato, mentre Tel Aviv viene accusata di “tortura, blocco economico, gravi restrizioni di movimento e chiusura arbitraria dei territori” oltre che di costituire “una minaccia per la pace internazionale e la sicurezza”.
Alla decisione italiana dovrebbe aggiungersi anche quella di Danimarca, Francia, Canada e Belgio, mentre Stati Uniti e Olanda hanno già comunicato la loro assenza.
La conferenza è il seguito di quella che si svolse nel 2001 a Durban, in Sudafrica, quando la richiesta di un risarcimento per la schiavitù negli Stati Uniti e l’equiparazione di sionismo e razzismo provocarono l’abbandono dei lavori da parte di Washington e Tel Aviv. http://it.peacereporter.net

sabato 14 marzo 2009

La mano invisibile

Grazie a don Felice per la segnalazione!

Ogni individuo mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni. Né il fatto che tale fine non rientri sempre nelle sue intenzioni è sempre un danno per la società. Perseguendo il proprio interesse, egli spesso persegue l'interesse della società in modo molto più efficace di quando intende effettivamente perseguirlo (Adam Smith - 1776).

Da quando ero bambino ho le mie paure, come tutti. Prima era la paura di vedere mio padre arrabbiato, di essere obbligato a mangiare il rafano, di prendere zero all’esame di matematica. Paura, sotto la dittatura, di essere messo sotto da un’auto della polizia. Paura, sotto la pioggia battente, che la mia baracca nella favela, posizionata sul bordo di un precipizio, fosse trascinata via dall’acqua.
Oggi colleziono altre paure. Una di queste è la paura per la mano invisibile del Mercato. Dell’invisibile, l’unica cosa che non temo è Dio. Ho paura dei batteri e degli extraterrestri. I primi li combatto con gli antibiotici – termine improprio perché significa “contro la vita”, dato che li prendiamo per difenderla.
Quanto agli extraterrestri, sono più tranquillo dopo aver saputo che la distanza più grande raggiunta nello spazio dalla nostra tecnologia è quella raggiunta dalle emissioni televisive. Sicuramente, nel riceverle, gli esploratori interplanetari sono arrivati alla conclusione che sulla Terra non c’è vita intelligente…
Torno alla mano invisibile del Mercato. Dove la mette? Preferibilmente nelle nostre tasche. Specialmente in quelle dei più poveri. Ed è invisibile perché è cinica, come qualsiasi reato commesso di nascosto. Per esempio il Mercato pratica l’estorsione alle tasche dei più poveri attraverso le tasse sui prodotti e i servizi. Tutto potrebbe essere meno caro se non fosse per questa mano tonta che si immischia in quello che consumiamo.
Adesso che il Mercato è entrato in crisi – dato che la bolla che ha gonfiato gli è scoppiata in faccia – dov’è che mette la mano? La risposta, quella sì è visibile: nelle tasche del governo. Negli Stati Uniti il Mercato, negli ultimi rantoli del governo Bush (di infausta memoria), ha messo mano a 830 mila milioni di dollari e adesso ha ottenuto altri 900 mila milioni di dollari dall’appena debuttata amministrazione Obama. Tutto per mettere al sicuro questa fortuna nella tasca bucata del sistema finanziario.
Oltretutto, la mano invisibile del Mercato non conosce le tasche dei cittadini. Imperfetta com’è, favorisce sempre le tasche dei ricchi. E’ il caso del Brasile. Prima della crisi (e delle prossime elezioni) il governo cerca di rivitalizzare / anabolizzare il PAC (Programma di Accelerazione della Crescita), in modo che la mano del Mercato possa riempire, e al più presto, le tasche dei costruttori di opere pubbliche e delle imprese private incaricate delle suddette opere.
Già me lo diceva mia nonna: “Attento a dove metti quella mano!”. E mi obbligava a lavarmela prima di sedermi a tavola. Bene, credo che la mano del mercato sia invisibile perché non si lava mai. Al contrario, lava il denaro senza lavarsi lo sporco che lo impregna. E’ quello che deduco nel leggere la notizia che, nei paradisi fiscali, la liquidità delle grandi banche è stata assicurata, negli ultimi anni, grazie ai depositi del narcotraffico.
La mano può essere invisibile ma le sue impronte digitali no. Là dove il Mercato mette la mano rimane il segno. Soprattutto quando ritira la mano, lasciando senza protezione migliaia di disoccupati, buttati in strada dall’insolvenza, strozzati da debiti astronomici.
Il Mercato è come un dio. Tu credi in lui, metti in lui la tua fede, lo veneri, fai sacrifici per compiacerlo, ti senti colpevole quando fai un passo falso in relazione a lui – nonostante che la colpa sia sua, come nel caso dell’acquisto di azioni che lui ha venduto promettendo fortune e che ora non valgono un bel niente.
Come un dio, lo si può conoscere solo dai suoi effetti: la Borsa, il salario, l’ipoteca, l’interesse, il debito, ecc. Si manifesta attraverso la sua creazione, senza lasciarsi vedere o localizzare. Nessuno sa esattamente che faccia ha o in quale luogo si nasconde, nonostante che sia onnipresente. Manifesta la sua presenza persino nella candela venduta sulla porta della chiesa. E mette la mano, la famosa mano invisibile, la temuta mano invisibile, questa mano più abominevole di quella che i tarati osano mettere sotto il vestito della donna in piedi sull’autobus. E non serve a niente gridare “togli quella mano da qui!”. Nonostante che la mano invisibile manipoli chiaramente la nostra qualità della vita, privilegiando i pochi e asfissiando la maggioranza, nessuno si libera di lei. Poiché è invisibile, nessuno può tagliarla. Rimane solo una possibilità: tagliare la testa al Mercato. Ma questa è un’altra storia.
Oggi ho parlato della mano. La testa è per un altro giorno. Frei Betto alainet.org / 10 marzo 2009

giovedì 12 marzo 2009

Speciale su Gaza di Rai3 "Presa diretta"

Riflessioni sulla vicenda Eluana Englaro

Ripropongo la versione integrale dell'articolo pubblicato sul Supplemento n. 2 di Appunti Alessandrini, sottoscritto da tutta la Redazione.

Avrebbe dovuto essere un tranquillo articolo su uno degli «snodi di cultura politica che la difficile gestazione del PD dovrebbe affrontare, dal momento che si tratta di formazione politica che proviene da tradizioni plurali» (A. Pietrasanta, AP Supplemento, dicembre 2008); certo uno “snodo” difficile e impegnativo, perché avrebbe dovuto affrontare i temi etici riguardanti la vita, il suo inizio, la sua fine, alla ricerca di un possibile punto di incontro e di mediazione condivisa tra le diverse culture… ma ora tutto è diverso. La scelta che più mi sarebbe piaciuta sarebbe quella di “Pilato”; tacere e lavarmene le mani; o, da credente, invitare alla preghiera; e sarebbe scelta di Pilato anche quella di far tacere le domande che si affollano dentro e affrontare una semplice e semplicistica riflessione introdotta da un bel: “La Chiesa dice che…!”. Ma il clamore, le implicazioni, i dubbi, le infinite domande suscitate dalla umana vicenda di Eluana Englaro impediscono le scelte pilatesche. Anche se dico subito che questa non può che essere una riflessione che offra risposte, ma solo può suscitare ulteriori dubbi e nuove domande… e non perché la mia generazione porta in sé, e forse ha prodotto, un demoniaco “relativismo culturale”, ma piuttosto perché è una generazione segnata dal “dubito, ergo sum”; e anche se credenti non ci sentiamo per questo “possessori della verità”, ma sempre “cercatori”, cercatori della verità (della Verità), cercatori di Dio. Così che ci sentiamo profondamente feriti quando vediamo lo scontro di “verità contrapposte”, verità conflittuali (assurdo!), verità impugnate come spade. Avrebbe dovuto essere “una storia umana quanto mai delicata” nella quale entrare in punta di piedi, perché in essa «il mistero della vita si fa più denso, quasi inaccessibile alla luce della sola ragione, e lancia una sfida formidabile per la libertà di ciascuno di noi», come ha scritto il card. Tettamanzi; invece abbiamo (ho) provato sconcerto e vergogna per le parole utilizzate da più parti, nella società, nella politica, purtroppo anche nella Chiesa. Invece di parole di misericordia, vicinanza e perdono, di dialogo e di rispetto, parole per alimentare dubbi, giudizi inappellabili, parole scagliate come pietre contro un padre come se fosse giudice e boia della figlia. Forse perché non ha scelto la soluzione pilatesca di altri, di tanti altri… Non posso dimenticare quante volte un prete deve aiutare padri, madri, figli a liberarsi da angoscianti sensi di colpa che assalgono anche in occasioni meno drammatiche: “Forse non ho fatto tutto quello che avrei potuto… forse avrei potuto dargli ancora qualche giorno o mese di vita…”. Mi chiedo che cosa non avrebbe dato il papà di Eluana per poter dire la stessa cosa…
Che dire allora? Allo stato attuale della ricerca (medica, scientifica, filosofica, teologica) chi può dire con certezza quando comincia e quando finisce la vita? Come possiamo distinguere tra vita meramente “biologica” – privata per sem-pre di mente, coscienza e possibilità di una qualsiasi relazione - e vita vera-mente “umana”? È legittima poi questa distinzione? O la vita è sempre e co-munque qualcosa di sacro e assoluto, come qualcuno sostiene? Procedo per punti.
• Mi sento di affermare prima di tutto la necessità del dialogo, con la con-vinzione che la conoscenza oggettiva della realtà è frutto di un cammino condiviso, secondo il detto: “La tua verità? Non mi interessa. La verità? Cerchiamola insieme!”. Il dialogo non è un’arma dissimulata per piegare verso idee predeterminate l'interlocutore, strumentalizzandolo in funzione del proprio obiettivo, ma virtù che comporta ascolto attento delle ragioni dell'altro; non si tratta di affrontare un nemico, ma di entrare in relazione con una persona da accogliere senza condizioni così come è (e non come si vorrebbe che fosse). Purtroppo nel contesto attuale non è l’atteggiamento che possiamo aspettarci dallo squallido livello di certa politica…
• L'ambito della riflessione etica sulla vita e sulla morte abbraccia molteplici «zone grigie», cioè situazioni in cui «non è subito evidente quale sia il vero bene dell'uomo e della donna, sia di questo singolo sia dell'umanità intera», come si è ben espresso il card. Martini. Le zone grigie sono dovute al tipo di sapere con cui abbiamo a che fare quando ci interroghiamo in prospettiva etica su questi temi di confine tra la scienza e la filosofia/teologia. Entrano infatti in gioco due tipi di conoscenza differenti: da una parte i dati delle scienze sperimentali, dall'altra una riflessione sul senso del vivere e dell'agire umani. Do per assodato che i risultati delle scienze empiriche siano per molti aspetti relativi e modificabili, in quanto le teorie scientifiche sono provvisorie. È perciò impossibile dedurre immediatamente dalle scienze conseguenze che riguardano il saper etico. È difficile mettere in relazione il linguaggio scientifico-biologico con quello filosofico-teologico. Il primo non è in grado di dire una parola sul senso, soprattutto quando è in gioco la vita dell'uomo, cioè di colui che si pone la domanda stessa sul senso. Ma è impossibile parlare del corpo umano come se fosse un’entità biologica, un oggetto neutrale, pura e semplice cosa, ignorando il contesto e il progetto di senso in cui è fin dal suo principio inserito. La vita non è riducibile a oggetto biologico ma «è, piuttosto, l'esperienza di un senso donato, che dischiude alla coscienza una promessa che la interpella, sollecitandola all'impegno e alla decisione di sé, nella relazione con l'altro» (Chiodi M., Etica della vita, Glossa, Milano, 2006), una frase questa in cui non tento di addentrarmi, ma che ci fornisce elementi importanti di valutazione per ciò che riguarda la vicenda di Eluana e dei suoi familiari.
• E al di là e oltre talune affermazioni di uomini di Chiesa che sono sem-brate a molti esprimere certezze rasentanti il “fondamentalismo”, o un presuntuoso possesso della Verità, è ormai dato magisteriale assodato che la prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana, dignità che nella visione biblica comporta una apertura alla vita eterna che Dio promette all'uomo. Possiamo dire che sta qui la definitiva dignità della persona. La vita fisica va rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto. Già Pio XII affermava: «La vita, la salute, tutta l'attività temporale sono infatti subordinate a fini spirituali». E Giovanni Paolo II - dopo aver ricordato che «l'uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena, perché consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio» - ribadiva la «relatività della vita terrena», precisando che essa «non è realtà "ultima", ma "penultima"». Il rispetto per la vita umana non è quindi sacralizzazione della sua dimensione biologica, ma alla relazione d'amore con Dio che la vita testimonia e rende possibile e questa relazione con Dio ci viene concretamente mediata nelle relazioni interpersonali: la nostra identità personale è costitutivamente relazionale. Ma quando questa relazionalità (con Dio, con gli altri) non è più in alcun modo sussistente?
• Si è a lungo dibattuto su eutanasia e rinuncia a terapie sproporzionate. Potremmo dire che eutanasia è un gesto che intende abbreviare la vita, cau-sando positivamente la morte, dove è secondario stabilire se l'intenzione di abbreviare la vita si realizzi tramite un'azione o tramite un'omissione, perché entrambe discendono da una decisione, di intervenire o di astenersi, posta dal soggetto. Eutanasia e rinuncia a trattamenti possono perciò avere material-mente l’identico risultato, ma possiedono un significato completamente diffe-rente sotto il profilo etico. E credo sia necessario ancora distinguere tra uccidere e lasciar morire. La sospensione delle cure non provoca la morte, ma smette piuttosto di combattere i fattori che ne sono causa. Ancora: è davvero così chiaro e assodato che «la somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali – come afferma un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1 agosto 2007 -, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l'idratazione e il nutrimento del paziente»? Ma chi può fissare oggi con chiarezza, soprattutto nei casi più complessi di stato vegetativo permanente, il confine tra «assistenza medica» e «procedure mediche sproporzionate»? Lo stesso documento della Congregazione afferma che l'obbligo di somministrare cibo e acqua per vie artificiali permane «nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria». Né possiamo trascurare la distinzione tra alimentazione e idratazione “naturali” e la somministrazione di prodotti che naturali non sono, in quanto supporti medico-chimici per mantenere in vita il paziente. Potrebbe un malato in queste condizioni nutrirsi del “naturale” Cibo del credente, il pane e il vino sacramentali?
• La Dichiarazione sull'eutanasia della Congregazione per la dottrina della fede del 1980, ha chiaramente attribuito il compito di prendere decisioni «alla coscienza del malato o delle persone qualificate per parlare a nome suo, oppure anche dei medici» (n. 4). Indirettamente si tocca qui anche il tema del “testamento biologico”. Il malato stesso ha un ruolo di primo piano nelle scelte riguardanti le cure. Egli non deve però essere lasciato solo, ma accompagnato dalla relazione tra medico e paziente e insieme paziente e familiari. E quando il malato non è più in grado di esprimersi, in quanto privo di coscienza? Mi pare equilibrata la soluzione francese: nel caso il malato rifiuti ogni intervento, salvo le cure palliative, i medici dovranno sottomettersi a tale diniego, dopo aver percorso fino in fondo la via del dialogo, con lui o con i suoi “fiduciari”. Negli altri casi andranno mantenute le cure ordinarie, con particolare riferimento all'alimentazione. Chi può decidere, di conseguenza, che in quel caso concreto la nutrizione forzata si può sospendere? È evidentemente un giudizio di natura tecnica, che non può venire né dai magistrati, né dai vescovi, né dai soli familiari. La decisione finale dovrebbe essere allora una scelta condivisa, frutto di “un'alleanza terapeutica” tra i vari soggetti che sono parti in causa nella vicenda: paziente, medico e personale sanitario, familiari e persone vicine, ciascuno con la propria “scienza e coscienza”.
• Nel marasma di problemi e domande che restano sul campo concludo con due sottolineature.
«Nella sofferenza è nascosta, con un’intensità estrema, la forza ascensionale del mondo. Il problema sta tutto nel liberarla, rendendola cosciente del suo si-gnificato e del suo potere». I diciassette anni di sofferenza vissuti in piena co-scienza dagli Englaro, e le scelte “scomode” che hanno fatto, mi sembra si possano collocare nell’alveo della citata affermazione di Theilard de Chardin; ma Eluana non era nelle condizione di poterla fare sua…
Mi sembra infine possibile cercare e raggiungere un'intesa sulle pratiche che la legge sarà chiamata a regolare. Si tratta di trovare le vie per facilitare al morente l'incontro e l'accettazione della morte, non «di collaborare alla sua realizzazione», di fornire un accompagnamento e «un aiuto nel morire, non un aiuto per morire», come hanno scritto i Vescovi di Friburgo, Strasburgo e Basilea nel 2007. Almeno finché sussiste uno sprazzo di ragionevole speranza. dwf

Valico di Eretz (confine tra Israele e la striscia di Gaza)

Pubblico il pezzo che con i miei due compagni d'avventura abbiamo steso di getto appena rientrati - si fa per dire - da Gaza! Mi sembra che esprima bene e bene faccia comprendere qual è la tragica situazione. Gaza è un autentico "campo di concentramento" da cui nessuno esce e niente e nessuno può entrare se la sicurezza israeliana non lo consente (e non lo consente quasi mai), non solo dalla cosiddetta "guerra" (perchè ci sia una guerra ci devono essere almeno due eserciti che si contrappongono, sia pure nella disparità di forze... quello che c'è stato è stato solo un vero e proprio massacro: 1500 morti, per ora, di cui 400 bambini. Gaza era da anni e anni una prigione a cielo aperto; ora è un campo di concentramento. Rischio l'accusa di antisemitismo se affermo che quello che è Yad Vashem (il Museo della Shoah a Gerusalemme) per gli Ebrei, sta diventando Gaza per i Palestinesi, con la differenza che a Yad Vashem ci sono foto e documenti, mentre a Gaza ci sono un milione e mezzo di esseri umani!

8 marzo 2009, seconda domenica di Quaresima
I permessi richiesti con largo anticipo, la corsia preferenziale del Patriarcato Latino, l’auto diplomatica e “le amicizie giuste” contattate fino all’ultimo momento: non e’ bastato tutto questo per farci entrare nella Striscia di Gaza. Quattro ore del nostro attendere invano ad Eretz non sono comunque nulla rispetto all’attesa di decenni di un milione e mezzo di persone per i rifornimenti sufficenti a sopravvivere ad un embargo che continua ancora intatto dopo il massacro di Natale. Ma non siamo i soli ad essere stati respinti. Davanti alla bella soldatessa che distribuisce a tutti con soddisfazione lo stesso rifiuto ad un sospirato ingresso nella prigione di Gaza, siamo comunque in buona compagnia: dai funzionari svizzeri della Croce Rossa internazionale ai membri di un’equipe di tecnici dell’Unione Europea, ai dottori svedesi che seguono progetti per la salute mentale dei bambini. È uno di loro che ci bisbiglia sottovoce: “Noi avevamo monitorato anche la città di Jenin dopo la strage, ma qui a Gaza, stavolta, il livello distruttivo del massacro non ha paragoni con quello del 2002”. La fila dei rifiutati ad Eretz annovera nel tempo figure ben più autorevoli di noi, dal Relatore Speciale dell’ONU Falk al Patriarca Emerito di Gerusalemme e al Nunzio Apostolico, dalla delegazione degli Enti locali per la pace con Flavio Lotti e l’intero staff italiano la scorsa settimana ai membri di Medici senza frontiere che stamattina sperano che l’assoluta arbitrarietà dei responsabili dell’ingresso nella prigione di Gaza giochi a loro favore.
Non conta chi tu sei. Tutti fuori. Non c’è niente da vedere nella Striscia devastata da venti giorni di feroce assalto dal cielo, dalla terra e dal mare. E noi ingenui a pretendere la motivazione del rifiuto: ad ogni cambio di guardia continuavamo a domandare se fosse arrivato il permesso ma la risposta era sempre uguale.
La sicurezza. Ecco il motivo per cui oggi non possiamo entrare a Gaza. La sicurezza: il grande, assoluto motivo che giustifica da anni ogni azione illegale e criminale di Israele, il grande dio a cui sacrificare tutto. “La sicurezza - ci ricordava qualche giorno fa un prete vicino a Ramallah - è la prima religione in Terra santa, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam vengono subito dopo”.
Per motivi di sicurezza oggi tre preti italiani non possono andare a celebrare la Messa nella parrocchia di Gaza. In effetti, la preghiera può essere davvero pericolosa, perché Dio non ha mai sopportato i soprusi dei violenti e l’arroganza degli oppressori, e “ha rovesciato i potenti dai troni e innalzato gli umili”.
Sotto il sole del valico di Eretz, lo stesso che a pochi metri di distanza fa maturare le meravigliose fragole di Gaza -ormai tutte inquinate, come del resto l’ottimo pesce, dalle armi di distruzione di massa israeliane - aspettiamo invano l’ennesima gentile concessione dell’esercito di occupazione, ma ad ogni ora che passa si fa più chiara la percezione che nessuna autorità al mondo, né quelle consolari (“Stiamo provando... ma in certi casi è meglio non forzare...”) né quelle ecclesiastiche, possono illudersi di dare indicazioni alla suprema autorità che difende la sicurezza di Israele.
Solo la voce calda e tristissima del parroco di Gaza ci benedice da quel suo cellulare che durante l’assedio di Natale inviava ogni giorno ai suoi parrocchiani disperati, un versetto del Vangelo via sms: “La comunità cristiana di Gaza è triste oggi - ci dice abouna Manawel - perché avevamo preparato per voi una grande festa. Vi aspettavamo per celebrare l’Eucarestia in comunione con le chiese in Italia e per un bel pranzo, ma non ci rassegnamo all’ennesima prova. Continuiamo a sperare in Dio!”.
Negli uomini, in effetti, è molto più difficile riporre la nostra speranza... Sembra ricordarcelo l’enorme dirigibile militare che dal cielo spia ogni movimento di ogni palestinese di Gaza, strumento sottile per quella che viene ritenuta dal mondo intero una lotta senza quartiere contro tutte le forme di terrorismo che in ogni istante agiscono con l’obiettivo di distruggere lo stato d’Israele.
I fiori di campo, con la loro elegante bellezza, si distendono dentro i prati di Gaza ben oltre questo terminal di cemento e odio, annunciando la primavera. Poco più in là le tracce minacciose dei cingolati nel fango rappreso sanno solo ricordarci una “Striscia” infinita di sangue e una tregua che non ha niente a che fare con la pace.
E mentre il vento, irriverente forza della natura che Israele non e’ ancora riuscito a controllare, porta fino a noi il suono delle campane a festa della chiesa di Gaza, non ci resta che risalire nella macchina diplomatica per far ritorno a Gerusalemme.
don Mario Cornioli, don Nandino Capovilla, don Walter Fiocchi