Ieri sera, 10 giugno, un piccolo gruppo di persone si è ritrovato nella Cripta del Suffragio per accogliere l'invito del Consiglio Ecumenico delle Chiese e dei leader delle Chiese cristiane di Gerusalemme ad un momento di mobilitazione, sensibilizzazione e (per i credenti) preghiera per la Terrasanta. Ripropongo la meditazione che ho proposto ai presenti.
Si può cadere nell’errore etimologico di tradurre questo nome con “la città della pace” (Jeru = città , shalaim = dalla radice ebraica shalom-pace), ma in realtà il nome ha proprio il significato opposto non di derivazione ebraica, ma addirittura indeuropea: Jeru = città , shallu = dio della guerra. Allora se Gerusalemme è “la città del dio della guerra” non c’è proprio speranza per il suo destino? No, l’uomo e l’umanità intera sono chiamati a conformare la Gerusalemme terrena sul modello della Gerusalemme celeste, vera città della pace e della giustizia, così come l’Apocalisse ci descrive nelle sue pagine.
Gerusalemme, città cara a tutte e tre le tradizioni religiose abramitiche e mo-noteiste, città verso la quale secondo le profezie convergeranno tutti i popoli per farla diventare la città della pace, in cui tutte le nazioni si riuniranno, ma al tempo stesso città nella storia, lacerata, distrutta, simbolo più di odio che di amore. Città sulla quale già Gesù ha pianto e questo a causa della sua incredulità, per non aver capito il momento in cui veniva “visitata” dall'inviato dal Padre, dal Figlio eterno “impronta della Sua Sostanza”. E tuttavia anche questo è il mistero di Gerusalemme, che rivela il profondo rapporto che c'è tra la fede e la pace (come a dire che senza fede non può esservi pace). È la Città delle tre radici:
• il popolo ebraico è eletto per santificare la città e Gerusalemme diventa così la città delle sue radici, è chiamato da Dio per preparare la venuta del Messia Salvatore del mondo.
• Gesù Cristo, Verbo di Dio incarnato, vi è morto e risuscitato, e Gerusalem-me diventa la città delle radici del popolo cristiano.
• l'islam è venuto, ha riconosciuto la santità della città, l'ha chiamata la «santa» e vi è rimasto dal secolo settimo fino a oggi.
Ed oggi, e già da secoli, tutti i tre monoteismi insieme a Gerusalemme. E per tutti noi, Gerusalemme è la città santa, e così deve rimanere.
"Una città dove la Parola di Dio e la dignità umana si collegano strettamente"
Per gli Ebrei era sempre un momento di grande intensità emotiva il pellegri-naggio verso Gerusalemme, “città del sommo Dio”. Quando arrivavano certe date, un fremito di commozione prendeva l'animo di tutti. E mentre salivano verso il colle di Sion, cantavano i salmi detti delle “ascensioni”. Uno dei più belli è il salmo 122: “Quale gioia, quando mi dissero: andremo alla casa del Signore. E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! ... Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano; sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: su di te sia pace”: l'icona degli ebrei che salgono verso Gerusalemme, città della pace, deve essere paradigmatica per noi, pellegrini che faticosamente saliamo le alture alla ricerca della pace.
Dovremmo avere antenne più sensibili a captare le modulazioni di violenza emesse da tutte le direzioni.
Hanno ancora valore le parole che Solgenitsin scriveva nel 1972: “I tipi di co-ercizione più pericolosi per la pace sono quelli che agiscono senza missili nu-cleari, senza flotte e senza aviazione, e sono tanto larvati che si potrebbe quasi scambiarli per tradizioni e usanze abituali... Per ottenere pace autentica, è necessario che la lotta contro le forme invisibili, larvate, di violenza sia condotta con la stessa decisione con cui se ne combattono le forme clamorose... L'impegno è quello di cancellare dagli uomini l'idea che qualcuno possa avere il diritto di usare violenza contro il diritto e la giustizia. Non si serve la causa della pace se ci si abbandona alla benignità di coloro che usano la violenza: la pace è favorita da colui che integralmente, decisamente e instancabilmente difende il diritto dei perseguitati, degli oppressi, degli assassinati”.
Ma dovremmo avere anche antenne sensibili a captare le modulazioni di pace, e a ritrasmetterle per dare speranza alla gente.
La pace è il più grande bene umano, perché è la somma di tutti i beni messia-nici. Pace non è solo assenza di conflitto, cessazione delle ostilità, armistizio. Non è neppure soltanto la rimozione di parole e gesti offensivi (Mt 5,21-24), neppure solo perdono e rinuncia alla vendetta, o saper cedere pur di non en-trare in lite (cfr Mt 5,38-47). Pace è frutto di alleanze durature e sincere, (en-during covenants e non solo enduring freedom). In virtù di questa unità e di questa alleanza ciascuno può dire al fratello: tu sei sommamente importante per me, ciò che è mio è tuo. Ti amo più di me stesso, le tue cose mi importano più delle mie. E poiché mi importa sommamente il bene tuo, mi importa il bene di tutti, il bene dell'umanità nuova: non più solo il bene della famiglia, del clan, della tribù, della razza, dell'etnia, del movimento, del partito, della nazione, ma il bene dell'umanità intera: questa è la pace. Ogni azione contro questo “bene comune”, questo “interesse generale” affonda le radici nella paura, nell'invidia e nella diffidenza. Genera i conflitti e nutre gli odi che causano le guerre. Ci vorrà una intera storia e superstoria di grazia per compiere tale cammino. Ma è questa la pace che è mèta della vicenda umana.
Lo Shalom non nasce dal regolamento internazionale dei conflitti. Non viene fuori dai trattati e dalle pattuizioni delle cancellerie. Non è semplice frutto di operazioni diplomatiche. Non è il puro risultato che si ottiene da sforzi di buona volontà. Questi elementi sono pure necessari, ma come predisposizione all'accoglimento del dono di Dio. Da soli, otterranno al massimo il disarmo, non la pace. Produrranno la coesistenza pacifica, non l'esistenza della pace. La pace è “oriens ex alto”, come la Chiesa. E come ci stiamo abituando a pensare alla “Ecclesia de Trinitate”, così dobbiamo abituarci a pensare alla “pax de Trinitate”. Di qui, dovrebbero scaturire molteplici iniziative tutte da inventare, e che vanno dalla stimolazione nei confronti delle nostre comunità ecclesiali, al coinvolgimento dei pastori, alla pressione sui vescovi perché siano più audaci in certe denunce e impegnino il loro magistero anche sul terreno difficile della pace, a una maggiore “parresia” delle nostre Chiese locali.
Stare in mezzo agli ultimi. Perché, partendo da essi, va riformulata la strategia di ogni movimento che si impegna per la pace. È mettendosi in corpo l'occhio del povero che potremo ridisegnare la cartina geografica dei luoghi dove oggi Cristo è crocifisso. Se sapremo compiere questo pellegrinaggio verso la gente (scegliendo la dimensione popolare del nostro impegno), verso le comunità ecclesiali (portando al loro interno il soffio della universalità e della speranza) e verso gli oscuri domicili degli ultimi (rendendoli protagonisti del loro riscatto), allora si sprigionerà davvero, dai sotterranei della storia più che dai palazzi dei potenti, una incontenibile dossologia trinitaria.
L'icona biblica che ci richiama la dimensione politica della pace e che traduce la coscienza in progetto, è quella del buon samaritano in viaggio sulla Gerusa-lemme-Gerico.
E' su quest'asse che si giocano i sogni delle nostre utopie. È l'asse che parte dalla Città Santa (Gerusalemme è la città del tempio; è il luogo dove si celebra l'ultima cena, dove si consuma la morte di Gesù e si realizza la sua risurrezione; è l'epicentro della pentecoste...) e conduce verso Gerico (verso l'ecumene, la storia, anzi la cronaca: cronaca nera, per giunta, che ha come protagonisti dei briganti, i quali spogliarono, percossero, lasciarono mezzo morto un uomo, simbolo di tutti gli oppressi della terra). È l'asse su cui la fede interseca la storia, la speranza incrocia la disperazione della terra, la carità s'imbatte con i frutti della violenza. Tra i verbi che traducono i comportamenti concreti del samaritano (“lo vide, n'ebbe compassione, gli si fece vicino, gli fasciò te ferite, gli versò olio e vino, lo caricò sul suo giumento, lo portò ad una locanda, si prese cura di lui”), quello che mi sembra più espressivo è questo: “Gli si fece vicino”. Il samaritano non lasciò il malcapitato sulla strada, per andare in città a denunciare l'accaduto alle forze dell'ordine. Non si recò agli sportelli della polizia per sporgere querela contro ignoti. Non andò a protestare contro le omissioni del Ministero degli Interni. Non lasciò boccheggiante sul sentiero verso Gerico quell'uomo mezzo morto per convocare una conferenza-stampa sul degrado etico della città, o sulle violenze del sistema, o sull'inadempienza dei poteri costituiti. Il gesto fondamentale che ritenne di compiere fu quello di “farsi vicino”, e passare dal piano della denuncia a quello della costruzione diretta. La testimonianza, la solidarietà, la partecipazione, il coinvolgimento del popolo si pongono al servizio di un unico grande progetto storico da realizzare. Divengono i nuovi strumenti della politica. dwf
Nessun commento:
Posta un commento