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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

giovedì 12 marzo 2009

Riflessioni sulla vicenda Eluana Englaro

Ripropongo la versione integrale dell'articolo pubblicato sul Supplemento n. 2 di Appunti Alessandrini, sottoscritto da tutta la Redazione.

Avrebbe dovuto essere un tranquillo articolo su uno degli «snodi di cultura politica che la difficile gestazione del PD dovrebbe affrontare, dal momento che si tratta di formazione politica che proviene da tradizioni plurali» (A. Pietrasanta, AP Supplemento, dicembre 2008); certo uno “snodo” difficile e impegnativo, perché avrebbe dovuto affrontare i temi etici riguardanti la vita, il suo inizio, la sua fine, alla ricerca di un possibile punto di incontro e di mediazione condivisa tra le diverse culture… ma ora tutto è diverso. La scelta che più mi sarebbe piaciuta sarebbe quella di “Pilato”; tacere e lavarmene le mani; o, da credente, invitare alla preghiera; e sarebbe scelta di Pilato anche quella di far tacere le domande che si affollano dentro e affrontare una semplice e semplicistica riflessione introdotta da un bel: “La Chiesa dice che…!”. Ma il clamore, le implicazioni, i dubbi, le infinite domande suscitate dalla umana vicenda di Eluana Englaro impediscono le scelte pilatesche. Anche se dico subito che questa non può che essere una riflessione che offra risposte, ma solo può suscitare ulteriori dubbi e nuove domande… e non perché la mia generazione porta in sé, e forse ha prodotto, un demoniaco “relativismo culturale”, ma piuttosto perché è una generazione segnata dal “dubito, ergo sum”; e anche se credenti non ci sentiamo per questo “possessori della verità”, ma sempre “cercatori”, cercatori della verità (della Verità), cercatori di Dio. Così che ci sentiamo profondamente feriti quando vediamo lo scontro di “verità contrapposte”, verità conflittuali (assurdo!), verità impugnate come spade. Avrebbe dovuto essere “una storia umana quanto mai delicata” nella quale entrare in punta di piedi, perché in essa «il mistero della vita si fa più denso, quasi inaccessibile alla luce della sola ragione, e lancia una sfida formidabile per la libertà di ciascuno di noi», come ha scritto il card. Tettamanzi; invece abbiamo (ho) provato sconcerto e vergogna per le parole utilizzate da più parti, nella società, nella politica, purtroppo anche nella Chiesa. Invece di parole di misericordia, vicinanza e perdono, di dialogo e di rispetto, parole per alimentare dubbi, giudizi inappellabili, parole scagliate come pietre contro un padre come se fosse giudice e boia della figlia. Forse perché non ha scelto la soluzione pilatesca di altri, di tanti altri… Non posso dimenticare quante volte un prete deve aiutare padri, madri, figli a liberarsi da angoscianti sensi di colpa che assalgono anche in occasioni meno drammatiche: “Forse non ho fatto tutto quello che avrei potuto… forse avrei potuto dargli ancora qualche giorno o mese di vita…”. Mi chiedo che cosa non avrebbe dato il papà di Eluana per poter dire la stessa cosa…
Che dire allora? Allo stato attuale della ricerca (medica, scientifica, filosofica, teologica) chi può dire con certezza quando comincia e quando finisce la vita? Come possiamo distinguere tra vita meramente “biologica” – privata per sem-pre di mente, coscienza e possibilità di una qualsiasi relazione - e vita vera-mente “umana”? È legittima poi questa distinzione? O la vita è sempre e co-munque qualcosa di sacro e assoluto, come qualcuno sostiene? Procedo per punti.
• Mi sento di affermare prima di tutto la necessità del dialogo, con la con-vinzione che la conoscenza oggettiva della realtà è frutto di un cammino condiviso, secondo il detto: “La tua verità? Non mi interessa. La verità? Cerchiamola insieme!”. Il dialogo non è un’arma dissimulata per piegare verso idee predeterminate l'interlocutore, strumentalizzandolo in funzione del proprio obiettivo, ma virtù che comporta ascolto attento delle ragioni dell'altro; non si tratta di affrontare un nemico, ma di entrare in relazione con una persona da accogliere senza condizioni così come è (e non come si vorrebbe che fosse). Purtroppo nel contesto attuale non è l’atteggiamento che possiamo aspettarci dallo squallido livello di certa politica…
• L'ambito della riflessione etica sulla vita e sulla morte abbraccia molteplici «zone grigie», cioè situazioni in cui «non è subito evidente quale sia il vero bene dell'uomo e della donna, sia di questo singolo sia dell'umanità intera», come si è ben espresso il card. Martini. Le zone grigie sono dovute al tipo di sapere con cui abbiamo a che fare quando ci interroghiamo in prospettiva etica su questi temi di confine tra la scienza e la filosofia/teologia. Entrano infatti in gioco due tipi di conoscenza differenti: da una parte i dati delle scienze sperimentali, dall'altra una riflessione sul senso del vivere e dell'agire umani. Do per assodato che i risultati delle scienze empiriche siano per molti aspetti relativi e modificabili, in quanto le teorie scientifiche sono provvisorie. È perciò impossibile dedurre immediatamente dalle scienze conseguenze che riguardano il saper etico. È difficile mettere in relazione il linguaggio scientifico-biologico con quello filosofico-teologico. Il primo non è in grado di dire una parola sul senso, soprattutto quando è in gioco la vita dell'uomo, cioè di colui che si pone la domanda stessa sul senso. Ma è impossibile parlare del corpo umano come se fosse un’entità biologica, un oggetto neutrale, pura e semplice cosa, ignorando il contesto e il progetto di senso in cui è fin dal suo principio inserito. La vita non è riducibile a oggetto biologico ma «è, piuttosto, l'esperienza di un senso donato, che dischiude alla coscienza una promessa che la interpella, sollecitandola all'impegno e alla decisione di sé, nella relazione con l'altro» (Chiodi M., Etica della vita, Glossa, Milano, 2006), una frase questa in cui non tento di addentrarmi, ma che ci fornisce elementi importanti di valutazione per ciò che riguarda la vicenda di Eluana e dei suoi familiari.
• E al di là e oltre talune affermazioni di uomini di Chiesa che sono sem-brate a molti esprimere certezze rasentanti il “fondamentalismo”, o un presuntuoso possesso della Verità, è ormai dato magisteriale assodato che la prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana, dignità che nella visione biblica comporta una apertura alla vita eterna che Dio promette all'uomo. Possiamo dire che sta qui la definitiva dignità della persona. La vita fisica va rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto. Già Pio XII affermava: «La vita, la salute, tutta l'attività temporale sono infatti subordinate a fini spirituali». E Giovanni Paolo II - dopo aver ricordato che «l'uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena, perché consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio» - ribadiva la «relatività della vita terrena», precisando che essa «non è realtà "ultima", ma "penultima"». Il rispetto per la vita umana non è quindi sacralizzazione della sua dimensione biologica, ma alla relazione d'amore con Dio che la vita testimonia e rende possibile e questa relazione con Dio ci viene concretamente mediata nelle relazioni interpersonali: la nostra identità personale è costitutivamente relazionale. Ma quando questa relazionalità (con Dio, con gli altri) non è più in alcun modo sussistente?
• Si è a lungo dibattuto su eutanasia e rinuncia a terapie sproporzionate. Potremmo dire che eutanasia è un gesto che intende abbreviare la vita, cau-sando positivamente la morte, dove è secondario stabilire se l'intenzione di abbreviare la vita si realizzi tramite un'azione o tramite un'omissione, perché entrambe discendono da una decisione, di intervenire o di astenersi, posta dal soggetto. Eutanasia e rinuncia a trattamenti possono perciò avere material-mente l’identico risultato, ma possiedono un significato completamente diffe-rente sotto il profilo etico. E credo sia necessario ancora distinguere tra uccidere e lasciar morire. La sospensione delle cure non provoca la morte, ma smette piuttosto di combattere i fattori che ne sono causa. Ancora: è davvero così chiaro e assodato che «la somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali – come afferma un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1 agosto 2007 -, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l'idratazione e il nutrimento del paziente»? Ma chi può fissare oggi con chiarezza, soprattutto nei casi più complessi di stato vegetativo permanente, il confine tra «assistenza medica» e «procedure mediche sproporzionate»? Lo stesso documento della Congregazione afferma che l'obbligo di somministrare cibo e acqua per vie artificiali permane «nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria». Né possiamo trascurare la distinzione tra alimentazione e idratazione “naturali” e la somministrazione di prodotti che naturali non sono, in quanto supporti medico-chimici per mantenere in vita il paziente. Potrebbe un malato in queste condizioni nutrirsi del “naturale” Cibo del credente, il pane e il vino sacramentali?
• La Dichiarazione sull'eutanasia della Congregazione per la dottrina della fede del 1980, ha chiaramente attribuito il compito di prendere decisioni «alla coscienza del malato o delle persone qualificate per parlare a nome suo, oppure anche dei medici» (n. 4). Indirettamente si tocca qui anche il tema del “testamento biologico”. Il malato stesso ha un ruolo di primo piano nelle scelte riguardanti le cure. Egli non deve però essere lasciato solo, ma accompagnato dalla relazione tra medico e paziente e insieme paziente e familiari. E quando il malato non è più in grado di esprimersi, in quanto privo di coscienza? Mi pare equilibrata la soluzione francese: nel caso il malato rifiuti ogni intervento, salvo le cure palliative, i medici dovranno sottomettersi a tale diniego, dopo aver percorso fino in fondo la via del dialogo, con lui o con i suoi “fiduciari”. Negli altri casi andranno mantenute le cure ordinarie, con particolare riferimento all'alimentazione. Chi può decidere, di conseguenza, che in quel caso concreto la nutrizione forzata si può sospendere? È evidentemente un giudizio di natura tecnica, che non può venire né dai magistrati, né dai vescovi, né dai soli familiari. La decisione finale dovrebbe essere allora una scelta condivisa, frutto di “un'alleanza terapeutica” tra i vari soggetti che sono parti in causa nella vicenda: paziente, medico e personale sanitario, familiari e persone vicine, ciascuno con la propria “scienza e coscienza”.
• Nel marasma di problemi e domande che restano sul campo concludo con due sottolineature.
«Nella sofferenza è nascosta, con un’intensità estrema, la forza ascensionale del mondo. Il problema sta tutto nel liberarla, rendendola cosciente del suo si-gnificato e del suo potere». I diciassette anni di sofferenza vissuti in piena co-scienza dagli Englaro, e le scelte “scomode” che hanno fatto, mi sembra si possano collocare nell’alveo della citata affermazione di Theilard de Chardin; ma Eluana non era nelle condizione di poterla fare sua…
Mi sembra infine possibile cercare e raggiungere un'intesa sulle pratiche che la legge sarà chiamata a regolare. Si tratta di trovare le vie per facilitare al morente l'incontro e l'accettazione della morte, non «di collaborare alla sua realizzazione», di fornire un accompagnamento e «un aiuto nel morire, non un aiuto per morire», come hanno scritto i Vescovi di Friburgo, Strasburgo e Basilea nel 2007. Almeno finché sussiste uno sprazzo di ragionevole speranza. dwf

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