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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

sabato 29 dicembre 2007

L’anno nuovo

“Indovinami, indovino, tu che leggi nel destino: l’anno nuovo come sarà? Bello, brutto, o metà e metà?”.
Gli avvenimenti di questi giorni, dal Pakistan con i suoi bagliori atomici, ai delitti di Garlasco e Perugia, dalla classe politica che continua a dare uno spettacolo indecoroso fino ai lutti recenti degli operai della Tissen…beh, confesso di provare un poco di malinconia.
Certo, se guardo la mia situazione personale - tocchiamo ferro - non mi posso lamentare.
Ma dove cercare un po’ di speranza per questo nostro triste mondo inquieto?
Perfino Papa Benedetto XVI ha sentito il bisogno di dedicare una enciclica alla speranza, che infatti inizia così « SPE SALVI facti sumus » – nella speranza siamo stati salvati. Dice san Paolo ai Romani e anche a noi.
Purtroppo la lettura della lettera papale non mi ha molto risollevato. Anzi, mi ha pure creato qualche perplessità in più.
Certo. A chi è credente rimane sempre la speranza di una vita migliore nell’aldilà.
Ma nell’aldiquà? Dobbiamo forse rassegnarci?
Guardando mia figlia che ha compiuto due anni da poco e che ormai incomincia a parlare e, pian piano, a capire il mondo, mi chiedevo cosa potrò dirle un domani, quando vedendo scorrere le immagini del telegiornale o di qualche talk show mi dovesse chiedere “caro papà, in che mondo mi hai fatto nascere?”.
Certamente io non sono di quelli che indulgono alla retorica del “una volta era meglio”. Per carità! Ricordo bene i racconti di mia nonna sulle fame patita, le due guerre mondiali, la paura di un olocausto nucleare e via discorrendo. E se ci spostiamo ancora più indietro nel tempo, peggio che andar di notte.
Ma mi sembra che, fino a qualche anno fa, la percezione portasse a dire che complessivamente la situazione del genere umano andasse, pur in mezzo a mille contraddizioni e ricadute, lentamente ma inesorabilmente migliorando.
Ora non più. Questa sensazione non si avverte. E mi pare anche che la privazione di speranza e l’incertezza del futuro abbiano portato la gente ad essere più incattivita, più diffidente, più disumanizzata e cinica.
Mi sbaglio? Magari!
Se penso al nuovo anno, che tra l’altro avrà un giorno in più - augurandoci che anno bisesto non sia anche anno funesto, come vorrebbe il motto popolare - non lo vedo molto bene.
A parte immaginarmi di nuovo il ghigno di Berlusconi a Palazzo Chigi, magari con Dini premiato alla presidenza del Senato per il tradimento annunciato del governo attuale, raffigurazione che già da sola mi sconforta a sufficienza, non so proprio cosa sarà di questa nostra povera Italia e di questo nostro misero mondo.
Qualche amico mi direbbe, servirebbe un’utopia.
Io gli risponderei, lascia stare le utopie. Hanno già fatto danni incalcolabili. Riponile pure nella grande discarica della storia.
E allora questo amico potrebbe ribattermi “allora dimmi tu, sapientino, cosa ci serve”.
A questa provocazione forse gli risponderei che ci servirebbe un po’ più di compassione per il prossimo, un pizzico di fiducia in noi stessi, una dose abbondante di ragionevolezza e qualche esempio da seguire.
Ma non sto parlando di grandi uomini. Non ci servono improbabili eroi. Sto parlando di persone normali. Anche se, in tempi di esplosioni irrazionalistiche e di cialtroneria diffusa, gli uomini normali, pacifici e ragionevoli sono il fenomeno più rivoluzionario che possa esistere.
Sono coloro che cercano, malgrado tutto, di fare bene e onestamente la loro parte, magari preoccupandosi un pochettino anche degli altri.
E questo si può fare in molti modi.
Per esempio, non frodando il fisco. Finanziando un’adozione a distanza. Donando il sangue. Aiutando in parrocchia. Partecipando alla vita politica del proprio comune. Manifestando per una causa o sottoscrivendo petizioni.
Ci sono parecchie piccole cose che messe insieme possono smuovere veramente le montagne.
E che se moltiplicate per tante persone, diventano un’onda gigantesca capace di spostare la rotta di una nave che altrimenti rischierebbe di andare a sbattere sugli scogli.
Se non mi credete, pensate cosa è riuscito a combinare duemila anni fa un tizio con la barba circondato da una dozzina di mezzi sbandati.
Ecco cosa potrei dire a mia figlia, quando avrà l’età per capire, e a me stesso.
Cerca di comportarti bene e pensa a fare meglio che puoi il tuo. Per il resto, vivi in pace con gli altri, aiutali se puoi, e rispettali. E per cambiare il mondo in positivo, incomincia da te.
Alla fine della fiera, anche la filastrocca di Rodari che la maestra mi aveva fatto imparare a memoria in prima elementare terminava dicendo “Di più per ora scritto non trovo nel destino dell’anno nuovo: per il resto, anche quest’anno…sarà come gli uomini lo faranno”.
marco ciani@hotmail.com

venerdì 28 dicembre 2007

Costituzione: questa sconosciuta

Celebriamo il sessantennio della Costituzione della Repubblica senza entusiasmi e senza particolare attenzione: a troppi la Carta fondamentale dello Stato sembra vecchia, superata e non più adeguata alla situazione del Paese. Le cause sono molteplici; e tuttavia, benché si possa ammettere, e generalmente si ammetta, che alcuni istituti dello Stato (il bicameralismo, i sistemi elettorali incautamente riformati, la figura del premier…) siano inadeguati, sono gli impianti fondamentali della nostra Repubblica, sanciti dalla Carta ad essere scarsamente conosciuti e quindi, molto spesso, irrilevanti.

Il fatto è che la scarsa cultura civica della maggioranza degli Italiani consegue proprio una mancata ricezione dei valori che fondano la Nazione italiana, rinata dopo la caduta del fascismo. Si tratta di valori che dovrebbero essere condivisi e che danno senso alla democrazia; una democrazia solidale perché propone e promuove i diritti individuali in spirito di solidarietà, finalizzando la stessa libertà alla crescita comune dei cittadini, anche di quelli che, lasciati alla sola competizione, non sarebbero in grado per vari motivi, di realizzare il pieno ed integrale sviluppo della loro personalità.
Ne abbiamo parlato spesso ed in più occasioni; ora basti la constatazione che questi fondamentali di libertà coniugati con la solidarietà ed i riconoscimenti del merito individuale promosso, non solo e non tanto per il successo del singolo, ma per la crescita della comunità nazionale ed a favore di tutti e dei
singoli cittadini, questi fondamentali (va ribadito)non sono percepiti nella loro giusta dimensione.
Le ragioni sono molteplici; alcune però sono di pura e semplice constatazione di fatto. Intanto la nascita della democrazia repubblicana è nata su fenomeni storici ed eventi fondanti, non riconosciuti dalla totalità della nazione; il 25 aprile, giorno della liberazione dal totalitarismo di Stato e dunque di ripresa del processo democratico è stata percepita come sconfitta da una parte, sia pure minoritaria degli Italiani: non abbiamo, come nazione, un 14 luglio, una data analoga a quella di Francia. In effetti il movimento della Resistenza oltre ai combattenti per la libertà (ottantamila? duecentomila?) ha visto la partecipazione di appoggio o la presenza interessata, o la presenza obbligata di chi era coinvolto suo malgrado nelle vicende della guerra attraverso tutto il Paese. Queste presenze sono state spesso liquidate con l’espressione di attendismo; sta di fatto che hanno creato una consapevolezza, una coscienza di opposizione alla violenza ed alla guerra, un giudizio di condanna della prepotenza totalitaria.
Il riconoscimento di questa coscienza e di questa consapevolezza, da parte del giudizio storico avrebbe potuto creare il filo dell’unità della nazione attorno agli eventi fondativi della nostra democrazia solidale. Purtroppo questo non è avvenuto: i protagonisti diretti di quegli eventi, meritevoli di gratitudine da parte degli Italiani, hanno però ritenuto, e troppo a lungo, di essere gli artefici pressoché esclusivi della rinascita nazionale e, soprattutto degli esiti democratici, assolutamente straordinari dell’Italia.
La conseguenza fu e permane di lungo periodo e si risolve nella scarsa considerazione, da parte di una nutrita maggioranza degli Italiani, di una carta costituzionale che sarà anche da modificare in alcune sue parti, ma che contiene dei fondamenti straordinari di maturità democratica; l’ignoranza, soprattutto generalizzata, non nasce, di solito, soltanto da volontà insufficiente.

Altra questione attiene la minoranza degli Italiani che hanno scelto soluzioni non coerenti e antitetiche a quelle resistenziali e che di conseguenza non si sono ritrovati, di fatto, con le ovvie conseguenze democratiche. Premetto ciò che in altre sedi ho avuto modo di sottolineare: non si possono mettere sullo stesso piano coloro che hanno combattuto per la liberazione dell’Italia dal totalitarismo e coloro che, pur in buona fede, hanno scelto la difesa del nazi/fascismo. E tuttavia, a prescindere dalla buona fede, troppo tardi è stato riconosciuto il loro contributo di sangue e la persecuzione cui furono sottoposti, anche dopo il 1945 e dunque senza più ragioni militari e/o politiche: gli studi e le ricerche sulle foibe ne costituiscono esempio e prova. Un riconoscimento tempestivo ed adeguato, senza escludere il giudizio di riserva sulle scelte fatte da questa parte degli Italiani, avrebbe forse contribuito al recupero dell’unità della nazione attorno ai valori democratici espressi dalla carta costituzionale ed una più incisiva conoscenza della stessa. Purtroppo questo riconoscimento è stato contestuale ad un attacco ai riferimenti fondativi della nostra democrazia, all’omologazione dei giudizi, al populismo più sfacciato ed alla banalizzazione della politica. Forse troppo tardi, certo fuori luogo.
Agostino Pietrasanta

domenica 16 dicembre 2007

Buon Natale!

Concludo la pubblicazione delle "omelie" richiestemi da Adista con quella per Natale. La offro come meditazione per un Natale alternativo rispetto a quello offerto dal contesto e come augurio ai miei pochi affezionati lettori!

È difficile la festa di Natale! Si dibatte ormai tra la retorica del consumismo, la retorica del buonismo, la retorica delle frasi fatte religiose, la retorica non del sentimento ma dei sentimentalismi, la retorica di una gioia a comando che spesso è solo nostalgia della gioia che avevamo da bambini di fronte al differenziarsi del Natale da ogni altro giorno…
Eppure resta vero ciò che scrive San Leone Magno: «Non c'è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e porta la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità: la causa della gioia è comune a tutti. Esulti il santo, perché si avvicina il premio; gioisca il peccatore, perché gli è offerto il perdono; riprenda coraggio il pagano, perché è chiamato alla vita». Forse ragioni di gioia le possiamo trovare proprio nella meditazione di ciò che è quel bambino: il Figlio di Dio che “si fa carne”! Forse ragioni di gioia le possiamo trovare nella valutazione del contesto in cui questo evento inaudito e impensabile da mente umana avviene.
Da alcuni anni cerco di aiutare questa comprensione per la mia comunità realizzando il presepio in una forma non originale ma espressiva: l’altare della mia chiesa diventa la grotta di Betlemme dove trovano posto i protagonisti del fatto, Maria, Giuseppe, il Bambino, l’asino e il bue; davanti all’altare, sui gradini che scendono verso la navata trovano posto i pastori prima e i magi poi; ma dai gradini il presepio deborda nella navata stessa, come per abbracciare e includere in sé tutti coloro che sono venuti magari convinti di festeggiare un compleanno, o perché richiamati da nostalgie di infanzia, o perché, segnati dalla vita, provano anche questa possibilità di un eventuale momento di serenità. Ma ciò che voglio aiutare a capire con questo semplice strumento è la sostanza del Natale: il Figlio di Dio si è fatto carne, si è fatto uomo, ha amato la vita dell’uomo, oserei dire che ha “invidiato” la nostra vita, tanto da volerla condividere; ma si è fatto carne nel “verso” della storia dell’uomo, non nel “dritto”! Come quando contempliamo un arazzo: è solo il confuso, caotico, apparentemente irrazionale e brutto a vedersi intreccio di fili del “verso” che dà corpo alla bellezza, alla nitidezza, alla gioia di guardare finalmente il “dritto”. Così è per il presepio, o meglio per l’evento rappresentato dal presepio: una festa che include, una festa che abbraccia tutti quale che sia la condizione di vita di ognuno.

Del resto, consideriamo il contesto: una grotta, ricovero di animali domestici. Poesia? No, puzza! I protagonisti: Maria, una ragazza madre che avrà indubbiamente dato molto da parlare alle pettegole e ai benpensanti di Nazareth; Giuseppe, un giovane padre che non riesce a fornire alla sua sposa che sta per partorire niente di meglio di una stalla; i pastori, reietti, emarginati, gente esclusa dai rapporti sociali e religiosi perché di poca onestà, sempre pronti ad approfittare delle proprietà altrui per mantenere in vita in quell’arida terra la loro unica ricchezza, il gregge; di più, assolutamente improponibili e impresentabili perché di indubbia immoralità, data la loro convivenza con il loro gregge! E poi un bambino, in una mangiatoia, un bambino segno di fragilità, di debolezza, di povertà, di dipendenza totale: è proprio il rovesciamento della logica umana per la quale contano la ricchezza, il potere, gli onori, l’autorità… è un fatto che sconvolge il nostro comune modo di pensare, anche religioso! Perché il farsi carne di Dio in questo modo dà fiato e speranza ai poveri della terra, ai derelitti, a quelli che non contano, agli esclusi, ai reprobi, ai moralmente impresentabili. Ecco, a Natale tutti sono inclusi, tutti hanno il diritto di esserci, tutti hanno diritto a un pezzo di pane e di speranza e di accoglienza, tutti sono a diritto nel presepio: il tossico e la prostituta, chi ha perso fiducia, chi è in carcere o è uscito per l’indulto ed è guardato come se anche di questo fosse colpevole, chi prende continuamente porte in faccia o è messo da parte, le coppie “regolari” e le coppie “di fatto”, l’omosessuale che si sente discriminato ed emarginato e guardato con sospetto e l’eterosessuale che cerca faticosamente di imparare ad amare, magari sbagliando i percorsi, lo straniero, come i magi, con la loro religiosità aperta alla ricerca, i credenti non sazi e sicuri nei loro “punti fermi”, ma sempre in cammino un po’ a tentoni, i mal credenti con l’insoddisfazione per i vuoti che trovano in sé, gli atei non “devoti” al loro clericalismo ma perché atei più per disperazione che per convinzione, poiché la loro onesta ricerca è finita in “sentieri interrotti”… Tutti possono tornare a casa lasciando risuonare la parola più bella che risuona a Natale: «Non temete!». «Come Cristo da ricco che era si fece povero, così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria della terra, bensì per diffondere anche col suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione: essa riconosce nei poveri l'immagine del suo Fondatore» (Lumen Gentium, 8). E dunque, buon Natale ai poveri, agli ultimi, agli sconfitti. Per noi, è nato un Salvatore: Dio abita la nostra debole umanità. E non è assente per nessuno.

IV domenica di Avvento

Due protagonisti, Giuseppe e Maria, ma in realtà uno solo: Dio, che prepara un evento di salvezza. Un evento che matura nella sofferenza umana e psicologica di due persone, come spesso avviene per i progetti di Dio. Due persone, un uomo “giusto”, una donna povera, che vivono un dramma personale. Come sempre nella storia della salvezza Dio si manifesta attraverso strumenti poveri, strumenti deboli; si manifesta attraverso la collaborazione dei “piccoli”. Mi colpisce il fatto che en-trambi, Giuseppe e Maria, sono “interpreti” silenziosi, né l’uno né l’altra dicono una parola. Un fatto che darà agio a zelanti predicatori di addebitare loro ogni interpretazione, ogni stato d’animo, ogni psicologismo… e darà modo di esaltare la loro esemplare “obbedienza” così attuale in un tempo in cui in ogni campo in cui si svolge la nostra vita tutti cercano il nostro “obbediente silenzio”: silenzio nella vita ecclesiale, silenzio nella vita politica, silenzio a riguardo delle scelte economiche, silenzio a riguardo della giustizia, silenzio a riguardo della verità che non va cercata attraverso domande, dubbi, indagini, verità parziali, ma deve essere tacitamente accolta così come ti viene data da chi “la possiede” come un dato.
Una prima sottolineatura: la via della sofferenza ci è spesso indicata dalla Scrittura come il nostro modo tipico di collaborare con Dio nella realizzazione del suo progetto di salvezza; forse questo pensiero può dare sostegno e forza ai molti che vivono con sofferenza spirituale questo tratto di sto-ria sociale ed ecclesiale.
Una seconda sottolineatura: il silenzio, oggi per noi, è ancora una virtù? È di fronte a Dio e al dipa-narsi dei suoi misteriosi eventi che Maria e Giuseppe tacciono, non dicono una parola, sembrano come in ombra; ma è per non occupare il posto centrale. La loro posizione è relativa all’Emmanuele, condividendone la situazione e il destino, il rifiuto e l'accoglienza. Sono obbedienti, non protagonisti, ma neppure sono timidi e passivi strumenti nelle mani di un Altro: in realtà sono collaboratori, cooperatori, in qualche misura corresponsabili dell’Evento. In un mondo, sociale ed ecclesiale, di arroganti, di giudici severi degli altri ma arrendevoli, miti e lassisti con se stessi, in un mondo dove la verità è “posseduta” ed usata come clava, in un mondo dove tanti urlano per non far sentire il nulla che hanno da dire, il silenzio è proprio una virtù? Diceva il card. Martini in un me-morabile discorso del 1995, citando S. Ambrogio: «C'è un tempo adatto per tutto: un tempo per ta-cere e un tempo per parlare. Devi tacere quando non trovi un interlocutore disponibile; devi parlare quando il Signore ti concede una lingua sapiente, così da rendere efficace il tuo discorso nel cuore dei tuoi ascoltatori» (Explanatio Psalmi XLIII, 72); e continua: «È necessario, da una parte, prendere atto che non è dato oggi di perseguire l'obiettivo di cristianizzazione della società con strumenti forti del potere; dall'altra, preservare con la massima cura e quasi gelosia la differenza e la peculiarità della Parola cristiana rispetto alle parole correnti, sapendo che proprio così la Parola sarà efficace anche per la salvaguardia e la promozione dell'ethos pubblico di una nazione». Ottima meditazione è comunque tutto il discorso, di cui suggerisco la meditazione (http://www.chiesadimilano.it) per dare il giusto valore spirituale al “silenzio”, senza farne un alibi alla propria pavidità ed al proprio opportunismo e senza delegare ad altri la parola. Viviamo in un tempo in cui si parla molto (forse troppo) della Chiesa e la Chiesa parla molto (forse troppo) di sé stessa, a volte con l’obiettivo di una “cristianizzazione della società con gli strumenti forti del pote-re”; e dunque, proprio per preservare con la “massima cura e gelosia la differenza e la peculiarità della Parola cristiana rispetto alle parole correnti”, oggi il silenzio non è più una virtù! È necessario parlare, è necessario ridare primato a Dio, all’evangelizzazione, all’imprevedibilità delle strade in-dicate dalla Parola, come era imprevedibile e “diverso” dai calcoli umani il “futuro, l’Avvento pro-gettato da Dio per Maria e Giuseppe. Il futuro pensato da Dio non è mai in continuità con il presente dell’uomo. I suoi progetti richiedono strappi, rotture, dialettica. La fede in Lui richiede disponibilità ad uscire dallo status quo rassicurante. Il cristiano e la Chiesa non possono trincerarsi nel chiuso della propria sicurezza dottrinale e nella “mummia” di una “tradizione” malintesa per proteggere la propria identità ed un ruolo, un peso morale ed un rilievo sociali che offrono sicurezza, prestigio e privilegi. Giuseppe, per obbedire all’imprevedibilità di Dio, ribalta un progetto di vita familiare probabilmente già articolato nei dettagli pensati e sognati; Maria per la stessa imprevedibilità sa rischiare la solitudine, l'abbandono, e sa prestare il corpo e la mente perché siano luogo d'innesto di un futuro sognato da Dio. Ma il sogno di Dio era “farsi uomo” e rimanere fra gli uomini. Come entrare noi pure nel “sogno di Dio”? Non ponendoci mai lontano dagli uomini né fuori dal mondo, ma vivendo nel concreto una totale disponibilità ad aiutare questo mondo e questa umanità che Dio ama, amando le diversità e l’imprevedibilità del futuro che Dio pazientemente costruisce.

martedì 11 dicembre 2007

L'era della violenza

(pubblicato su Appunti alessandrini, n. 3)

Chi persiste nel rischiare quotidianamente la depressione e si informa, ha la sensazione di vivere oggi in un mondo estremamente violento. Non solo nel ricco, sazio e assediato Occidente: è tutto il villaggio umano che è intriso di violenza. Ci bruciano ancora le immagini dei funerali del Maresciallo Daniele Paladini di Novi Ligure, morto da poco in un attentato nei pressi di Kabul, in Afganistan. Ogni giorno è una litania: periodici omicidi di o tra giovani bene, normali; orribili delitti familiari; episodi cosiddetti di “bullismo” a scuola, ma che manifestano in realtà un'aggressività che sconfina nel crimine; la densa e caliginosa nebbia del “terrorismo” che ricopre ogni angolo del mondo; l’uccisione di un tifoso che scatena la reazione violenta di facinorosi e teppisti, degenerazione dei movimenti del tifosi del calcio italiano, ma solo ultimo di un lungo elenco di episodi di teppismo e delinquenza legati al calcio, tanto che frequentemente cronaca sportiva e cronaca nera sono tutt’uno; non fanno più cronaca, se non c’è un esito cruento o non c’è la responsabilità di uno “straniero”, i casi quotidiani di violenza sessuale; si compone così un enorme mosaico di violenza fisica e di violenza psicologica. Nonostante l’alto livello di civilizzazione e di sicurezza personale e sociale (altre epoche hanno conosciuto violenze più efferate e più frequenti e mai il mondo è stato così sicuro come adesso), ci sentiamo insicuri e minacciati, la parola ricorrente è insicurezza, paura. Come spiegare la violenza che domina e avvelena tutta la società? È indubbio lo scarso valore dato alla vita dell'uomo da quella concezione che vede l'uomo, padrone del mondo, al centro dell'universo, capace di disporre la realtà esterna a proprio piacimento; la nostra cultura ha fatto crescere nel suo seno l’assioma di Protagora: «L’uomo è la misura di tutte le cose», ritenendo erroneamente che questa potesse essere la radice di un autentico Umanesimo. Questa concezione ha portato gli uomini a centrarsi su se stessi, a ripiegarsi solo sulla propria vita e sul proprio modello di società, sul proprio personale benessere; ha spinto ad agire per ribaltare tutto quanto la società aveva costruito nell'ambito della morale, del diritto, delle regole di condotta in genere. Il bisogno di uscire fuori dai parametri sociali comuni, di evadere a qualunque costo, ha portato all'uso della droga, alla violenza come mezzo di evasione e di ribellione ai quadri sociali esistenti, alla necessità del facile guadagno, al disprezzo per la vita. Questo clima ha arrecato un affievolimento anche dei vincoli familiari, alla violenza contro tutti e contro se stessi. Di più la fine delle ideologie, l'indebolimento delle fedi religiose, la secolarizzazione, fanno sì che ci sentiamo piuttosto disorientati nei confronti delle norme e dei valori. Tutti finiamo per orientarci ad un edonismo spicciolo, ad una ricerca ossessiva del piacere e del divertimento immediati, ai soldi, alla carriera, al potere: ma è l’esito ovvio di una società che presenta come modelli di “uomo riuscito” quelli che sommano in sé e mostrano e incarnano questi versanti della vita che non oso chiamare “valori”. «Se Dio non esiste, tutto è permesso» diceva Dostoevskij. Così tendiamo a rimuovere, con un'aggressività che a volte sconfina nel crimine, ogni ostacolo che si frappone alla realizzazione del nostro desiderio. A ciò aggiungiamo il fatto di vivere in società sempre più solitarie ed anonime, di essere soggetti ad un potere sempre più impersonale che ci fa sentire inermi e impotenti, il potere economico ci rende un’entità insignificante nella grande equazione dell'economia mondiale: basta un niente, una crisi passeggera, e di colpo molti sono estromessi, reietti, perdenti, emarginati, precari. Il dio-Mercato è il moloch che educa alla violenza e il vero nome dell’insicurezza è Precarietà; arginare e ridurre le ingiustizie e le ineguaglianze sociali, mitigare le situazioni di sofferenza e povertà è dare sicurezza, eliminare le radici della violenza. Non da oggi diciamo che proporre la sola guerra come soluzione dei problemi di larga fetta dell’umanità, è terreno di cultura per nuova e più aspra violenza e che spesso quelli che onoriamo come eroi sono in realtà essi stessi vittime delle facili e ottuse scelte di guide grandi solo nella loro miopia; non da oggi diciamo che costruire le proprie fortune politiche (o le proprie “fortune”) creando e costruendo mediaticamente un “nemico” da combattere e abbattere ad ogni costo, ha un terribile impatto educativo sulla società; non da oggi diciamo che la “caccia all’untore” in cui è stato trasformato il gigantesco e ineliminabile fenomeno migratorio non può che far crescere il razzismo e insieme la fiducia nella violenza e nella forza bruta: ne sono testimoni i muri delle nostre civilissime città, testimoni non muti di una follia già conosciuta nella storia! La peste della violenza la portiamo dentro di noi, non sta nei lavavetri, nei rom, nei rumeni, nei tossici, nelle prostitute, nei magrebini, nei musulmani, in chi non ha casa né lavoro né pane né dignità riconosciuta. Giorgio Bocca diceva che questo desiderio di pena di morte, di chiusura delle frontiere, oggi di deportazione in massa degli stranieri, di fiducia cieca nella forza, questo trasformare la solidarietà in buonismo da deridere, è “voglia di fascismo”. La rinuncia a pensare, a capire, l’affidarsi ad una cultura fatta di slogans, la scelta della menzogna come principio di azione politica, il rinascente culto della personalità, il bisogno e poi il servile ossequio di un capo, mi fanno pensare che forse non ha torto… dwf

III domenica di Avvento

Come si fa ad avere un cuore paziente nel tempo dell’attesa? Fatichiamo a vivere questa attesa come una mamma attende la nascita del suo bambino. Fatichiamo a vivere questo nostro travagliato tempo di “crisi” come una “crisi” di crescita e non di agonia. Non possiamo non interrogarci: «Ho visto giusto? Ho scelto bene? Non ho preso un abbaglio? Le mie ansie, i miei disagi, le mie rabbie non sono forse mancanza di fede? Il sentire la difficoltà di essere “cattolico”, oltre al peso delle fragilità e del peccato, non scuotono nel profondo la mia fede?». Comprendo i dubbi di Giovanni Battista: è in carcere, sa di rischiare la testa per la rabbia di una concubina e per l’ipocrisia di un potente che non accetta la denuncia della sua ipocrisia, ha vissuto tutta la sua aspra e faticosa vita per preparare la strada al Messia… come non essere perplesso e dubbioso? Il Messia non ha i suoi toni, non tuona contro la nequizia dei tempi, non attacca frontalmente i nemici della Legge di Dio e coloro che lo hanno imprigionato, parla con toni forti ma con tenerezza verso la debolezza umana, parla di perdono dei peccati, di amore verso i nemici, di perdono sic et simpliciter, non minaccia vendette, rivalse, e se vuol accendere un fuoco non è per incenerire qualcuno e per spaventare, ma vuol accendere il fuoco dell’amore… Gesù, invece, propone un perdono incondizionato, rimette le colpe, non minaccia né attua vendetta, dice che quel fuoco lo vuole accendere, certo, ma a partire dall'amore, non certo dal timore. Troppo diverso questo Messia dal Messia atteso da Giovanni e da Israele, troppo diverso. Invece di bruciare la pula e ripulire l’aia fa del bene, risana corpi e cuori, proferisce non condanne ma beatitudini, frequenta dubbi personaggi che dovrebbe invece minacciare e condannare.
Il mondo è carico di ambiguità, il pensiero diffuso è “debole” e segnato dal relativismo e dal “cancro del soggettivismo”, abbiamo bisogno di “punti fermi”, di verità assolute. Allora ha ragione la Chiesa nelle sue gerarchie, nella sua secolare forma istituzionale a incarnare i toni, talvolta aspri e acidi, di Giovanni Battista, per separare chiaramente il grano dalla pula, per stabilire che chi non è con noi è contro di noi, per individuare e segnalare i “nemici della Chiesa” che, indubitabilmente, sono anche “nemici di Dio”… Come facciamo a non sentire falsi i toni di questa liturgia: “Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino”, quando non la gioia prevale, ma il dubbio, l’incertezza, la depressione? «Guarda i segni della presenza di Dio, scruta la storia e la vita con la pazienza dell’agricoltore e sappi cogliere i segni della salvezza!» è la risposta. Gesù non rimanda al Tempio, ai sacerdoti, ai proclami morali e moralistici, ai solidi “punti fermi” della Dottrina e della Tradizione, ma invita a guardare ai “fatti”, ai “fatti di Vangelo”, non alle strategie missionarie e al prestigio delle istituzioni religiose, perché il Vangelo accetta e vuole essere messo alla prova dei fatti! Non in sacrestia dobbiamo cercare i segni, non nel personale addetto al culto: “Andate a cercare i segni tra i ciechi, i sordi, gli zoppi, i muti; documentatevi presso gli stranieri, i Rom e i magrebini, presso i poveri, presso chi ama la giustizia e pratica la solidarietà autentica, perché è lì che troverete. Lì dove qualcuno opera per liberare l’uomo, che sente suo fratello, dai mali inveterati, dove versa “olio e vino” sulle ferite fisiche o interiori di un essere umano, dove qualcuno si accosta a sollevare un altro da situazioni di abbattimento, di sconforto, di sofferenza acuta (magari provocata da scelte indubbiamente sbagliate), dove qualcuno fa rifiorire nell’esistenza e sperimentare nonostante tutto la gioia di essere amato. Leggete questi segni dove scorgete segni di gratuità (siano essi di credenti, di mal credenti o di non credenti), dove vedete gente che si consuma nel dono di sé e nella speranza di un futuro per l’uomo, squarci di fraternità in un mondo di solitudini e di egoismi. Non cercate i segni della presenza del Regno nei convegni, nei documenti, nelle parole anche solenni ed altisonanti, ma nella Parola che ti aiuta a discernere gli scarni segni del Regno in tanti che non perdono tempo a proclamarsi cristiani, ma vivono da cristiani, magari convinti di non esserlo! Non cerchiamo conferme e speranza nei gesti eclatanti: ci sono dei "miracoli" che si rifanno alla carità, all'amore, al servizio dei fratelli che tutti possono compiere ogni giorno, ogni attimo della nostra vita. Questi segni parlano da soli e diventano segni di credibilità, di speranza, di gioia, di autenticità. La Parola ci farà pure comprendere che non è nella logica del successo che troviamo conferme, ma nel segno più grande dell’amore di Dio e del suo Regno che viene: la croce di Cristo che ha l’apparenza di un radicale fallimento!

mercoledì 5 dicembre 2007

II domenica di Avvento

Insoddisfazione, disagio, crisi, insofferenza, bisogni insaziati, desiderio di cambiamento: sono concetti che ricorrono nelle odierne pagine bibliche che prospettano pure due linee di cammino della storia. La linea della “speranza”: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse» (Isaia); la linea del castigo, divino o umano che sia: «Già la scure è posta alla radice degli alberi» (Giovanni Battista). Riecheggia la similitudine con l’attuale situazione storica, ma i Grillo non sono né Isaia né Giovanni Battista!
I due profeti affrontano una situazione di grave crisi, l’insoddisfazione per lo stato attuale delle cose; si fanno voce di una schiera di malcontenti e di insofferenti, di tanti che non capiscono il fatto che Dio permetta un tale degrado; stigmatizzano che la proclamazione dei valori e della legalità servano solo a tacitare o a manipolare il giudizio degli uomini. Ma i due profeti non invitano all’antipolitica o alla restaurazione: invitano alla conversione! In realtà né l’uno né l’altro sono profeti di restaurazione, di minacce, di sventure; non ci consegnano a pseudo-profezie o a pseudo-profeti incarnati di volta in volta da qualche leader politico, da qualche sovrano, da qualche leader religioso. Non avendo il coraggio di affrontare a viso aperto la nostra inautenticità, le nostre meschine invidie, i nostri bassi bisogni insaziati ci fa piacere che qualcuno si scagli contro gli anonimi (ma noi li identifichiamo bene!) «ipocriti e vipere», che diventano un’ottima copertura per le nostre falsità, soprattutto quelle religiose.
La parola forte e inquietante del Battista che invita alla conversione è una parola che si rivolge prima di tutto ai “devoti”, ai “praticanti” per convincerli che non basta essere praticanti ma “credenti”! e il “credente” autentico è uno che ha “una felice relazione con Dio”. La Chiesa stessa (tutta la Chiesa, nelle sue gerarchie e nel popolo di Dio) deve capire e far suo questo appello a “conversione”. Giovanni dirotta il fascino della sua persona e del suo annuncio verso il Cristo, perché è a lui che bisogna riferirsi e il riferimento a lui comporta il proprio mettersi in secondo piano al compimento dell’annuncio (dobbiamo aiutare le persone a giungere “sulla soglia di Dio” e poi, noi, scomparire) e diventa un punto di partenza per incarnare la sua Parola, che richiede fatica, impegno, rinuncia al quieto vivere, uscire dalle proprie appaganti sicurezze religiose (dai “punti fermi” rassicuranti), incontrare la vita perché in essa si scrivano righe di Vangelo, richiede anche uno schierarsi, perché il Verbo di Dio si è “fatto carne” nel “verso” della storia e non nel “dritto” dei benpensanti.
C’è bisogno di profeti, di uomini “normali” che sappiano parlare in nome di Dio, che sanno leggere il presente non da profeti di sventure, ma da uomini capaci di leggerlo alla luce della fede. Non basta ancorarsi alle tradizioni religiose o liturgiche («Abbiamo Abramo come padre!") o ad una “religione” e religiosità esteriori, di facciata, fatte di valori proclamati ma non incarnati («Fate frutti degni di conversione»). Il Figlio di Dio che nasce in una stalla richiede cambiamento, scelte di vita, esige che ci schieriamo, perché il regno di Dio è salvezza, giustizia, pace e riconciliazione per i poveri e gli oppressi. Celebrare l’Avvento significa sentirci responsabili verso il futuro, nostro e di ogni essere umano. Forse la storia non ha un senso, ma il nostro dare “carne” al Vangelo di Gesù, lottando per rendere giustizia, per proteggere i deboli contro i prepotenti, per fare pace con tutti, dirà che questo senso le verrà dato. dwf

mercoledì 28 novembre 2007

I domenica di Avvento

Nelle scorse settimane l'agenzia di stampa Adista mi ha chiesto il servizio di un breve commento alla liturgia delle domeniche di Avvento e del giorno di Natale. Un amico mi ha suggerito di inserire tali commenti anche nel blog. In attesa di maggior tempo per postare altri commenti ed altre riflessioni mi sembra una buona idea inserire ora queste semplici meditazioni, permangono comunque nelle linee di riflessione e pensiero espresse da altre modalità di intervento. dwf

Al centro del Vangelo di oggi c'è l'arrivo del Signore. Matteo usa il termine "parusìa", tradotto con "venuta") che significa semplicemente "presenza". Gesù verrà, si renderà presente in modo chiaro tra di noi. E opererà un giudizio, un discernimento in profondità, per il quale due persone che si trovano nella stessa situazione esteriore avranno una sorte diversa ("due saranno... uno sarà preso e l'altro lasciato"). Non è una resa dei conti, "guardiamo un po' la lista dei peccati...": lasceremmo, come spesso ci accade, agire in noi l'immagine di un Dio ostile! No, viene per incontrarsi con noi, ma noi possiamo dolorosamente mancare l'occasione dell'incontro. È pronto chi ha creato le condizioni per un incontro positivo, in cui ci si intende: e allora sarà festa.
L’annuale riproposizione del Natale di Gesù a cui immediatamente ci prepara l’Avvento non deve farci dimenticare che questa scansione annuale è solo segno di una realtà più profonda: Dio cammina nella storia con il passo dell’uomo, tanto che ha affidato il compiuto di evangelizzare alla Chiesa! Ogni anno la memoria del Natale di Gesù ci ricorda la necessità di incarnare la fede in Dio nella vita quotidiana dell’uomo che Dio ama; Natale ci svela il Dio dei poveri, il Dio dei pastori, emarginati del tempo, il Dio che non nasce nel Tempio di Gerusalemme ma nella stalla di Betlemme, un Dio che viene però sempre sostituito dal Dio inutile del nostro ipocrita buonismo, dai buoni sentimenti di un giorno, dalla poesia delle frasi fatte natalizie. Natale è il giorno di chi è solo, abbandonato, emarginato, ferito dalla vita, giudicato ed escluso dai benpensanti; mentre la vita dei popoli è abbattuta da non poche tragedie, particolarmente nel Sud povero del mondo, noi ricchi possidenti e non pastori emarginati continuiamo la vita come se nulla stesse accadendo e facciamo della poesia sul dramma dell’incarnazione!
Questa prima domenica ci ricorda che prima di essere noi a muoverci verso Cristo Signore, è lui che ci viene incontro, è lui che dà inizio ad un pellegrinaggio verso di noi. Guai se non ce ne accorgiamo e "come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito … e non si accorsero di nulla ". Ho fame, mangio. Ho sete, bevo. Ho voglia di essere amato, me lo cerco. Pensare al futuro costa troppa fatica! Meglio fasciare il pensiero perché non si accorga delle premesse del suo futuro. Tutti traffichiamo, senza sapere il perché. Il rischio è di passare la vita lasciandoci vivere addosso i mesi e gli anni, senza essere mai protagonisti della nostra storia, senza neppure chiederci se è possibile altro rispetto a ciò che vivo.
Natale, è reale e attuale se vi sono credenti che accolgono la proposta di Gesù e dedicano se stessi al bene degli altri: nella loro attività, nella loro famiglia, nei contesti civili e politici, nelle iniziative volontarie che possono essere prese insieme ad altri cristiani o in collaborazione con persone di buona volontà. Perché l'iniziativa messianica di Dio è la proposta, in Gesù Cristo, di un tipo umano: la persona che, divenuta matura, si pone a disposizione degli altri per favorire il bene comune. Con tutto ciò che comporta: di fronte a un mondo che muta più rapidamente di quanto è mai avvenuto in passato, in molti uomini religiosi è frequente il lamento o l'invettiva e la tentazione dei buoni sentimenti: quasi che la loro perdita di contatto con il mondo sia colpa del mondo. Scrive Bonhoeffer: «Io ritengo gli attacchi dell’apologetica cristiana al mondo diventato adulto, primo: assurdi; secondo: scadenti; terzo: non cristiani. Assurdi: perché mi sembrano il tentativo di ricondurre alla pubertà un individuo ormai uomo, cioè di riportarlo a dipendere da cose dalle quali egli si è reso di fatto indipendente, di ricacciarlo verso problemi che, di fatto, per lui non sono più tali. Scadenti: perché si tenta lo sfruttamento delle debolezze di un uomo a un fine che gli è estraneo e che non ha sottoscritto liberamente. Non cristiani: perché Cristo viene scambiato per un determinato grado della religiosità umana, quanto dire con una legge umana» (8 giugno 1944).

venerdì 23 novembre 2007

Il coraggio della povertà

Il 29 settembre la Presidenza nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, anche in celebrazione e ricordo dei centoquarant’anni della sua fondazione, ha pubblicato un manifesto al Paese, un manifesto che si presenta come riproposta per un impegno straordinario nella Chiesa italiana ed a servizio della città dell’uomo. Dico riproposta perché un’associazione che da un secolo e mezzo vive una presenza per l’annuncio del Vangelo, deve per forza rendersi conto dei cambiamenti, deve prendere atto delle complessità in cui opera, deve individuare, con discernimento, le strade più efficaci per l’annuncio e deve avere il coraggio di lasciar cadere forme obsolete, un tempo valide, ma che oggi avrebbero solo il sapore della nostalgia cui fa fronte il coraggio della missione e della evangelizzazione.
La conseguenza è la fatica della formazione: c’è un riferimento etico e di valore, sicuramente non negoziabile che ci aiuta, ma c’è una traduzione storica dei valori che non può non porsi sul versante del massimo possibile, perseguito con sacrificio e gratuità.
Per questo la “scelta religiosa” mantiene tutta la sua forza e la sua efficacia. Va ripetuto con convinzione: si tratta di una scelta che non si sottrae al mondo, ma si pone al suo interno. Per mantenere intatta la sua forza però dev’essere appunto gratuita, deve proporsi con povertà, deve vivere l’esperienza della condivisione e della fraternità disinteressata.
L’Azione Cattolica vive in questa dimensione. Sa che il mondo è il luogo della salvezza, proclama che la storia è segnata dalla indicazione della salvezza, prende atto delle difficoltà, ma ricerca ciò che unisce sui valori condivisi, piuttosto che ciò che divide. In fondo, per vivere il Vangelo nella storia, ci sono due vie: quello della conquista e quella del cammino di condivisione per promuovere i segni positivi del mondo, segni ineliminabili per chiunque creda nell’azione della Provvidenza.
Di qui il primato dell’evangelizzazione, ma nello stesso tempo il rispetto del ruolo autonomo della politica, senza fare di essa il braccio secolare dell’etica. Inevitabile, di conseguenza (ad alcuni poco gradita) la distinzione, ma non la separazione, fra i principi etici e la loro traduzione storica. A volte, per non dire ordinariamente, questa traduzione ha bisogno di gradualità, di mediazioni culturali e politiche, di formazione lenta del consenso; l’intervento di imperio, anche istituzionale, senza questi percorsi di mediazione rischia di fare peggio, rischia il fallimento.
Un’altra questione richiama attenzione adeguata. L’Azione Cattolica rivendica costantemente la sua natura laicale: lo fa con determinazione, ma anche con specifica fedeltà ai suoi pastori. La fedeltà è, in ogni caso, un atteggiamento adulto e maturo, ha riferimenti di pensiero, di elaborazione del magistero e di pratica pastorale; la fedeltà è consapevole e orgogliosa di un ruolo che si è imposto con fatica e con impegno. Per questo si guarda ancora sul versante della responsabilità dei laici all’insegnamento conciliare; si prende atto che le questioni secolari (si veda la “Lumen gentium” al n. 31)sono di competenza dei laici, perché il carattere della loro missione riguarda l’ordine del tempo in autonomia di intervento, fatte salve le indicazioni di principio sui valori. Si prende atto che sempre il Concilio (si veda “Gaudium et Spes” al n. 43) insegna che i laici devono assumere le loro responsabilità alla luce della sapienza cristiana, senza aspettarsi dai Sacerdoti la risposta risolutiva ai problemi del mondo.
Come stiamo in fatto di responsabilità? Quale la maturazione ,quale la formazione dei laici? Quale la sensibilità e la fiducia concessa dai pastori?
L’Azione cattolica è pronta al suo contributo, anche per lo spirito di servizio conquistato non senza fatica; questo corrisponde pienamente ad un’altra straordinaria indicazione del Concilio: la Chiesa “…non pone le sue speranze nei privilegi offerti dall’autorità civile. Anzi essa rinuncia all’esercizio di certi diritti anche legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza…” (Gaudium et Spes”, n. 76).
Agostino Pietrasanta

sabato 13 ottobre 2007

Perché è utile andare a votare il 14 ottobre

Domenica prossima si terranno le Primarie del Partito Democratico.
Questo appuntamento sarà importante non solo per quei cittadini che aderi-scono al progetto del nuovo partito, ma indirettamente, per tutti gli italiani.
Sarà apprezzabile perché io credo che tutti gli elettori si rendano conto che, indipendentemente dalle proprie preferenze politiche, nel nostro Paese esiste ormai un enorme problema di governabilità.
Questo problema di efficienza decisionale nelle scelte che riguardano la collet-tività, alimenta l’ondata di cosiddetta antipolitica, di cui il comico Beppe Grillo è solo uno degli ultimi e più visibili epigoni.
Siamo un Paese dove nessun governo è durato, dal dopoguerra ad oggi, per l’intera legislatura.
Nemmeno Berlusconi, con una maggioranza schiacciante in Parlamento, nella scorsa legislatura, riuscì nell’impresa di avere un governo per tutto il quin-quennio.
Lascio perdere ogni altra valutazione sulle riforme che tale maggioranza, assai diversa dalla rissosa e striminzitissima o inesistente maggioranza attuale, a-vrebbe consentito.
In compenso, negli ultimi quindici anni abbiamo votato cinque volte per le ele-zioni politiche (nel ’92, nel ’94, nel ’96, nel ’01 e nel ’06), cioè in media ogni tre anni.
E tutto lascia supporre che neanche questa legislatura durerà a lungo.
Ma, la cosa più grave è che ogni volta, nel corso di queste elezioni, è cambiata la maggioranza. E talvolta è mutata anche nel corso della stessa legislatura.
Di nuovo. Tutto lascia supporre che anche alle prossime elezioni cambieremo maggioranza.
A questo punto si impongono tre questioni.
La prima è che negli altri Paesi avanzati, gli stessi governi e le stesse maggio-ranze durano in media per due o tre legislature, il che permette loro di pro-grammare ed attuare politiche di lungo periodo.
La seconda è che nello stesso tempo, in Italia, a causa della cronica instabilità la politica assomiglia alla tela di Penelope, dove il governo in carica disfa la trama intessuta dal governo precedente.
La terza è che questa situazione è determinata dal fatto che mentre nei Paesi avanzati i partiti in Parlamento si contano sulle dita di una mano, in casa no-stra i partiti e partitini vari non si contano più.
Per questi motivi tutti gli italiani dovrebbero avere interesse ad avere, in luogo dei trenta e più soggetti politici presenti in parlamento con relativi costi e prebende denunciate nel celebre saggio “La Casta”, di Rizzo e Stella, due grandi partiti in grado di governare ed attuare politiche i cui benefici si possano misurare in futuro.
Il fatto di creare a sinistra un partito che abbia un consenso tra un quarto ed un terzo degli italiani va in questa direzione.
Per quanto mi riguarda mi auguro che lo stesso processo di concentrazione vada avanti anche nell’altra parte dello schieramento politico.
Io personalmente andrò a votare il 14 ottobre e voterò per le liste della Sini-stra Riformista, Innovazione e Ambiente che sostiengono Veltroni, e Susta a livello regionale.
Ma credo che l’importante, più del per chi si vota, sia partecipare.
Ne trarranno giovamento non tanto le parti interessate, quanto l’intero Paese.
Marco Ciani

mercoledì 3 ottobre 2007

CHIESA, CREDENTI E POLITICA

Chiesa e società, chiesa e politica, laicità, principi morali, rappresentanza dei cattolici, valori non negoziabili, sono i temi ricorrenti nel dibattito (non troppo esplicito ed aperto) in questo travagliato tempo; temi accompagnati dal disagio, dalla mancanza di serenità e da qualche rancore di molti, credenti e non credenti. Taluni rilevano un accentuato interventismo ecclesiastico, che sembra andare oltre il sacrosanto diritto della Comunità ecclesiale di far sentire la sua voce su questioni antropo-logicamente rilevanti. Altri rilevano che questi interventi sembrano delineare una strategia dei vertici ecclesiali che avrebbe fini secondari di tipo politico. Non voglio certamente dar credito a questa tesi. Anche la presenza di un prete e i suoi interventi in un “circolo di amici che vogliono riflettere (e assumersi impegni) sulla Politica”, data la delicatezza del contesto richiede molta prudenza, ma questa prudenza non può essere un alibi o un vincolo o un ricatto se al prete è chiesto, come credo, di essere “educatore di coscienze”, cercando (a prescindere dalle proprie personali convinzioni) di preservare l’originalità della proposta di fede e della parola di Chiesa in un momento di rischiosis-sime omologazioni e strumentalizzazioni. Credo anche che non siano permesse “deleghe”: molti, mi pare, hanno la tentazione di delegare pilatescamente questo impegno educativo ai vertici religiosi istituzionali, ai vescovi e al papa, dando talvolta l’impressione che se è vero che «la Chiesa non è una democrazia», oggi assume sovente l’aspetto – discutibile – di una «monarchia assoluta» guidata da un “leader-monade” che pronuncia parole tutte certamente da rispettare, ma non tutte sovranamente indiscutibili e, talvolta radicate nel campo dell’opinabile.
Come educare le coscienze di persone che vogliono impegnarsi per la costruzione della polis? Come educare i credenti, i fedeli, che devono assolutamente partecipare a questa costruzione? È chiaro che le figure istituzionali della Chiesa - papa, vescovi, io stesso come prete - devono restare sul pre-politico e sul pre-economico. Dobbiamo evangelizzare, ricordare le ispirazioni del Vangelo, indub-biamente esprimere anche delle condanne se viene contraddetto ciò che secondo la Scrittura è una menomazione dell'uomo e della società. Ma le modalità con cui si traducono le ispirazioni spettano ai cristiani, ai laici e ai fedeli di altre religioni nella costruzione della polis e possono essere differenti. La strada credo sia quella indicata dall’incipit del magnifico – e ancora totalmente attuale – documento conciliare Gaudium et spes: «Nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». C’è ancora spazio perché la categoria del “genuinamente umano” abbia casa nel nostro tempo? E che cos’è “genuinamente umano”? Credo che “genuinamente umano” sia tutto ciò che non tradisce l’uomo, ciò che gli permette di essere veramente e intimamente tale, in tutte le sue di-mensioni: fisica, psicologica, morale, spirituale, religiosa. La politica non può e non deve occuparsi direttamente di tutte queste dimensioni, nonostante il pensiero dei “teocon” o degli “atei devoti”. La politica deve permettere che esse possano esprimersi e che non vengano censurate, cancellate o im-pedite.
Allora forse la prima educazione è una educazione alla politica che, essa stessa sembra non aver più una casa. Che cosa ne è oggi della politica? Che cosa ne è quando le questioni vere non sono più centrali, quando la politica è mera ricerca di un potere da esibire, quando la politica, per la sua fati-cosa complessità, viene trascurata e sostituita da una banalità semplicistica? Che ne è della politica quando essa cerca alleanze innaturali con quelle sfere dell’attività umana che dovrebbe invece ordi-nare, o quando è continua commistione di interessi di parte e interessi personali? Che fine fa la poli-tica quando non si interroga più sul futuro, quando consuma tutti i beni di cui ancora disponiamo, quando è intessuta di egoismo e individualismo? O non ricorda più che deve costruire una “città dell’uomo e per l’uomo”? Quando nelle sue priorità i poveri e i deboli non compaiono più? Come non ricordare le parole di Giovanni Paolo II nella sua Enciclica Veritatis splendor: «Di fronte alle gravi forme di ingiustizia sociale ed economica e di corruzione politica di cui sono investiti interi popoli e nazioni, cresce l’indignata reazione di moltissime persone calpestate e umiliate nei loro fondamentali diritti umani e si fa sempre più diffuso e acuto il bisogno di un radicale rinnovamento personale e sociale capace di assicurare giustizia, solidarietà, onestà, trasparenza». La “corruzione politica” non è solo quella connessa con la bramosia e l’uso illecito del denaro, non sta solo nel restare aggrappati ai privilegi della “casta”; è anche il non esercizio della politica da parte di chi do-vrebbe esercitarla perché ha un ruolo o una funzione o perché è semplicemente un “cittadino”; è l’invettiva, l’indignazione, l’insulto lasciando che il mondo vada casualmente qua e là, senza curarsi del fatto che chi è più debole venga comunque inesorabilmente stritolato; è cercare coperture nei poteri forti e privilegiare le alleanze con chi conta… Partiamo ancora da un suggerimento della Gaudium et spes: «Per instaurare una vita politica veramente umana non c’è niente di meglio che coltivare il senso interiore della giustizia, dell’amore e del servizio al bene comune e rafforzare le convinzioni fondamentali sulla vera natura della comunità politica e sul fine, sul legittimo esercizio e sui limiti di competenza dei pubblici poteri» (n. 73). Possiamo non educare le coscienze a questi principi? Non manchiamo ad un preciso dovere e ad una forte responsabilità che proprio il “primato dell’evangelizzazione” ci carica sulle spalle, sul cuore, sull’intelligenza e sulla volontà? Qui mi fermo. Anche se rilevantissimi temi educativi (tutto il dibattito sui “valori non negoziabili” e sull’impegno del laico cristiano in politica, ad esempio, restano per ora nella riflessione e non calano sulla tastiera…).
Chiudo rilevando come non ritengo lecite, soprattutto oggi, né l’astensione né una sorta di neutralità ecclesiale nel senso di indifferenza e silenzio. Credo invece che ai pastori della Chiesa, ad ogni li-vello di responsabilità, sia chiesta più proclamazione anche disturbante del Vangelo e della sua nuda radicalità. La Chiesa non deve essere “parte” sociale e politica, ma ha comunque davanti l’impegno di coltivare appassionatamente la differenza e la peculiarità della Parola cristiana rispetto alle parole correnti. La sfida che l’oggi pone alla Chiesa credo stia nel possedere dei principi senza essere ideologica, nell’essere “politica” senza essere di parte, nell’essere “civile” senza essere troppo tenera, nel coinvolgersi senza farsi strumentalizzare.
La comunità cattolica è molto diversificata, non avendo più (e, spero, avendo rinunciato per sempre) un’unità politica; i cattolici convivono con convinzioni politiche e ideologiche diverse, ma sono chiamati tutti a un comune impegno per fare in modo che la politica serva il bene comune e la persona umana. L’ap¬pello alla responsabilità politica non può essere né partigiano né settario, ma deve aiutare a rinvigorire il processo democratico come luogo del dibattito sul tipo di società che vogliamo essere, sui valori e le priorità che dovrebbero guidare il nostro Paese. dwf

Nessuna polemica

Qualcuno ha voluto leggere una scelta polemica nella decisione di dar vita a questo blog; scelta polemica nei confronti della Voce alessandrina o addirittura della Chiesa locale e del Vescovo. Mi spiace di questa lettura; al blog pensavo da lungo tempo, più che altro come ad una possibilità di comunicazione "fuori dal tempio", strumento di dialogo e di confronto con tanti amici che non si sentono parte della Chiesa, ma ad essa guardano con attenzione e rispetto e, soprattutto, senza nessuna intenzione di strumentalizzazione. Con molti c'è stato dialogo in questi anni, ma con un atteggiamento troppo monologante da parte mia e con una partecipazione - di condivisione o di dissenso - espressa solo a livello personale. Il blog è invece uno strumento aperto agli interventi e ai contributi di tutti.
Nei confronti del giornale diocesano poi, posso dire che da che lo conosco è sempre stato sottoposto a bordate di critiche - qualunque fosse la linea espressa - e a molto disinteresse, soprattutto in ambito ecclesiale. Le scelte fatte negli scorsi anni - che lo hanno caratterizzato come un giornale libero e aperto - hanno il pregio se non altro di averlo fatto diventare una Voce ascoltata, autorevole, una voce scomoda talvolta, e che ha dato voce a chiunque avesse qualcosa su cui dire o dissentire.
Non prendo neppure in considerazione l'ipotesi di una polemica con la Chiesa o con il Vescovo. Il credente ha del Vescovo una considerazione di fede, che va oltre la simpatia o l'antipatia personali - criteri che non hanno alcun senso nei confronti di nessuno; il credente guarda al Vescovo come all'Apostolo, centro di unità, ordinatore dei carismi di tutti senza la pretesa di possederli tutti; il credente venera (senza servilismi e untuosità) il Vescovo, semplicemente.
Rinnovo perciò l'invito a fare del blog non una tribuna da cui far valere interessi non dichiarati (alla Grillo per intenderci), ma una palestra di dialogo aperto, libero, schietto...
dwf

martedì 11 settembre 2007

Spirito di Termidoro

La visita del Vescovo al Consiglio comunale ha suscitato molti consensi e qualche riflessione critica; in un breve comunicato, il capo gruppo consiliare di rifondazione comunista ha addirittura sanzionato la stessa presenza di un’autorità religiosa in un luogo istituzionale laico, in nome di un’idea che vorrebbe relegare la religione a fatto privato.
Si tratta di un’idea che ha riscosso, nell’età contemporanea, non pochi consensi, in tutta la tradizione laica che si è posta, tanto a destra, quanto a sinistra, in dialettica e conflitto con la Chiesa. Eppure l’esperienza storica ha dimostrato che la funzione laica dello Stato e delle istituzioni civili non si fonda sulla riduzione del fatto religioso alla sfera del privato; anzi ci sono stati snodi essenziali ed importanti della storia della nazione, in cui l’ispirazione religiosa ha suggerito comportamenti assolutamente rilevanti nelle scelte in campo civile: basterebbe ricordare che la Resistenza di molti cattolici al nazi/fascismo fu il risultato di una ribellione ad una società ingiusta e ad un sistema di prepotenza, in nome dell’ideale evangelico di fraternità.
Certo il problema assume una ben più rilevante complessità. Qui si tratta di accettare o rifiutare l’incontro tra la modernità ed il cristianesimo, anche in tema di cultura giuridica ed istituzionale; senza più richiamare gli errori riconosciuti della Chiesa e le relative responsabilità nella storia di tale incontro, bisognerebbe richiamare l’elaborazione concettuale che De Gasperi, da cattolico impegnato in politica, ha posto, a fondamento della ricostruzione della nostra democrazia: la fraternità e l’uguaglianza, cardini positivi, per quanto contrastati del processo contemporaneo, trovano una loro ispirazione nelle indicazioni evangeliche e nello spirito che ne consegue. Se ne può dedurre che tale spirito può favorire, per la sua parte, le logiche democratiche con tutte le mediazioni culturali e politiche che ne potrebbero e/o dovrebbero derivare.
Ancora e sempre per titoli: siamo sicuri che la posizione della Chiesa sulla pace e sulla guerra, almeno nell’ultimo secolo sempre favorevole alla prima, con un crescendo indubbio di radicalità, non abbia influito sulle scelte della politica? Siamo sicuri che alcuni processi positivi nella elaborazione dell’insegnamento sociale della Chiesa sulla dignità della persona non abbiano conseguenze sulle scelte istituzionali in campo di organizzazione del lavoro? Siamo certi che il richiamo alla persona umana ed alla sua dignità proposta dalla Chiesa non trovi tracce evidenti nel pensiero politico e nei principi fondamentali della Costituzione repubblicana che esalta l’integrale sviluppo di ogni individuo e promuove il merito personale perché sia posto al servizio della nazione ed in particolare dei cittadini più deboli?
Potrei continuare. Il fatto è che la laicità delle istituzioni non si salva relegando la religione al privato ed i cristiani nelle sacrestie. Perché un conto è sostenere il diritto della coscienza individuale nelle scelte di fede, un conto è emarginare una tradizione che dalla religione trae indicazioni ed ispirazione e dalla stessa trae motivi di laicità coerenti. Il maestro di tale tradizione, Luigi Sturzo sosteneva che si concilia perfettamente un pensiero che fa della religione un riferimento vivificatore, ma esclude, senza riserve, la Chiesa dalle scelte di parte ed invita i cattolici impegnati in politica a non parlare mai in nome della Chiesa nelle loro legittime scelte politiche. E precisava che partito e religione, partito e cattolicesimo sono due termini intrinsecamente antitetici, perché il primo si schiera a difesa di interessi di parte, il secondo si propone agli uomini e ad ogni uomo in nome della sua universalità.
Il Concilio vaticano secondo ha sanzionato la legittimità della distinzione. Lo ha fatto in molti dei suoi passaggi e documenti ed in molti richiami lo ha ripetuto Paolo VI; mi basti il riferimento alla “Gaudium et spes”, sui rapporti Chiesa mondo, al paragrafo 43: dalla Chiesa può derivare luce e forza spirituale, ma la mediazione politica e la soluzione concreta dei problemi sta alla responsabilità dei laici; e dunque alla loro autonomia.
Forse qualcuno soprattutto negli ultimi anni e soprattutto fra coloro che avrebbero dovuto realizzare il Concilio, a livello di responsabilità, ha tenuto comportamenti difformi dai documenti, forse si è rischiato di dare spazio a chi sostiene che anche il Concilio è stato abrogato; io penso più semplicemente che lo “spirito di termidoro” e della restaurazione stia sempre dietro l’angolo per tutti, ineliminabile componente dei processi storici: sia per la Chiesa, sia per coloro che vorrebbero riportare la religione alla sua sola dimensione privata.
Agostino Pietrasanta

lunedì 10 settembre 2007

È guerra tra Occidente ed Islam?

Nella ricorrenza dell'11 settembre, che non voglio lasciar passare nel silenzio, non trovo parole o temi nuovi da affrontare. Poichè mi pare che mantenga intatta, salvo alcune sfumature, la sua attualità, ripropongo ai frequentatori di questo blog una riflessione pubblicata su Voce il 21 maggio 2004.



Stiamo vivendo tempi di orribili contrapposizioni; contrapposizione tra Occidente e Islam, tra civiltà; si contrappone orrore a orrore, violenza a violenza, uccisioni selvagge a torture, se-questri a bombardamenti; qualcuno vuole fare addirittura una infame graduatoria: qual è il peggio? Questo o quello? Chi è più barbaro o chi è più civile? Credo che una chiara risposta sia stata offerta la scorsa settimana dall’editoriale del Vescovo, assai moderato nel linguaggio e nei toni, ma “esplosivo” nei contenuti e nei giudizi conseguenti. Non riprendo perciò il tema delle torture e dei barbari omicidi, né voglio commentare le ultime vicende di Nassiriya.
Ma confesso che sono stanco di sentire sbandierare questa contrapposizione tra l’Occidente e i suoi grandi e inarrivabili valori e l’Islam medievale, barbarico, antidemocratico, ecc. Confesso che quando sento o leggo a proposito di questa guerra tra Occidente e Islam sento un po’ di disagio; anche perché se muovo qualche obiezione vengo accusato di schierarmi a-prioristicamente e acriticamente dalla parte dell’Islam, quasi fossi un traditore – poiché siamo in tempo di guerra – che rinnega la sua appartenenza ad una etnia e ad una civiltà. E poi mi accorgo che spesso il contenuto della predicazione domenicale, partendo dalla parola e-vangelica è necessariamente spesso fortemente critico proprio nei confronti dell’Occidente e dei suoi presunti valori. Vorrei allora cercare di chiarire la questione prima di tutto a me stesso e poi, se riesco, a qualche paziente lettore.
«Lo scontro - scrive Paolo Naso direttore della rivista interreligiosa Confronti - non è tra Occidente e islam: è all’interno dell’Occidente e dell’islam». Concordo e credo di averlo e-spresso più volte: non è uno scontro tra civiltà e nemmeno tra occidente e Islam. I paesi che hanno voluto e fatto la guerra (o approvata e giustificata, nonostante fosse contro ogni regola del diritto internazionale), non sono tutto l’occidente. E Bin Laden non rappresenta il mondo musulmano quanto non lo rappresentava Saddam Hussein. Soprattutto non è e non bisogna farlo diventare uno scontro tra religioni e tra culture. Certo, siamo tutti d’accordo che bisogna lottare contro il terrorismo, ma con intelligenza, non con la distruzione. Il terrorismo è una questione di ordine pubblico, non di guerra. Nelle costituzioni dei paesi civili, Italia inclusa, non c’è posto per l’odio. Se qualcuno predica l’odio in piazza o in parlamento o attraverso i media, va perseguito. Non dimentichiamo che gli stessi musulmani sono le prime vittime del terrorismo islamico: gli afgani per primi hanno sofferto il regime dei talebani, gli algerini sono le prime vittime del fanatismo terrorista nel loro paese, molti attentati terroristici, tra i più sanguinosi sono avvenuti proprio nei Paesi arabi o islamici. Purtroppo credo che la stessa confusione linguistica sia radice e causa di ulteriori mali. Come le ricorrenti polemiche sul “fondamentalismo” che ci viene presentato come connaturale all’Islam, come se non esistesse un Islam alieno dal “radicalismo religioso”. Dovremmo piuttosto parlare di “islamismo”, come parlavamo di “fascismo” e di “comunismo”, dove il suffisso “ismo” indicava proprio la deriva ideologica di un pensiero filosofico (o religioso), perché credo proprio che sia questo il punto vero della questione e che sia questa deriva ideologica che dobbiamo combattere, certamente non con gli eserciti belligeranti o occupanti. E il primo modo per combattere questa deriva è culturale: prima di tutto migliorando e facendo avanzare le conoscenze comuni a proposito dell’Islam e del cosiddetto Occidente. E al tempo stesso migliorando la nostra conoscenza e consapevolezza di quale Occidente si parla. Perché io non mi sento in alcun modo di condividere un pensiero che viene sbandierato dall’attuale “governance” del mondo occidentale e cioè la pretesa che “il motore essenziale della storia umana e dell’evoluzione del mondo è la ricerca del progresso e della modernizzazione che s’incarna nella democrazia liberale e nell’economia di mercato”, affermazione degna del peggior neocolonialismo sostenuto dall’impero invisibile ma non troppo delle multinazionali, vangelo dei “neocons” statunitensi. Come si sente spesso affermare che “quella musulmana è una civiltà arretrata e ferma ai canoni dei nostro Medio Evo”, come se la storia delle differenti civiltà dovesse per forza seguire un corso sempre deterministicamente obbligato, sul modello di quello seguito dall’Occidente. Come l’affermazione che l’Islam non ha “conosciuto l’illuminismo”, come se l’Illuminismo fosse solo il luogo delle virtù e delle libertà o come se oggi la nostra civiltà, l’Occidente, il Nord del mondo, gli Usa e la società della globalizzazione non rappresentino altro che il Bene e il Giusto, la Libertà e il Benessere, contrapposti al livore, al fanatismo, alla barbarie. Voglio dire che non accetto che sia una guerra di religione, instaurando una identificazione indebita tra Cristianesimo e Occidente. Certo, ci sono e ci saranno enormi problemi nei rapporti tra il Cristianesimo e l’Islam, ma lasciamoli nel campo loro proprio, quello dei rapporti interreligiosi, quello del dialogo – nella misura del possibile – tra due grandi tradizioni religiose, riconoscendo pure che non potrà che essere già di sua natura un dialogo estremamente difficile, poiché se il cristianesimo è un atteggiamento spirituale, una felice e gioiosa relazione con Dio che mi spinge a trasformare la mia vita e il mondo secondo il progetto che Dio ci ha rivelato, l’Islam è piuttosto un progetto socio-politico-culturale-religioso, dove non contano prima di tutto la spiritualità e la teologia, ma la “giurisprudenza”, la conoscenza precisa delle norme coraniche che regolano minuziosamente ogni aspetto della vita del singolo e dell’insieme dei musulmani.
Ma la guerra che l’Occidente sta conducendo con l’Islam è tutt’altra cosa. Io penso che in realtà Bush, Bin Laden o quale che sia il nemico di turno dell’Occidente, siano in realtà pedine nella ridefinizione dello scacchiere mondiale dopo la “guerra fredda”, pedine nel “grande gioco” economico delle multinazionali, pedine nel riassetto del mercato del petrolio.
E anche che usa l’Islam come ideologia per la lotta all’Occidente è un cinico stratega politico che cerca di sfruttare la miseria e la frustrazione del mondo musulmano per costruirsi una base di consenso di massa da far valere sullo scacchiere del mondo e della grande economia e finanza.
L’Occidente è in guerra in nome dei diritti dell’uomo – si dice. Vero: proprio quei diritti sempre affermati e proclamati a parole dall’Occidente, ma sempre negati nella pratica (le foto delle torture sono state un’efficacissima difesa dei diritti dell’uomo!). È in nome di questi diritti che europei, statunitensi, canadesi e australiani (un miliardo di uomini, un sesto della popolazione del mondo) possono gestire più dell’80% delle ricchezze e delle risorse del mondo, lasciando agli altri 5 miliardi di uomini meno del 20%? È in nome dei diritti dell’uomo che si lasciano morire centinaia di migliaia di bambini per fame, o per l’embargo come è accaduto in Iraq, o si lascia mano libera ai massacri tribali in Africa cosicché le multinazionali possano assicurarsi il monopolio nell’estrazione delle materie prime indispensabili all’Occidente? È in nome dei diritti dell’uomo che l’America Latina è costretta ad avere milioni e milioni di persone in condizioni sub-umane e ad essere gestita come orto privato delle multinazionali americane che le succhiano tutte le possibilità di vita? E se dovesse scoppiare anche la rabbia e la ribellione di questo Continente? Sarebbe la guerra contro il rigurgito medievale del Cristianesimo, contro il Cristianesimo intollerante e antidemocratico? Allora è l’oscurantismo islamico il colpevole dell’instabilità estrema del nostro mondo o sono nodi della storia che vengono al pettine? La storia ci insegna che le classi dirigenti del mondo arabo sono state create e imposte dall’Occidente: l’Inghilterra ha consegnato l’Arabia ai Sauditi, musulmani fondamentalisti, sottraendola agli hashemiti (creando per loro la piccola e senza risorse Giordania), liberali e amici dell’Occidente, ma con il torto di voler costruire una politica nazionale che avrebbe impedito la speculazione petrolifera; così furono gli Usa a impedire in Iran la rivoluzione liberale di Mossadeq, che voleva nazionalizzare il petrolio, creando così lo spazio e le condizioni per la rivoluzione komeinista; come sempre gli Usa favorirono i talebani in Afganistan e Saddam Hussein in Iraq. Come lo schierarsi unilateralmente dalla parte di Israele, senza riconoscere i diritti dei Palestinesi, sempre più frustrati e delusi, tiene accesa la miccia mediorientale. Teniamo allora distinti, e favoriamo questa distinzione tra i musulmani, Occidente e Cristianesimo, giudicando il primo al culmine di un lungo processo di scristianizzazione giunto ormai ad un indifendibile nichilismo, impegnandoci a recuperare quei valori che in questi ultimi decenni sono stati abbandonati, col risultato che l’Occidente si trova ad essere sì tecnologicamente, economicamente e militarmente forte, ma moralmente debole e intimamente infelice. A nulla infatti servirà la superiorità materiale, se non ci sarà un recupero di saldezza morale e spirituale. Come a nulla serve fornire il “brodo di coltura” del terrorismo con guerre e alleanze che servono solo a regalare ulteriori simpatie al fronte “islamista”. Io non mi sento di difendere un Occidente che non riconosce, di diritto e di fatto, che non c’è pace senza giustizia.
Mi pare che siano profetiche, rilette su scala mondiale e non restringendole solo all’Europa, le affermazioni fatte dal Santo Padre in una sua capitale omelia: «Non sarà che dopo la caduta di un muro, quello visibile, se ne sia scoperto un altro, quello invisibile, che continua a dividere il nostro continente - il muro che passa attraverso i cuori degli uomini? È un muro fatto di paura e di aggressività, di mancanza di comprensione per gli uomini di diversa origine, di diverso colore della pelle, di diverse convinzioni religiose; è il muro dell’egoismo politico ed economico, dell’affievolimento della sensibilità riguardo al valore della vita umana e alla di-gnità di ogni uomo» (Giovanni Paolo II, Omelia a Gniezno, 3 giugno 1997). dwf

martedì 4 settembre 2007

Comunicare o tacere?

In più occasioni ho cercato di suscitare un dibattito serio, profondo e approfondito sul senso della “comunicazione” nella Chiesa e sul ruolo dei comunicatori cristiani e credenti (la distinzione è voluta!), sulla necessità di una comunicazione: ma spesso nei nostri ambienti, più clericali che ecclesiali, ogni voce critica è presa come una voce “nemica”, da cui difendersi, o da attaccare in modo un poco subdolo, attribuendogli finalità “altre”, rinchiudendo le persone in un facile ma banale e stupido (nella comunità cristiana) schematismo politico. Ma se i cristiani non sono “comunicatori”, non propagandisti a scopo di proselitismo, non manipolatori della pubblica opinione né cercatori di facile popolarità cavalcando l’irrazionalità e la superficialità dell’opinione comune, che cosa sono? Noi ci siamo, siamo Chiesa per comunicare, per evangelizzare, per aiutare i nostri fratelli ad essere come Dio li ha voluti, esseri dotati di intelligenza, di capacità di pensiero, di volontà, di libertà “per” e non solo di libertà “da”… per aiutarli ad essere uomini e donne “in piedi” non proni nei confronti di nessuno, né di persone né di ideologie morte o nuove che siano! È muovendo da queste ragioni e da questi principi che ho voluto dedicare tanto del mio tempo di ministero proprio alla comunicazione. Ho constatato più e più volte che questa comunicazione, questo dialogo, questo confronto di principi, di posizioni, questo desiderio di “pensiero” e non di slogans, questo sforzo di non arrestarsi alla superficialità delle contrapposizioni preconcette e pregiudiziali, è sempre stato molto più facile con persone esterne, se non “lontani” dalla comunità cristiana, forse perché chi è “fuori” non si porta dentro il tarlo di una certa (diffusa?) ipocrisia, l’ipocrisia di chi riduce la fede a religione e a gesti esteriori di religiosità, o ad un vago interesse per certi argomenti che proprio alla lontana hanno un riferimento religioso, l’ipocrisia di chi ha come unica insegna della sua appartenenza religiosa la pratica domenicale (per un senso del dovere che ha strutturato il suo super-io? per nostalgica fedeltà ai nonni o ai genitori e agli insegnamenti ricevuti nella propria giovinezza, anche se poi la vita li ha ridotti al rango di “belle utopie”?). Come è difficile la comunicazione della Chiesa … ma ancor più difficile pare la comunicazione nella Chiesa!
Alcuni fatti recenti mi hanno spinto a tornare su questo argomento.
- Una notizia di cronaca: un sacerdote vietnamita è stato incarcerato per aver diretto un periodico on-line critico verso il regime. Si chiama Nguyen Van Ly, è un prete cattolico vietnamita di 60 anni, direttore del periodico on-line Tu Do Ngon Luan che, in viet, significa “libertà di espressione”. Per questa sua attività di webgiornalista, padre Ly è stato condannato da un tribunale a ben otto anni di carcere, dopo che già nel 2005 aveva finito di scontare una pena di quattro anni. Lo accusano di aver espresso sul Web critiche al regime e alla sua politica. Forse non c’entra nulla (e riporto la notizia come messaggio subliminale), ma testimonia della condizione globale dell’informazione e comunicazione. Del resto i fatti degli ultimi anni testimoniano che “sistema liberista” non significa immediatamente “sistema libero”, soprattutto per ciò che concerne la ricerca della verità.
- Un dibattito che è ritornato più volte in questi anni di guerre. Mi riferisco al caso dei giornalisti uccisi, (ma ad essi ci si riferisce non per dibattere ma per commemorare e sfruttare politicamente) ma soprattutto al caso dei giornalisti rapiti sui terreni di guerra: penso in particolare ai casi Sgrena e Mastrogiacomo, sui quali si è a lungo dibattuto e molte valutazioni sono state espresse, anche sui nostri media, compresi quelli cattolici. Per qualcuno la loro presenza in luoghi di guerra (chi ricorda i “gloriosi” inviati di guerra del passato?) è inutile, perché si possono scrivere le stesse cose restando alla propria scrivania o nei lussuosi hotel per occidentali. Altri hanno affermato che le loro vicende sono solo servite a gettare discredito sull’Italia per le conseguenze politiche ed economiche della loro liberazione. Qualcun altro ha definito la loro presenza in luoghi di guerra pura follia perché “di sapere quel che pensano i talebani o gli iracheni (o i palestinesi, per citare solo quelli che hanno l’onore delle cronache) non c’è assolutamente la necessità”. Certo, a chi interessa capire, in questo clima culturale di neocolonialismo, che i problemi di quei paesi sono diversi dai nostri non soltanto per motivi sociali ed economici, ma anche culturali e religiosi, che le culture, ossia i diversi modi di visione del mondo, elaborati e mantenuti per secoli, determinano il carattere e dunque la storia dei popoli? Non è più semplice accontentarsi dell’informazione pilotata da chi è parte in causa, da chi non può e non vuole spiegare le vere ragioni per cui si è in guerra? È evidente che è ormai privilegiato il giornalismo spettacolare e di “regime”, a scapito di un giornalismo di informazione, che non interessa più; nessuno vuole più un professionista esperto, formato, aggiornato e libero di intervenire con competenza sui nodi sempre più ardui del mondo contemporaneo. Gli editori sono oggi o politici o imprenditori, ma ad entrambi interessa il riscontro politico (il potere) od economico (e spesso coincidono) e solo questo. E il giornalista deve scrivere solo quello che può essere utile ad entrambi. Giornalisti alla ricerca della verità non interessano a nessuno, neppure al quieto vivere della pubblica opinione, che preferisce guardare dal buco della serratura della villetta di Cogne o della casa di qualche “velina”, salvo poi piangere gli eroi “per caso” quando qualcosa va male. Il giornalista deve scrivere la verità che interessa a chi lo paga.
- E infine un fatto locale. I giornali on-line locali (Giornal.it e Inalessandria.it) hanno eliminato e soppresso e radicalmente cancellato i commenti, tutti, anche quelli in archivio. Un attento osservatore di “cose locali” e collaboratore di Voce mi diceva: «Hanno fatto sparire il “corpo del reato”». Per cinque anni i commenti (scritti da un ristretto ma attivissimo gruppo e letti più della parte giornalistica) sono stati una palestra di linciaggio politico e morale, di calunnie, di leggende metropolitane, a volte anche di bestemmie, che hanno fatto buona presa; non solo riferiti all’ex Sindaco («la “nana maledetta”»), ma anche al Vescovo (“bolscevico”) e su tutti coloro che davano fastidio a certi personaggi e a una certa “cultura” o “sottocultura” politica, esprimendo modi di vedere e di giudicare che nulla hanno a che fare con la visione cristiana della vita e del vivere sociale. Tutto sparito, tutto scomparso, e nessuno si è sognato di protestare, neppure tra gli zelanti “commentatori”, né i responsabili, alcuni del “mondo cattolico”, hanno mai giustificato le ragioni della tolleranza di questa “palestra di inciviltà”, anzi spesso l’hanno difesa in nome della libertà di espressione. Poiché questa palestra è stata aperta e attivissima ben cinque anni e poi è stata bruscamente chiusa, sono consentiti dubbi e sospetti?
Una vena di pessimismo mi prende, anche a riguardo dei nostri media, la Voce e la Radio, e con essa la tentazione (certamente “benedetta e auspicata” da molti) di un periodo “sabbatico” di silenzio. Ho sperimentato spesso, e mi ha sempre sorpreso, l’attenzione con cui molti seguono le nostre omelie domenicali. La stessa attenzione, sensibilità e cordialità non riesco a trovarla tra i fruitori dei “media”; attraverso di essi ho sempre pensato di parlare a “cristiani adulti”, ma anche a tanti cosiddetti “lontani”, uomini e donne di “buona volontà” che dimostrano spesso cordiale attenzione e sensibilità nei confronti dell’esperienza cristiana, quando cerca di essere autentica nel pensiero e nella testimonianza di vita. Lo sforzo di questi anni è stato quello di riaffermare il primato del pensiero, di stimolare una profondità di giudizio, di non lasciare spazi al banale, alla superficialità, di mirare ad un “alto profilo” educativo e formativo. Nel mondo dei “media” cristiani credo si debba essere presenti come preti o laici credenti, come giornalisti, come opinionisti, come cittadini che hanno delle opinioni politiche, ma senza essere “portavoce” o “portaborse” o “propagandisti” di nessuno, fedeli solo – e in questo senso “schierati” - all’ispirazione evangelica, e non politica, testimoni del “Vangelo sociale”, del Vangelo letto e attualizzato nell’oggi, in una lettura che cerchi di esprimere le linee forti del “pensiero sociale cristiano”. «Illuminare le coscienze degli individui e aiutarli a sviluppare il proprio pensiero non è mai un impegno neutrale. La comunicazione autentica esige coraggio e risolutezza. Esige la determinazione di quanti operano nei media per non indebolirsi sotto il peso di tanta informazione e per non adeguarsi a verità parziali o provvisorie. Esige piuttosto la ricerca e la diffusione di quello che è il senso e il fondamento ultimo dell’esistenza umana, personale e sociale. Anche se i diversi strumenti della comunicazione sociale facilitano lo scambio di informazioni e idee, contribuendo alla comprensione reciproca tra i diversi gruppi, allo stesso tempo possono essere contaminati dall’ambiguità. I mezzi della comunicazione sociale sono una “grande tavola rotonda” per il dialogo dell’umanità, ma alcune tendenze al loro interno possono generare una monocultura che offusca il genio creativo, ridimensiona la sottigliezza del pensiero complesso e svaluta la peculiarità delle pratiche culturali e l’individualità del credo religioso. Queste degenerazioni si verificano quando l’industria dei media diventa fine a se stessa, rivolta unicamente al guadagno, perdendo di vista il senso di responsabilità nel servizio al bene comune. Pertanto, occorre sempre garantire un’accurata cronaca degli eventi, un’esauriente spiegazione degli argomenti di interesse pubblico, un’onesta presentazione dei diversi punti di vista. La formazione ad un uso responsabile e critico dei media aiuta le persone a servirsene in maniera intelligente e appropriata. Proprio perché i media contemporanei configurano la cultura popolare, essi devono vincere qualsiasi tentazione di manipolare, soprattutto i giovani, cercando invece di educare e servire. In tal modo, i media potranno garantire la realizzazione di una società civile degna della persona umana, piuttosto che il suo disgregamento. Infine, i media devono approfittare e servirsi delle grandi opportunità che derivano loro dalla promozione del dialogo, dallo scambio di cultura, dall’espressione di solidarietà e dai vincoli di pace. In tal modo essi diventano risorse incisive e apprezzate per costruire una civiltà dell’amore, aspirazione di tutti i popoli» (Benedetto XVI, 24 gennaio 2006 - I corsivi nel testo citato sono miei). Parole tutte che richiedono un approfondito esame di coscienza e una verifica schietta che tocca e impegna prima di tutti operatori e fruitori dei media cattolici. Parole che mi richiamano alla mente la “famosa” parresìa, parola greca che si potrebbe tradurre, con una definizione limitativa, con “dirla tutta, parlare senza peli sulla lingua”. È parresìa il lasciar scorrere fuori esattamente ciò che si ha dentro, senza calcoli di convenienza o di interesse personale; è parresìa il dire la verità, non mentire, non adattare le proprie opinioni all'occorrenza, ma esprimerle con forza e dignità, senza alcun timore. Così, mentre è andata smarrita la parresìa, ovvero il parlare schietto, anche in presenza di potenti e senza temere le conseguenze, il suo contrario, cioè la “frenesia” (phronesis), ovvero la furbizia, l'arrabattarsi in sistemi e strategie per ingannare il prossimo, ha mietuto secoli di successi fino a giungere ad identificare perfetta­mente l'essenza della nostra società. Una società frenetica, tribolante, tribolata e ansiosa, dove “parre­sìa” è un termine sconosciuto ai più, così come lo è la pratica della virtù corrispondente. Abbiamo ancora nella Chiesa il coraggio della parresìa? dwf