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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

mercoledì 29 ottobre 2008

Pellegrinaggio di pace e giustizia

“Terra santa, terra di tutti, terra nostra!”, è la sintesi con cui in un incontro con un gruppo di preti a Vicenza, a cui ho partecipato, il Patriarca emerito di Gerusalemme mons. Michel Sabbah, ha offerto alcuni spunti di riflessione, utili anche a noi per presentare la proposta dell’annuale pellegrinaggio in Terrasanta.
Bisogna cambiare il modo di organizzare i pellegrinaggi in Terrasanta. In molti casi sono solo “turismo religioso”, legato agli aspetti storico-archeologici o ad una proposta “spirituale” disincarnata e sostanzialmente indifferente alle persone che in quella terra vivono, lavorano, soffrono, combattono, amano, odiano: la “lectio biblica” che si propone potrebbe essere proposta tale e quale anche in una delle nostre parrocchie! Ci sono pellegrinaggi che non vedono l’occupazione militare della Terrasanta, non si accorgono del “Muro”, non “sentono” la paura quotidiana degli israeliani e l’umiliazione dei palestinesi, lo stridente contrasto tra ricchezza e povertà; il rischio di taluni pellegrinaggi è quello di vivere in una condizione al di fuori del tempo e del luogo; non c’è nessun incontro con le altre due grandi esperienze religiose (l’ebraica e l’islamica) perché molti camminano per la Terrasanta pensando che noi (cristiani, cattolici) siamo i “buoni” e gli altri sono i “cattivi”. Il pellegrinaggio è anche incontro con la Chiesa Madre di Gerusalemme e vicinanza e sostegno ai cristiani di Terrasanta, che però hanno “la sventura” di essere cristiani arabi, palestinesi e perciò segnati dal “sospetto” con cui guardiamo gli arabi e i palestinesi, vittime come siamo della oscena informazione massme¬diale. “Dovete aiutarci anche voi ad essere cristiani secondo il vangelo! Questo sia il vostro impegno e non solo continuare a sostenere progetti particolari. Aiutateci nella crescita della fede. Noi da parte nostra non possiamo aspettare domani per cercare di amarci tra cristiani e quindi non dobbiamo aspettare che finisca il conflitto...” ci diceva mons. Sabbah.
Perciò ripropongo anche quest’anno il pellegrinaggio in Terrasanta, con le caratteristiche che è venuto assumendo in questi anni:
- pellegrinaggio di credenti e non credenti, entrambi comunque in ricerca… La condivisione di domande e la partecipazione anche a momenti “religiosi”, aiuta gli uni e gli altri a conoscersi e ad andare a fondo nell’interrogazione di sé e della propria realtà più profonda: la Bibbia è la nostra guida;
- pellegrinaggio di solidarietà con tutti coloro che soffrono (e per la situazione della Terrasanta è tutto il mondo che soffre e vive in un perenne e pericoloso conflitto), per proporre a tutti la strada della pace nella giustizia;
- pellegrinaggio incarnato nella storia di oggi, per certi versi molto simile a quella della Palestina di Gesù e della Chiesa delle origini.
Il pellegrinaggio di quest’anno vede anche alcune differenze: non andremo in Galilea, ma subito nel cuore della Terrasanta: Betlemme e Gerusalemme. Proponiamo alcune esperienze inusuali, ma importanti per capire: la residenza a Betlemme per condividere l’esperienza e i disagi dell’occupazione militare; la visita di Hebron per incontrare una situazione che “apre i nostri occhi” e ci colloca sulla strada condivisa con Ebrei e Musulmani dei Patriarchi; l’incontro di amicizia con Gerico e la sua piccola presenza cristiana; la solidarietà con gli amici del centro Melkita di Ramallah e la realtà “atipica” di questa città, “capitale” della Palestina inesistente; e infine il pellegrinaggio al Sinai, luogo di nascita della nazione ebraica (nostri “fratelli maggiori”), dove viene donata una “legge” che li costituisce come popolo, ancora senza una terra, ma già fondati sul rispetto di principi fondamentali che affermano il valore universale di ogni essere umano.
Chiunque condivide questi principi è allora benvenuto e sarà un gradito compagno di viaggio. Sono certo che per tutti, come sempre sarà un’esperienza indimenticabile.
don Walter

TERRASANTA 2009 - 27 febbraio/6 marzo
PELLEGRINAGGIO DI PACE E GIUSTIZIA
SUI MONTI DI DIO: SION – GOLGOTA - SINAI


1 giorno – Venerdì 27 febbraio
ITALIA - TEL AVIV - GERUSALEMME - BETLEMME
Partenza con volo speciale e/o di linea per Tel Aviv. Arrivo a Tel Aviv, assistenza e disbrigo formalità. Trasferimento a Betlemme e sistemazione in hotel. Cena e pernottamento.

2 giorno – Sabato 28 febbraio
GERUSALEMME
Intera giornata dedicata alla visita di Gerusalemme: il Monte degli Ulivi, Ascensione, Chiesa del Pater, Dominus Flevit, Getsemani. Nel pomeriggio Chiesa di S. Anna, Piscina Probatica, Flagellazione, Via Dolorosa, Basilica del S. Sepolcro. Cena e pernottamento in hotel.

BETLEMME – HEBRON - BETLEMME
3 giorno – Domenica 1 marzo
Betlemme, visita alla Basilica della Natività e Messa con il Patriarca. Pranzo. Partenza per Hebron. Visita alle Tombe dei Patriarchi. Rientro a Betlemme. Cena e pernottamento

4 giorno – lunedì 2 marzo
GERUSALEMME
In mattinata visita della Città santa: Muro del Pianto, Spianata del Tempio con le Moschee. Monte Sion. Nel pomeriggio visita a Yad Vashem e al Museo del Libro. Cena e pernottamento.

5 giorno – Martedì 3 marzo
BETLEMME – GERICO - RAMALLAH - BETLEMME
In mattinata partenza per Gerico. Visite e incontri. Pranzo. Partenza per Ramallah. Rientro a Betlemme. Cena e pernottamento.

6 giorno – Mercoledì 4 marzo
BETLEMME - SINAI
In prima mattinata partenza verso il Sinai costeggiando il Mar Rosso ed addentrandosi quindi nel deserto. L’attraversamento del Sinai sarà una delle esperienze più suggestive del viaggio; un deserto che cambia continuamente colore in un insieme paesaggistico unico al mondo. Al termine apparirà l’Oreb in tutta la sua imponenza. Cena e pernottamento.

7 giorno – Giovedì 5 marzo
SINAI - SANTA CATERINA - ARAD
Prima dell'alba (per chi è in grado e se la sente!) partenza per la scalata dell'Oreb (alto mt. 2.244 - si parte da quota 1.500) dove si attenderà il sorgere del sole: uno spettacolo di grande suggestione. Durante la discesa sosta per la Santa Messa nella Valle di Sant’Elia. Proseguimento per il Monastero di S. Caterina. Pranzo in corso di escursione. Arrivo a Arad in serata e sistemazione in hotel. Cena e pernottamento.

8 giorno – Venerdì 6 marzo
ARAD - TEL AVIV - ITALIA
Prima colazione in hotel. Proseguimento per l’aeroporto di Tel Aviv in tempo utile per la partenza del volo di rientro.


QUOTE NETTE INIVIDUALI con voli di linea ElAl da Milano Malpensa € 1.350,00
(comprende servizio pullman da e per Alessandria e in Terrasanta, tasse di frontiera israeliane (€ 25), tasse di frontiera egiziane (€ 10), pensione completa escluse bevande). Il costo complessivo è lievitato rispetto agli scorsi anni per gli aumenti delle tariffe aeree e per il passaggio in Egitto.
Supplemento camera singola € 245,00

Hotels: Shepherd Hotel a Betlemme (4 stelle) - New Morgenland Hotel al Sinai - Inbar Hotel ad Arad

ISCRIZIONI: presso la Parrocchia Madonna del Suffragio
Via Pacinotti, 17 – Alessandria.
Telefono: 0131 262 259 – Fax: 0131 510 944 – Cell. 335 58 18 204
entro il 30 novembre con caparra di € 300

venerdì 24 ottobre 2008

L'ipotesi di Calamandrei


"Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuole fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci) Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di previlegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili,si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola previlegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare prevalenza alle scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: ve l’ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico."
Piero Calamandrei

Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III congresso dell’Associazione a Difesa della Scuola Nazionale, a Roma l’11 febbraio 1950

martedì 21 ottobre 2008

20 anni - Carlo Carretto

Nel 1975 ebbi la gioia e la fortuna di passare cinque giorni a Spello, ospite dei Piccoli Fratelli. La gioia e la fortuna fu accresciuta dal fatto di venire ospitato nell'eremo il cui responsabile era fratel Carlo Carretto. Essendo responsabile aveva anche il compito della cucina: al mattino gli ospiti prestavano alcune ore di lavoro manuale. Così per cinque giorni ebbi Carlo Carretto come cuoco! Una buona cucina, paesana, semplice, contadina, ma davvero buona! Resa ancor più buona dal dialogo intenso e fraterno, dalle riflessioni che ogni tanto Carlo regalava a noi suoi ospiti. Mi sembra giusto ricordare i 20 anni dal suo ritorno al Padre e ringrazio l'amico Luca (Mandrino) che mi ha segnalato lo scritto che segue. Mi pare che anche Carlo Carretto sia uno degli uomini che hanno dato cose grandi alla Chiesa e alla società nell'ultimo versante del secolo che ci sta alle spalle, ma che oggi sono messi, dalla Chiesa e dalla società, nel cassetto della dimenticanza e del silenzio. Personaggi scomodi, laici di grande statura evangelica, protagonisti - a volte precursori - e fedeli interpreti dello spirito del Concilio Vaticano II. Oggi nel gran calderone del revisionismo sociale e clericale. Anche Carlo Carretto si aggiunge ai vari Dossetti, La Pira, Lazzati, Ardigò, Scoppola, Masina, La Valle (alcuni ancora viventi per grazia di Dio) e tanti altri che ciascuno può elencare. Laici con la voce (anche quando hanno fatto, alcuni, una scelta di consacrazione); oggi si preferisce un laicato o afono o codino, silenzioso e obbediente. O mi sbaglio? dwf

C’è una quotidianità fatta di piccola cronaca, degli anni vissuti da Carlo Carretto a Spello, per me che ho vissuto e collaborato con questo grande fratello per oltre 25 anni, e raccontarla è il compito che mi è stato affidato. La cronaca minore può esser simpatica, legata all’appuntamento di dieci, dodici giovani che arrivammo a Spello e che eravamo interessati al messaggio di Charles de Foucauld e alla vita della Fraternità. Era il 15 agosto del 1965, Paul Cheval dei piccoli fratelli del Vangelo mandò una letterina a tutti quanti e anch’io ero fra questi. Ero da qualche giorno ad Assisi. Spello non mi diceva niente, e andai a cercare anche sulla guida del Touring dove si trovasse. Poi scoprii che era ad un tiro di schioppo da Assisi, dove ero stato spesso. Trascorsi alcuni giorni nella città di Francesco a pregare, e la sera del 14 agosto, vigilia dell’appuntamento, venni a Spello, per vedere dove l’indomani sarei andato a finire e andai a San Girolamo. C’era via vai di gente devota al cimitero. Entrai nel chiostro, dove si sentiva odore di pulito, perché era stato imbiancato di fresco. Ma non c’era nulla all’interno eccetto una pila di materassi. Non mi inoltrai, e ripresi la mia strada per Assisi alquanto perplesso. L’indomani mattina alle nove e mezzo ero di nuovo lì. Per le strade c’era gente che andava e veniva, perché era Ferragosto. A san Girolamo non si vedeva nessuno. Sedetti sul muretto e verso le dieci e mezza, con il caldo che si faceva sentire, arrivarono due piccoli fratelli. Uno era Paul Collet, un grande fratello. E l’altro molto più giovane, Manu. L’impatto fu da parte mia non molto felice. Innanzitutto c’era il
problema della lingua: ci si intendeva, ma non completamente. Fratel Paul era molto sofferente, lo si vedeva, e non diceva una parola. Manu, invece, di parole ne diceva anche troppe. Dopo i convenevoli, entrammo dentro a san Girolamo, che non era abbandonato, perché ci viveva una bella famigliola, quella di Giovanni Pergolesi, il custode del cimitero. Una famiglia che custodiva il cimitero da varie generazioni.
Quando ho visto entrare qui oggi Giuliano con sua moglie Rita gli ho detto: «Stasera
è anche un po’ la tua commemorazione», perché era il bambino di quella famiglia.
Proseguendo la narrazione, ricordo che allora entrammo. Di sopra trovammo l’amico
Leonello Radi e delle camerette preparate. Nel senso di pulite, con qualcosa di mobilio. C’era una sala capitolare, che colpì i fratelli, e il sottoscritto. Era una grande stanza con una panca che girava tutt’intorno e in mezzo, ogni tanto, ad una certa distanza, un buco: era la toilette dei frati nei secoli passati. I fratelli presero visione ed io pure. Fratel Paul si mise a letto. Avremmo saputo poi che aveva la malaria. Veniva dal Cameroun, dove erano stati uccisi dei fratelli. Scoprii che aveva una storia veramente eroica. Manu mi disse qualcosa del lavoro: «Bene adesso ci siamo conosciuti, Paul riposa, andiamo a cercare lavoro». Rimasi un po’ perplesso
e gli dissi: «Ma oggi è il 15 agosto». E lui di rimando: «Che vuol dire?». Risposi:
«Oggi è proprio la giornata di vacanza per eccellenza, in Italia. E non solo oggi, ma tutta questa settimana». Lui mi guardò irritato e non se la prese solo con me, ma andò un po’ più largo: i benedetti festaioli italiani! La cosa continuò a rendermelo abbastanza antipatico. Facemmo allora il giro di Spello. Lui era convinto di poter cercare lavoro. Ma non conoscevamo nessuno a Spello. Il paese era pieno di gente che andava a passeggio, anche di turisti. Arrivammo fino a Sant’Andrea e poi tornammo indietro. Lui mi diceva di chiedere se c’era lavoro. Io non avevo il coraggio, a
Ferragosto, di andare a chiedere lavoro. Tutti ci guardavano con curiosità. Arrivammo a Valle Gloria e Manu decise di comprare qualcosa da mangiare. Questa mi sembrava già un’idea più sensata. Mi chiese: «Tu hai soldi?». Avevo circa 2000 lire, o qualcosa del genere. Lui aveva qualche franco francese. Andammo in un negozio che trovammo per strada – era di Luigino Della Vedova – vicino a Valle Gloria. E con quelle 2000 lire mangiammo per oltre una settimana perché ci avevano visto abbastanza confusi e ci fecero credito. Fu il primo segno della bontà e generosità degli Spellani nei riguardi della Fraternità. Intanto non era arrivato ancora nessuno. Gli altri dieci, undici, infatti arrivarono nel tardo pomeriggio del giorno dopo. Alle due e mezza
del 15 agosto dopo aver mangiato qualche panino, a Manu venne un’altra idea: andare in pellegrinaggio ad Assisi. Alle due e mezza del 15 agosto! Partimmo a piedi attraverso la stradina della beata Angela, che ci avevano indicato fino alle Viole. Arrivammo a san Francesco e scendemmo a Santa Maria degli Angeli, potete immaginare come. Ma anche lui era cotto. E a Santa Maria degli Angeli, dopo una visita, disse: «Facciamo l’autostop». Non c’era ancora la superstrada e l’autostop abbiamo tentato di farlo. Finalmente si ferma una signora, o signorina, di una certa età, con una 500. Questa signorina fa i soliti discorsi e convenevoli. Dice: «Non so come mai mi son fermata. Non mi è mai capitato» e così via. Manu era dietro, e mi chiedeva cosa ci stessimo dicendo. Spese anche delle frasi in italiano un po’ confuse e la signorina, adombrata, ci chiese chi eravamo. Io lo sapevo, chi ero. Di Manu provai a
spiegare che era un religioso, ma non era facile facile farsi capire. Tirai fuori dei nomi che avevo sentito. Uno era Leonello Radi; ma alla mia domanda, «Lei lo conosce?», rispose seccamente di no. Ancora: «Conosce il vescovo di Foligno?». No. Vista l’aria che tirava, ero sempre più perplesso e preoccupato: una volta arrivati al borgo di Spello, alla domanda «Dove abitate?», come rispondere, senza suscitare
equivoci «Abitiamo al cimitero»? E Infatti, a un certo punto, mi disse: «Vi accompagno dove abitate». Mi feci forza, e risposi: «Guardi non si inquieti, io la capisco, ma noi abitiamo al cimitero». Con mia grande sorpresa, invece, non fece una piega e ci portò fino a san Girolamo. Io scesi per primo ringraziando. Ma lei disse
subito: «Voglio vedere casa vostra». Allora Manu gentilmente rispose con il suo stentato italiano: «Le offriamo un caffè». Ma dov’era il caffè?! Entrò, vide il chiostro e poi si congedò. Stranamente poi e per 41 anni, in un ambiente piccolo come il nostro di Foligno, o Spello, non mi è capitato di rivedere né la 500 né la
signora. Rientrati finalmente in casa, andammo a letto. Intanto erano arrivati altri giovani. L’indomani celebrammo la messa. Anche lì, un altro problema. Appena alzati e pronti per la celebrazione, Manu dice che si deve celebrare nel coro della vecchia chiesa per essere discreti, rispettare i preti del paese. Abbiamo quindi celebrato
messa. Anche Paul. Poi saltò fuori di nuovo il problema del lavoro. Manu fece una
predica giusta: i piccoli fratelli devono vivere del loro lavoro, la nobiltà del lavoro manuale, eccetera eccetera. Ma era sempre il 16 agosto. E poi fra noi, quando si era in difficoltà, correva il ritornello: verrà Carlo Carretto. Due dei giovani se ne andarono subito. Dopo una settimana anch’io pensai di fare lo stesso. Feci
la zaino e piano, piano me la squagliai. Ma sulla porta del chiostro, ecco un rumore
di automobile. Era il famoso maggiolino di Carlo Carretto. «Chi sei tu, chi sono io, aiutami a scaricare… e sono passati tanti anni e siamo qui ancora a parlarne con entusiasmo e gioia.
Fr. Gian Carlo

lunedì 20 ottobre 2008

Contro la società, i diritti, l'ambiente: i primi atti del Governo

Con i primi atti e provvedimenti di politica economica del governo Berlusconi e del ministro dell'Economia Tremonti torna una vecchia politica economica che - con la motivazione dei tagli alla spesa pubblica - colpisce enti locali, welfare, ambiente ed è gravemente carente di un'idea nuova di un modello di sviluppo che noi vogliamo fondato sull'equità sociale, sulla sostenibilità ambientale, la pace e la solidarietà internazionale.

Il decreto di finanziamento dell'abolizione dell'ICI sulla prima casa e la detassazione degli straordinari, il ddl per lo sviluppo economico, l'approvazione del decreto legge 112 e il DPEF introducono misure e proposte che critichiamo.

La manovra finanziaria del governo è contro la società, l'ambiente e i diritti.

I pesantissimi tagli previsti nei prossimi tre anni a sanità, scuola, enti locali, previdenza, ambiente superano i 30 miliardi di euro. Salari e redditi per i lavoratori dipendenti (a causa di un'inflazione programmata all'1,7% a fronte di una reale al 3,6% e alla mancata restituzione del fiscal drag) subiranno una drastica riduzione: per loro non caleranno le tasse, mentre continuerà a sopravvivere il trattamento fiscale di favore per rentiers e alte di reddito. Si rende ancora più precario il lavoro e si indeboliscono le norme sulla sicurezza sui posti i lavoro.

Si rilanciano le grandi opere e le centrali nucleari: gli interventi in materia ambientale per la mobilità sostenibile e le energie pulite sono invece drasticamente ridotte. Scuola e università vengono falcidiate dai tagli mentre i tagli ad enti locali e Regioni influiranno pesantemente sulla quantità e la qualità dei servizi in ambito sociale e sanitario.

L'ambiente. Torna la dispendiosa e inutile politica delle grandi opere con il rilancio della TAV e del Ponte sullo Stretto. Il ministro alle infrastrutture e trasporti Matteoli ha annunciato un piano contestabile e irrealistico di 14 miliardi di euro di finanziamenti pubblici nel triennio 2009-2011 - che dovrebbero “generare” investimenti in grandi opere per 46 miliardi di euro nel triennio - per le infrastrutture strategiche (quando si scopre che addirittura manca la copertura degli investimenti ordinari ANAS e RFI per sette miliardi di euro l’anno) destinati prioritariamente a: i costosissimi vecchi progetti (per un ammontare complessivo di 14 miliardi di euro) redatti dai general contractor (GC), a cui erano state revocate le concessioni, delle tratte dell’AV Mi-Ge, Mi-Vr e Vr-Pd; i 6,1 miliardi di euro destinati al ponte sullo Stretto nella situazione disastrosa delle infrastrutture nel Mezzogiorno (basti ricordare i tempi eterni dei cantieri della A3 Salerno-Reggio Calabria e della SS106 Ionica) a cui il ministro Matteoli vorrebbe aggiungere i 5,6 miliardi destinati a progetti di autostrade per la Livorno-Civitavecchia e per la Roma-Formia, quando si può procedere al potenziamento a 4 corsie rispettivamente dell’Aurelia e della Pontina esistenti.
Queste scelte in campo infrastrutturale e trasportistico non risolvono i problemi delle grandi aree metropolitane e del trasporto (a breve e medio raggio), ove si concentrano i più gravi problemi di congestione e di inquinamento. Esse sono invece accompagnate a disposizioni urgenti contenute nei primi decreti economici del terzo governo Berlusconi che nulla hanno a che vedere con politiche liberiste o anche solo liberali, basti accennare a: il salvataggio assistito di Alitalia a carico dei contribuenti e a danno dei lavoratori; la cancellazione della revoca delle concessioni per i GC per le tratte dell’AV ancora non iniziata; il consolidamento dell’oligo-polio nel settore autostradale (in primis di Autostrade per l’Italia) grazie alla ratifica per legge delle nuove convenzioni tra ANAS e concessionarie. Mentre il governo esprime dubbi sul conseguimento in Italia degli obiettivi condivisi dall’Europa, su proposta della Germania, per la riduzione al 2020 del 30% delle emissioni di CO2, viene annunciato dal ministro Scajola e dal governo nel suo complesso un piano per la costruzione di nuove centrali nucleari alle quali siamo fermamente contrari, visti gli inesistenti vantaggi dal punto di vista ambientale (anche se si raddoppiassero le centrali nucleari su scala globale, con i relativi rischi per la sicurezza e per lo smaltimento delle scorie nucleari, queste contribuirebbero solo ad una riduzione del 5% delle emissioni climalteranti) e i sicuri svantaggi in termini di tempi e costi (solo al 2030 si potrebbe avere un parco di 10 centrali in Italia, per un totale di 10-15 mila MW di potenza installata, e un costo tra i 30 e i 50 miliardi di euro di investimenti, in gran parte pubblici). Come è noto il settore nucleare assorbe il 90% dei fondi destinati alla ricerca di fonti alternative ai combustibili fossili, quando nel nostro Paese il contributo al fabbisogno energetico delle energie rinnovabili è al minimo storico: il rapporto tra produzione da fonti rinnovabili e produzione totale è sceso al 15,7% (il livello più basso degli ultimi 15 anni), mentre l’obiettivo al 2012 era di raggiungere una quota del 25%. Il decreto con il quale è stata finanziata l'abolizione dell'ICI contiene tagli significativi alla mobilità sostenibile e alle ferrovie locali, al trasporto pubblico locale (mancando così clamorosamente l’obiettivo di una politica coordinata sulle aree urbane) e al fondo forestazione, alle aree marine protette. A questo ultimo proposito vale la pena ricordare la mancanza di una proposta organica sulla conservazione della biodiversità, coerente con gli impegni assunti in sede internazionale con l’adesione dell’Italia al “Count down 2010”, in attuazione della Convenzione internazionale sulla diversità biologica, e con la Strategia europea per arrestare la perdita di biodiversità.

Politica fiscale. Intanto, il DPEF prevede nei prossimi quattro anni una pressione fiscale inalterata, a tutto vantaggio delle alte di reddito e per i redditieri con un effetto regressivo a danno dei lavoratori dipendenti. La cancellazione dell’ICI sulla prima casa è la misura più regressiva. 1,7 miliardi di euro in tre anni da cui sono esclusi tutti quei proprietari di case che dovrebbero pagare meno di 350 euro di ICI (perché già esclusi da Prodi), più tutti quelli che non sono proprietari e vivono in affitto, ovvero i ceti più poveri e i giovani. Inoltre una serie di micro provvedimenti indebolisce la lotta all'evasione fiscale. Tra questi l'eliminazione della responsabilità solidale del committente con l'appaltatore e il subappaltatore, dell'obbligo dell'elenco clienti-fornitori, della trasmissione telematica dei corrispettivi, ecc. Inoltre - altro elemento d’alleggerimento dei controlli - viene più che raddoppiata la cifra per l'emissione degli assegni non trasferibili. Inoltre l'abolizione di istituti come il SECIT (Servizio Ispettivo Tributario) e dell'Alto commissariato per la prevenzione e il contrasto alla corruzione non aiutano la lotta all'evasione fiscale e al malaffare. Le dichiarazioni dei redditi di tutti i contribuenti saranno teoricamente pubbliche, ma l’accessibilità sarà consentita solo per un anno e vincolata alla dimostrazione di un interesse specifico. La trasparenza si rende di fatto impossibile e l’accesso praticamente precluso ai giornalisti.
Critichiamo perciò la proposta di vietare la pubblicazione on line dei redditi (con una multa assai alta – 90 mila euro), che invece ci sembra un'elementare questione di trasparenza.

Spesa militare e sicurezza. A fronte di limitate riduzioni dei fondi del ministero della Difesa si prevede l'aumento del 10% dei fondi per le missioni militari all'estero. Inoltre - unico caso nella Pubblica Amministrazione - si prevede che il Ministero della Difesa possa vendere (anche a trattativa privata) i beni del demanio militare: caserme, poligoni, ecc. e utilizzare i proventi per finanziare le proprie necessità. Si tratta - lo ricordiamo - di centinaia di strutture capaci di portare il prossimo anno 2 miliardi di euro nelle casse dei militari. Invece di privatizzare e aumentare la spesa militare, questi beni dovrebbero essere restituiti alle comunità locali con destinazioni sociali e pubbliche.
Si spendono inoltre risorse per la messa a disposizione di 2500 soldati per il pattugliamento delle città. Quei soldi sarebbero stati molto più utili per promuovere interventi di riqualificazione delle nostre città e di lotta all’esclusione sociale. Tra l'altro si tratta di una misura esclusivamente propagandistica, essendo l'organico complessivo di tutte le forze dell'ordine dedite alla sicurezza in questo Paese oltre 400 mila addetti. Una misura simbolica che non ha alcun effetto concreto, ma una valenza prevalentemente demagogica. Si otterrebbe la stessa disponibilità di nuovi addetti, attraverso una semplice riorganizzazione degli organici di PS, Carabinieri, etc. Consideriamo inoltre molto negativamente i provvedimenti sulla sicurezza, che violano in molte parti il nostro ordinamento giuridico, oltre a rendere, in modo inutilmente vessatorio, la vita più difficile agli immigrati.

Welfare, scuola, salute, immigrazione e lavoro. 20 miliardi i tagli ad enti locali, pensioni e salute, 7 miliardi i tagli a scuola e università. Solo la sanità subirà un taglio di 5 miliardi in tre anni.

Per quanto riguarda il lavoro si reintroduce il lavoro ad intermittenza (job on call), una delle forme più odiose e umilianti di lavoro precario. Si depotenziano (meno sanzioni e meno controlli pubblici) i provvedimenti del testo unico sulla sicurezza sul lavoro. Il provvedimento sull'“impresa in un giorno” attenuerà le misure sulla sicurezza e le verifiche ambientali. Si riduce di 2/3 il numero di lavoratori precari ammessi alla regolarizzazione nella Pubblica Amministrazione. Inoltre l'introduzione del libro unico del lavoro (sostituendo il libro matricola e il libro paga) indebolisce le attività ispettive. Il provvedimento di detassazione degli straordinari, invece di sostenere il lavoro e la lotta alla precarietà e ridurre le tasse per tutti i dipendenti, costituisce un micro intervento per una minoranza dei lavoratori italiani. Meglio sarebbe stato utilizzare la somma stanziata per detrazioni fiscali in favore di tutti i lavoratori dipendenti.

Per l'immigrazione, il disegno di legge 733 “Disposizioni in materia i sicurezza pubblica”, attualmente in Commissione Affari Costituzionali del Senato, prevede di stanziare nel 2009 93,3 milioni di euro per la costruzione di nuovi (e ribattezzati) Centri di Identificazione ed Espulsione, strutture di detenzione inutilmente lesive della libertà personale dei cittadini stranieri, già risultate in questi anni inefficaci a contrastare l’immigrazione irregolare; a questi si aggiungono 103,2 milioni di euro per finanziare la loro gestione. L ’impianto discriminatorio delle politiche del governo, di cui il pacchetto sicurezza e la decisione di schedare i bambini rom costituiscono solo gli esempi più noti, attraversa anche i provvedimenti di natura economico-finanziaria. Il decreto che taglia l'ICI prevede infatti di recuperare le risorse necessarie sottraendone anche al fondo per l'inclusione degli immigrati, introdotto dal governo Prodi, 50 milioni i euro.
In materia di politiche di assistenza sociale viene cancellato il finanziamento al Fondo per la non autosufficienza mentre viene introdotta la cosiddetta “carta acquisti” prevista dalla manovra finanziaria, ennesima elemosina una tantum per cittadini poco abbienti che dovrebbe “sostenere ” il loro accesso all’acquisto di beni e servizi, ed è preclusa ai cittadini di origine straniera; il cosiddetto “piano casa” restringe la possibilità di accedere alle facilitazioni da esso previste ai cittadini residenti in Italia da 10 anni (o nella regione da 5 anni) e lo stesso requisito è richiesto per avere diritto all’assegno sociale. Si annuncia l'ennesimo bonus bebè per il 2009, invece di costruire asili nido e assicurare più servizi sociali alle famiglie.
Il Fondo per le politiche sociali rimane alla modesta cifra dell'anno scorso. Inoltre nel triennio 2009-2011 il governo taglia oltre 500 milioni alla missione “Diritti sociali, solidarietà sociale e famiglia ”.

La scuola e l'università dovranno subire tagli assai consistenti. Si parla – complessivamente - di oltre 7 miliardi di euro in tre anni. La possibilità della trasformazione delle Università in fondazioni private apre la strada alla privatizzazione del sistema pubblico, più che a rafforzarne l'autonomia funzionale.

Ridotto di 500 milioni il finanziamento ordinario per l'Università. Il sistema pubblico dell'istruzione viene poi pesantemente colpito alla riduzione del 17% (43mila addetti) del personale tecnico e ausiliario delle scuole (significa che ci saranno meno ore di laboratorio e taglio delle sperimentazioni), nonché di 87 mila docenti nei prossimi tre anni. Per “risparmiare ” verrà aumentato l'affollamento degli studenti per (classi più numerose) con il conseguente scadimento dell'offerta formativa. Nella stessa direzione vanno l'abolizione del tempo pieno e la reintroduzione del maestro unico per le elementari. Tagli anche ai centri di educazione per gli adulti e ai corsi serali. Non ci sono fondi per il diritto allo studio e per l'edilizia scolastica. L'e-book è una misura propagandistica: bisognerà pagare per continuare a scaricarli e la diffusione di internet (comprese le scuole) è assai limitata nel nostro Paese.

Per la politica sulla casa, il provvedimento della vendita (a favore dei giovani, delle basse di reddito, ecc.) delle case popolari va nella direzione dell'alienazione del patrimonio pubblico, senza affrontare il tema dell'obiettivo della sua riqualificazione, di una politica pubblica di edilizia residenziale mentre non esistono interventi che rafforzino il sostegno sociale all'affitto. Si estende agli enti locali il complesso di scorciatoie e procedure facilitate per la cartolarizzazione del patrimonio pubblico. La stessa ipotesi di interventi di incremento del patrimonio pubblico delle abitazioni con il coinvolgimento di capitali privati è generico e in alcuni casi “creativo”, nell'ipotesi dell'improbabile costituzione di strumenti finanziari pubblico-privati dalla fumosa identificazione.

La riduzione di 5 miliardi alla Sanità in tre anni, la possibile reintroduzione dei ticket di 10 euro sulla specialistica (sono infatti previsti solo 400 degli 834 milioni necessari all’abolizione mentre il resto dell’onere graverà sulle Regioni) e la decisione di non rivedere i LEA (esenzioni per malattie croniche, odontoiatria, ecc.) rappresenteranno un pesante colpo ai servizi sanitari e alla loro qualità.

Il Sud, l'economia, le privatizzazioni. Per finanziare l'abolizione dell'ICI sono stati tagliati i finanziamenti per gli interventi e gli investimenti al Sud. Il governo cancella i precedenti provvedimenti volti a finanziamenti mirati per lo sviluppo a favore del ripristino di norme di finanziamento a fondo perduto degli interventi.

Degli oltre 2 miliardi e 100 milioni tagliati al Ministero dello Sviluppo Economico la gran parte viene tolta al Mezzogiorno e alla Ricerca e all'Innovazione. Riproposta la privatizzazione dei servizi pubblici locali, delle farmacie comunali e - assai grave - dei servizi pubblici legati all'erogazione e alla distribuzione dell'acqua. Si prevede la costituzione di un’inutile e clientelare Banca del Mezzogiorno.

Enti locali. Si prevede con i provvedimenti di questi giorni di tagliare in tre anni oltre 12 miliardi di euro di risorse agli enti locali e alle Regioni. Questi tagli, combinati con le conseguenze delle mancate entrate derivanti dall'ICI metteranno gli enti locali (fino ad oggi il governo non ha dato una risposta convincente sulla copertura di queste mancate entrate per i Comuni), e in particolare i Comuni, nelle condizioni di dover tagliare i servizi ai cittadini o di dover ricorrere a maggiori tributi locali per finanziarli.

Petrolieri e giustizia fiscale. Viene sbandierata dal ministro Tremonti la tassa sugli extraprofitti (maggiorazione dell'IRES del 5%) delle società petrolifere come un importante risarcimento sociale per le più disagiate. Ma allora perché non si colpiscono tutti gli extraprofitti, da quelli delle banche a chi si è arricchito con il CIP6 e la privatizzazione delle autostrade? Perché non si colpiscono - con l'imposizione fiscale - le di reddito più alte - sopra i 200mila euro - e soprattutto le rendite finanziarie speculative che sono fonte di extraprofitti ingiustificati oltre che dannosi per il buon funzionamento dell'economia? Per il tipo di tassa, quella qui proposta si presta ad essere scaricata facilmente sui consumatori sull'aumento di tariffe e benzina. La relazione tecnica che accompagna il decreto attende entrate tra i 2.2 e 4.7 miliardi nei prossimi anni. Di questi, 200 milioni saranno destinati al “Fondo di solidarietà per i meno abbienti” .Va inoltre ricordato che nel frattempo il prezzo del petrolio è calato in due mesi di un terzo, mentre il prezzo della benzina è rimasto invariato. I petrolieri hanno così ampiamente recuperato la lieve riduzione dei profitti.
Campagna Sbilanciamoci

Il rapporto di Sbilanciamoci! può essere letto nella sua forma integrale sul sito www.sbilanciamoci.org

Fallimento morale

Riprendo e ripropongo da http://www.bloginternazionale.com questo post che, mi pare, non necessita di ulteriori commenti!

«Per arginare la più grave crisi finanziaria dal 1929, il Pianeta gioca con miliardi di dollari. Gli stati s'indebitano, le banche riprendono fiato e le borse risalgono. Nel pieno di una tempesta che ci spinge a mettere in discussione le basi dei nostri sistemi economici, certe cifre fanno girare la testa.
Secondo le stime delle ONG, per sfamare i 923 milioni di esseri umani denutriti che ci sono nel mondo basterebbero 30 miliardi di dollari all'anno. Meno del 5% della cifra prevista dal piano Paulson. Una miseria.
Anche per questo, la giornata mondiale dell'alimentazione del 16 ottobre suona come un campanello d'allarme. Secondo la FAO, nel 2008 il rincaro dei prodotti agricoli e del petrolio ha provocato 75 milioni di nuovi affamati nel mondo. Ogni cinque minuti un bambino muore per cause legate alla malnutrizione. Eppure quando è in pericolo la sopravvivenza delle banche, i miliardi saltano fuori.
A 2400 chilometri da Wall street, Haiti, uno dei paesi più poveri del mondo, riassume tutte queste miserie. La crisi alimentare è stata aggravata dal passaggio di due cicloni e di due tempeste tropicali. Ma ad Haiti, come altrove, si muore in silenzio.
La mobilitazione internazionale dura il tempo di un telegiornale. La crisi colpisce le rimesse degli haitiani che vivono all'estero. Dopo il fallimento finanziario, è ora che il mondo si preoccupi del suo fallimento morale».

Queste parole provengono da un editoriale del quotidiano francese Le Monde.
La promozione dei diritti umani è parte integrante della sua identità e di quella nazionale francese; le radici di questa tendenza risalgono al XVIII secolo.

venerdì 10 ottobre 2008

Afghanistan, cronache di un disastro

La Stampa di oggi, 10 ottobre, pubblica l'articolo che riprendo integralmente a firma Carla Reschia. E' sempre brutto dire: "Te l'avevo detto", ma a volte è una frase che attraversa la nostra mente. Nel marzo 2007 ho pubblicato su La Voce alessandrina un editoriale dal titolo "Missione di pace?" dedicato alla situazione della cosiddetta missione di pace in Afghanistan; c'è voluto più di un anno di indagine da parte di agenzie di spionaggio americane e l'esplicita denuncia di militari inglesi per giungere alle stesse conclusioni già delineate in quell'editoriale. Senza essere né geni né eccezionali analisti politici, bastava un po' di informazione, un po' di storia, un po' di buon senso... Ripropongo anche quell'editoriale. Va da sè che quelle riflessioni e quelle di questi giorni vanno in direzione opposta da quelle affermate a proposito della guerra in Afghanistan dai nostri incomparabili ministri degli Esteri e della Difesa; appena nominati si sono affrettati a dire che le "regole di ingaggio" andavano cambiate perché l'Italia potesse partecipare a pieno titolo alla "missione di pace" con una piena partecipazione alle azioni di guerra della NATO!



Pessime notizie dall'Afghanistan, e stavolta sono firmate Cia. Fa discutere un rapporto preparato dall'intelligence Usa (ben sedici agenzie hanno collaborato alla sua stesura) sulla situazione nel Paese, che offre un quadro allarmante della situazione. In sintesi: la corruzione dilaga nel governo amico di Kabul, i taleban sono più forti di prima e l'unica cosa che va alla grande, 50% del reddito nazionale - peccato che si stia lì anche per impedirlo - è il traffico di eroina.
Rapporto che arriva, forse non a caso, a ruota delle voci sulla necessità di una soluzione politica del rebus afghano. Una tesi sostenuta bipartisan
dal comandante delle truppe britanniche impegnate in Afghanistan, Mark Carleton-Smith - ha amesso che «la guerra in Afghanistan non si può vincere» - e dal presidente Karzai, che, complice forse un fratello compromesso con il business più redditizio del Paese, ha proposto negoziati con i taleaban, probabilmente già in atto. E ora accolta, a Budapest, dal segretario americano alla Difesa Robert Gates che, se non sarà smentito, ha annunciato il via libera alle trattative. I taleban non sono più banditi ma interlocutori.
E, tempestivamente, il rapporto dei servizi invoca un cambio di indirizzo, sollecita una revisione urgente della politica americana nel Paese asiatico e non risparmia critiche alla lentezza della reazione delle autorità Usa di fronte al crescere dei problemi sul territorio. Il tutto in un quadro più che fosco dove confluiscono i terroristi di Al Qaeda, i taleban, i nazionalisti del Kashmir, gli eserciti privati di alcuni signori della guerra e i gruppi tribali del Pakistan occidentale.
La soluzione adombrata è quella solita, usata recentemente in Iraq, e tempo addietro nello stesso Afghanistan: sostenere alcuni gruppi armati sperando che prevalgano e impongano ordine. Gli ultimi si chiamavano mujaddin e furono finanziati per combattere l'invasione sovietica. Sono gli "antenati" dei taleban, che ora potrebbero tornare, almeno in alcune loro componenti, in auge.
Funzionerà? Dall'Afghanistan arriva la voce, forte e sincera di un'altra donna coraggiosa. Si chiama Malalai, come la poliziotta uccisa pochi giorni fa. Nome che nel Paese rende omaggio a una Malalai leggendaria, eroina della Seconda guerra anglo-afghana, fra il 1878 e il 1880. Lei, Joya di cognome, è avvocato e l'anno scorso è stata sospesa dal Parlamento afgano per avervi denunciato la presenza di narcotrafficanti e signori della guerra.
Da Londra, dove l'organizzazione per i diritti umani Reach All Women in War le ha consegnato il premio Anna Politkovskaya, Malalai ha lanciato un atto d'accusa senza mezzi termini ai "salvatori" occidentali e ha detto com'è oggi il suo Paese: un disastro. «Il mio popolo sofferente -ha detto - è stato del tutto tradito in questi sette anni dagli Usa e dai loro alleati. È stato invaso e bombardato nel nome della democrazia, dei diritti umani e dei diritti della donna, ma i peggiori nemici di questi valori sono stati sostenuti e portati al potere. Il governo statunitense e i suoi alleati hanno "sfruttato" la piaga dell'oppressione delle donne afgane per legittimare l'intervento nel Paese, ma una volta rovesciato il regime talebano, invece di far affidamento sul popolo afgano, ci hanno fatto cadere dalla padella alla brace, portando al potere gli infami criminali dell'Alleanza del Nord». Ovvero «Nemici giurati della democrazia e dei diritti umani, oscurantisti, misogini e crudeli quanto i Taliban».
In più, ha aggiunto, il governo afgano «ha il controllo solo del 30% del territorio, e là dove taleban e signori della guerra locali hanno il potere non c'è legge». «La nostra nazione - ha testimoniato - sta ancora vivendo nell'oscurità della guerra, dei crimini e delle brutalità dei fondamentalisti, e le donne sono il primo e silenzioso sacrificio di questa situazione. La propaganda del mondo sulla liberazione dell'Afghanistan e la lotta contro il terrorismo sono bugie, le forze usa e Nato hanno ucciso più civili dei nemici del popolo afgano». «E mentre il Paeseha ricevuto 15 miliardi di dollari di aiuti - ha concluso - il 70% del mio popolo vive con meno di due dollari al giorno».



MISSIONE DI PACE?

Scrivo mentre è in corso il dibattito al Senato sul rifinanziamento delle missioni militari “di pace” italiane all’estero, ma sono assolutamente disinteressato al voto che concluderà il dibattito stesso. Avevo recentemente chiesto con una lettera aperta al Presidente del Consi-glio segni di “discontinuità” rispetto alla politica estera del Governo precedente; potrei ri-tenermi soddisfatto da quanto affermato in questi giorni dal capo della destra, che ha sotto-lineato con il suo solito modo “pacato e scevro da polemiche di parte” che questo Governo ha scelto una politica di “assoluta e totale discontinuità” in politica estera, scegliendo di stare dalla parte dei “terroristi, degli sgozzatori, di Hezbollah, di Hamas” e perdendo tutto quel credito e quel prestigio che gli scodinzolamenti precedenti avevano procurato al nostro Paese. È evidente che il disinteresse sta nel fatto che non è chi non veda come ogni dibattito parlamentare sia ormai strumentale, finalizzato solo a delegittimare il Governo in carica sognando una sua sostituzione in tempi brevi, che permetta il ritorno al potere di chi mal sopporta un ruolo di opposizione, sapendo qual è in una democrazia il vero ruolo dell’opposizione. Ma tralasciamo lo squallore e la mancanza di pudore di taluni politicanti nostrani e cerchiamo di capire qualcosa di più a proposito della guerra in Afghanistan.
Il cinquantasei per cento degli italiani vorrebbe il ritiro delle truppe italiane dall’Afghani¬stan, secondo un sondaggio commissionato dal quotidiano La Repubblica. Ma forse non sono molti quelli che hanno sufficiente conoscenza della materia per una propria valutazione che vada al di là degli slogans propagandistici dei sostenitori della “guerra ad oltranza”, anche se mascherata sotto la coperta della lotta al terrorismo di al-Qaeda e dei suoi alleati talebani. Una parte dell’opinione pubblica è probabilmente d’accordo con il farneticante pensiero (?) espresso da un “politico” nostrano in una sua lettera a seguito della liberazione di Mastrogiacomo: «…Dovrei, forse, scrivere che sono contento che hai avuto salva la vita ed invece dico no. Non sono contento perchè la tua vita, che da solo hai deciso di mettere in pericolo, penso per avidità di guadagno, è costata molto, troppo. Per prima cosa hai con-tribuito a far sgozzare un ragazzo che ti faceva da autista e che, probabilmente con il ricatto del denaro, hai costretto a condurti in luoghi pericolosi che gli sono costati la vita. Per seconda cosa hai fatto piegare al ricatto mezzo mondo con esborsi di risorse enormi sia come spese che, molto probabilmente, come pagamento di un riscatto. Per terza cosa, se pagamento c’è stato, perchè questo denaro verrà speso per mantenere e armare terroristi che spargeranno sangue di militari e, molto probabilmente, anche di innocenti. Per quarta cosa, che giudico la più grave, per salvarti la vita hanno dovuto liberare delle persone che già si erano macchiati di omicidi feroci e che, per colpa tua, ora sono liberi di ricominciare la loro attività di tagliagole e di colpire ancora … Forse un ragazzo, della mia o della tua cit¬tà che, non essendo un giornalista di grido come te, per guadagnarsi la vita e mantenere la sua famiglia ha indossato una divisa ed ha accettato di andare a combattere in quel Paese lontano dove questo Governo e il Governo precedente pensano di “portare” la democrazia e la libertà. E tu, giornalista con autista ed interprete, per uno scoop, per guadagnare più soldi, fai liberare i loro potenziali aguzzini. Ora sei libero dalle catene dei terroristi ma spero non dal rimorso. Se la Giustizia fosse giusta dovresti essere processato per collaborazionismo e futura strage. Se io fossi il pm al processo, chiederei per te la pena dell’erga¬stolo!». Non cito il suo nome, perché l’autore di tanta profondità sarà candidato alle prossime elezioni amministrative e sarebbe imbarazzante un qualsiasi commento e alla banalità delle affermazioni e all’italiano; senza dire della sua comprensione di quale ruolo una corretta informazione possa svolgere in una democrazia, anche e soprattutto in caso di guerra... Piuttosto dedichiamo un po’ più di attenzione al martoriato Afghanistan.
Un po’ di date e dati. 1979-1989: truppe sovietiche (e governative) contro guerriglia muja-hedin (sostenuta dagli Stati Uniti). 1989-1996: conflitti armati tra mujaheddin tagiki, uzbeki, hazari, pashtun. 1996-2002: talebani al governo (sostenuti da Pakistan e Arabia Saudita) contro la resistenza dei mujahedin tagiki, uzbeki e hazari uniti nell’Alleanza del Nord (sostenuta da Russia, India, Iran, Tajikistan e Uzbekistan). 2002-oggi: truppe americane e governative (del governo di Hamid Karzai) contro la resistenza dei talebani e dei miliziani dell’Hezb-i Islami nelle province sud-orientali al confine col Pakistan; milizie uzbeke contro milizie tagike (di Mohammad Atta) nelle province settentrionali del Paese. Troppo spesso si dimentica poi che l’Afghanistan attuale è e resta un coacervo di piccoli “feudi” tribali e di clan che nessuna forza nazionale o internazionale è mai riuscita ad unire in una unità statuale, ma solo ha potuto portare ad occasionali ed interessate alleanze temporanee. La guerra tra forze sovietiche e resistenza afgana (1979-1989), quella successiva tra le varie fazioni di mujahedin (1989-1996) e quella tra talebani e Alleanza del Nord (1996-2001) hanno causato la morte di un milione e mezzo di afgani, due terzi dei quali (un milione) civili. L’intervento armato Usa alla fine del 2001 ha provocato la morte di 14 mila afgani, di cui almeno 10 mila combattenti talebani e quasi 4 mila civili. A queste vanno aggiunti migliaia di civili afgani morti nei mesi successivi alla fine del conflitto per le malattie e la fame provocate dalla guerra. Dal 2002 a oggi la guerra ha causato altri undicimila morti, di cui seimila solo nel 2006. Dall’inizio del 2007 la guerra ha causato almeno 748 morti, di cui 230 civili, 360 talebani o presunti tali, 136 militari afgani e 22 soldati Nato.
L’Afghanistan è uno dei paesi più minati del pianeta. Secondo dati di una organizzazione non governativa britannica dal 1979 ad oggi sono state disseminate, ufficialmente, almeno 640 mila mine, tra antiuomo e anticarro. A queste vanno aggiunti milioni di ordigni inesplosi: le forze aeree Usa hanno sganciato sull’Afghanistan centinaia di migliaia di cluster bomb, la maggior parte delle quale rimaste inesplose. Solo nel 2003 ne sono state rinvenute e distrutte quasi 13 mila. Dal 1979 ad oggi 400 mila afgani (per l’80 per cento civili) sono rimasti uccisi o mutilati dalle mine. L’Afghanistan è il maggior produttore di oppio al mondo (l’eroina af-gana rifornisce i tre quarti del mercato occidentale) ed è ricco di smeraldi e risorse minerarie. Ma il valore strategico del Paese è legato ai gasdotti e ai corridoi commerciali (stradali e ferroviari) che lo attraversano, collegando gli Stati ex-sovietici dell’Asia centrale con il Pakistan e l’India. Inoltre la recente scoperta di immensi giacimenti di uranio potrebbe diventare una fonte potenziale di nuovi conflitti. L’esercito afgano è armato dall’Occidente (Usa e Gran Bretagna in testa), i mujahedin da Russia, India, Iran, Tajikistan e Uzbekistan. I talebani si finanziano col commercio illegale di oppio e grazie all’appoggio indiretto del Pakistan e dell’Arabia Saudita. Sono ormai passati sei anni dall’inizio dell’occupazione dell’Afghanistan, appoggiata dalla Nato, e la situazione ancorché migliorare degenera sempre più, tanto da essere di fatto una guerra in corso d’opera. Chi è responsabile di questo disastro? Perché il paese è ancora sotto occupazione? Quali sono gli obiettivi strategici americani nella regione? Qual è la funzione della Nato? E per quanto tempo un paese può rimanere sotto occupazione contro la volontà della maggioranza del suo popolo?
Ottima cosa è stata certamente la caduta del regime dei talebani, ma le speranze suscitate dalla demagogia occidentale non sono durate a lungo. La nuova classe dirigente afgana in buona parte rientrata dall’estero si è appropriata della maggior parte degli aiuti esteri per creare le proprie reti di profitto illecito e clientelare. Così invece di provvedere all’essen¬ziale per la popolazione (gran parte del Paese non è fornito né di acqua né di luce nelle case) sono state organizzate delle frettolose elezioni a basso costo dall’occidente, essenzialmente a beneficio dell’opinione pubblica occidentale, incapace di pensare e di accettare che possa esistere uno stato non costruito sul modello conosciuto da noi e dalla nostra storia pure recente. Probabilmente, più utile sarebbe stata la costruzione di scuole, di ospedali e di case e la ricostruzione dell’infrastruttura sociale, che era stata distrutta dopo il ritiro dell’esercito sovietico nel 1989, questo avrebbe potuto dare stabilità al paese. Sarebbe stato anche necessario un intervento dello stato per l’agricoltura e per le imprese famigliari per ridurre la dipendenza dalla coltivazione del papavero. Così la corruzione dei gruppi dominanti è cresciuta come un tumore: il fratello minore del presidente Karzai è diventato uno dei maggiori baroni della droga del paese. Così mentre le condizioni economiche non sono minimamente migliorate, le forze militari della Nato spesso hanno colpito innocenti civili causando le proteste violente antiamericane dell’ultimo anno nella capitale afgana. Quello che inizialmente era stato considerato come un’azione di polizia necessaria contro al-Qaeda conseguente agli attacchi dell’11 settembre, adesso viene percepito da una maggioranza in crescita in tutto il paese come una vera e propria occupazione imperialista. I talebani crescono e stanno creando nuove alleanze non perché le loro pratiche religiose siano diventate popolari, ma perché rappresentano l’unico gruppo a disposizione per la liberazione nazionale. Come inglesi e russi hanno imparato a proprie spese nei due secoli precedenti, agli afgani non piace essere in regime di occupazione. Di fatto non c’è alcuna possibilità che la Nato possa vincere adesso questa guerra: inviare altre truppe porterà solo più morti. E la guerra finirà per destabilizzare anche il Pakistan confinante. La maggioranza pashtun dell’Afghanistan ha sempre avuto rapporti stretti con i pashtun pakistani. Il confine e stato un’imposizione dell’Impero inglese ma è un confine sulla carta: è impossibile controllare o costruire una barriera lungo un confine montagnoso e in gran parte indistinto di 2500 chilometri che separa i due paesi. La soluzione è politica, non militare. I leaders di al–Qaeda sono ancora liberi, ma come abbiamo sempre sostenuto la loro cattura sarà il risultato di un efficace lavoro di polizia, non quello di una guerra e di un’occupazione. Se si tratta di una banda di delinquenti, come mai non si utilizzano i metodi investigativi e dell’intelligence di cui gli Usa sono esperti? È credibile che una banda di criminali, per giunta descritta come priva di equilibrio psichico, possa sfidare una superpotenza che tiene in scacco il mondo intero? Che esito avrà il ritiro della Nato dall’Afghani¬stan? Qui, in Iran, Pakistan e negli stati dell’Asia centrale sarà essenziale garantire una costituzione che rispetti le diversità etniche e religiose. L’occupazione da parte della Nato non ha facilitato questo compito, anzi il suo fallimento sta dando nuovo vigore ai talebani e sempre di più i pashtun si stanno unendo in loro sostegno. La lezione qui, come in Iraq, è una sola: è molto meglio che il cambiamento di un regime avvenga dal basso, anche se questo comporta una lunga attesa come è accaduto altrove. La guerra contro la Russia prima e la successiva guerra civile sono state il brodo di coltura di un acceso fanatismo islamico, ancora una volta sostenuto fino al termine della guerra con la Russia anche dagli americani, come ha dichiarato il famoso “Consigliere per la sicurezza” Brzezinsky: «Non vi siete pentiti di avere supportato l’integralismo ed il terrorismo islamico con armi ed addestramento?». Risposta: «Cosa è più importante per la storia del mondo? I talebani o il collasso dell’impero sovietico? Qualche musulmano esaltato o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della guerra fredda?». E dal marzo all’agosto 2001, prima dell’11 settembre, l’America aveva dato un ultimatum ai talebani: se ci consegnate Bin Laden (e ci lasciate costruire il gasdotto Unocal) vi copriremo d’oro, altrimenti vi seppelliremo di bombe. Forse questo spiega tante cose… dwf

giovedì 9 ottobre 2008

Proviamoci come cristiani

Questo è l’intervento con il quale Raniero La Valle ha presentato, sabato 4 ottobre, il nuovo movimento «Sinistra cristiana – laici per la giustizia» e il suo simbolo. Alla presentazione, nel centro congressi dei Frentani a Roma, c’erano almeno 200 persone. Oltre a Raniero La Valle hanno parlato il sindacalista Mario Agostinelli, l’ex presidente della Corte costituzionale Valerio Onida, il pastore evangelico battista Gioele Fuligno, il magistrato Domenico Gallo.
Le relazioni, e gli interventi del dibattito che le ha seguite, si possono inoltre ascoltare dal sito www.sinistracristiana.net.

Buongiorno. Shalom. Scusate se leggo questo discorso. Ci sono discorsi che non si possono improvvisare, alcuni per farli ci vuole una vita.
Sarebbe tempo che i politici si mettessero a scrivere i loro discorsi. Ciò per far sì che il pensiero preceda la parola, ciò che molto spesso non accade, non accade più.
In verità parlare senza leggere è considerata una virtù del buon politico; è un ingrediente del successo in tempi di grandi comunicatori. Nella campagna elettorale americana si vedono i candidati che parlano a lungo fissando negli occhi le telecamere; in realtà leggono il gobbo, che è un modo di leggere senza farsene accorgere.
C’è anche qualche infortunio. Una volta io leggevo in Senato il mio discorso. Si discuteva la legge 194 sull’aborto. Era un discorso delicato, perché come cristiani della Sinistra indipendente noi non volevamo solo agitare una bandiera – quello si poteva fare anche parlando a braccio – ma volevamo fare una legge equilibrata, che non tradisse nessun principio, ma che ci facesse uscire dalla logica punitiva della legge penale. Cercavamo di fare una legge diversa da quella già approvata alla Camera, dato che c’era il bipolarismo; lavoravamo a una legge che da un lato offrisse una chance alla vita, dall’altro scongiurasse la tragedia di tante donne già nel dolore. Come laici, ma anche come cristiani, cercavamo una soluzione persuasiva, che potesse durare nel tempo, e che un giorno perfino la Chiesa potesse accettare, e addirittura chiederne l’attuazione, almeno come «minor male», come poi infatti è accaduto. Si poteva fare, perché in realtà sulle questioni politiche, anche su quelle eticamente sensibili, c’è sempre una soluzione politica storicamente possibile.
Perciò leggevo il mio discorso. E a un certo punto il Presidente del Senato, Fanfani, mi interruppe e mi disse: Senatore La Valle, lei fa tante citazioni, ma dovrebbe conoscere anche il regolamento del Senato, che vieta di leggere i discorsi in aula. Infatti nel regolamento c’era una norma bizzarra di questo genere, non so se ci sia ancora; forse era il residuo di un tempo in cui in Parlamento si andava solo per parlare, perché a decidere ci pensavano gli altri; un po’ come si vorrebbe fare oggi offrendo qualche seggio agli esclusi come «diritto di tribuna», una tribuna fatta per i tromboni.
Quella norma del regolamento era giustamente in disuso, ed era la prima volta, che io sappia, che un Presidente redarguiva un senatore perché aveva preparato il suo discorso. Ma è chiaro che era un modo per prendere le distanze da quello che dicevo, non un cavillo regolamentare; anche quando si presiede il Senato si fa politica, non ci si limita a un ruolo di garanzia.
Dunque io leggo ora questo discorso. E la prima cosa che c’è scritta, perché io non la dimentichi, è di fare gli auguri a tutti quelli in quest’aula che si chiamano Francesco e si chiamano Francesca, perché oggi è San Francesco, patrono d’Italia e dunque è la loro festa e anche la nostra. Ed è bello vedere che oggi molti bambini di nuovo vengono chiamati Francesco, dopo l’orgia dei nomi esotici e improbabili ricavati dai modelli televisivi.

Non solo spettatori
La seconda cosa che c’è scritta è che oggi, 4 ottobre, c’è l’incontro al Quirinale tra il Presidente della Repubblica e il Papa, e noi vogliamo fare gli auguri anche per questo. E anzi abbiamo pensato di non fare solo gli spettatori, che poi cambiano canale, ma di partecipare anche noi come cittadini a questo evento: e per questo, anticipando quelli che pensavamo fossero i sentimenti di questa Assemblea, abbiamo scritto una lettera al Papa e una al Presidente della Repubblica per confidare loro quello che ci piacerebbe che si dicessero. Queste lettere sono nella cartellina, se siete d’accordo qui ci vuole un applauso [e si possono leggere sul sito www.sinistracristiana.net]

Gandhi e Dossetti
Per continuare sul filo delle coincidenze, diciamo che l’altro ieri, 2 ottobre, anniversario della nascita di Gandhi, era, indetta dalla Nazioni Unite, la giornata della Satyagraha, che è la ricerca gandhiana della verità e dell’amore, altrimenti detta nonviolenza. Io ricordo la commozione di Dossetti, quando fece sosta presso la tomba di Gandhi a Nuova Delhi, durante un viaggio in India. Dossetti è uno dei maestri che sta nella nostra tradizione; e quella visita alla tomba di Gandhi non era solo un omaggio a un altro grande maestro, era stabilire una comunione, forse una preghiera in comune.
Gandhi non è solo il liberatore dell’India; prima ancora è stato difensore e redentore degli immigrati, quando egli stesso era immigrato in Sudafrica, e come avvocato indiano era considerato meno che niente. Gandhi lottò non solo per sé, ma per dare dignità e parità di diritti agli immigrati: ed è proprio lì, nel ricco e bianco Sudafrica nero che egli ha cominciato ad essere quello che poi sarebbe diventato .
Perciò, amici, accogliete gli immigrati: perché in ogni immigrato che sbarca a Lampedusa o che viene dall’Est ci potrebbe essere un Gandhi, ci potrebbe essere un liberatore del suo popolo o di molti popoli. Anzi è proprio questa la nuova obiezione di coscienza da fare, contro le leggi antixenite; e le chiamo antixenite, e non xenofobe, perché non sono affatto leggi dettate dalla paura, ma sono leggi dettate dal razzismo, dall’odio e dal rifiuto, esattamente come lo erano le norme antisemite.

L’obiezione da fare
Questa è la nuova obiezione. In Italia non si può fare più l’obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio, perché quando l’obiezione passò da concessione del potere a diritto del cittadino, per buttare l’obiezione buttarono via l’esercito di leva.
Non si può fare e non si deve fare l’obiezione fiscale, perché quella l’ha fatta il governo, l’ha fatta la destra diffamando le tasse, definendo come un furto o come un borseggio ogni prelievo fiscale; lo ha fatto trasformando le elezioni in un referendum anticostituzionale sull’Ici; la destra non toglie le tasse, ma le delegittima, allo scopo di togliere allo Stato tutte le sue risorse, tutti i soldi per la spesa pubblica e così poter dire, per ragioni di cassa e non per ragioni ideologiche, che non si possono fare politiche sociali, che bisogna licenziare 87.000 insegnanti, che bisogna svuotare l’Istituto superiore per la sanità, che non ci sono i soldi per i comuni, non ci sono soldi per salvare l’Alitalia, non ci sono soldi per la cultura, per il teatro, per l’editoria e così finalmente riuscire a chiudere anche Liberazione e il Manifesto. L’attacco della destra al denaro pubblico è un attacco al cuore dello Stato. Senza denaro, e sperperando il poco denaro che si ha, non vivono le città. Senza più soldi, dopo l’amministrazione del dottore che cura Berlusconi, Catania era ridotta al buio e sepolta dalla spazzatura, anche se nessuno lo diceva e lo faceva vedere, perché non c’era da far perdere a Prodi le elezioni.
Allora l’obiezione da fare, e che noi proponiamo, è quella contro le leggi ingiuste che vietano di dare ospitalità allo straniero. Nella nostra laicità, se c’è una cosa che diciamo «sacra», cioè che non si può toccare, è l’ospitalità: ma così è in tutte le culture, o almeno lo era. Noi dobbiamo fare obiezione ospitando e dando asilo agli stranieri come facemmo ospitando gli ebrei nelle nostre case e nelle nostre chiese quando, altrettanto come ora, l’ospitalità era un delitto.
Naturalmente non vi chiediamo di fare un’obiezione spericolata, rischiando di farvi confiscare le vostre case come minacciano le leggi razziali del governo. L’art. 5 del decreto legge sulla sicurezza che introduce nella legislazione sullo straniero la norma anti-ospitalità, dice che si commina la reclusione da 6 mesi a 3 anni e la confisca dell’immobile a chi dà alloggio a uno straniero irregolare «a titolo oneroso al fine di trarne ingiusto profitto». Dunque per fare obiezione senza esporsi alla vendetta penale, basta ospitare lo straniero gratuitamente e senza «ingiusto» profitto, magari premunendosi col farne apposita dichiarazione presso un notaio. Così la norma finirà per colpire solo quelli che speculano sulla pelle dello straniero.

La patria è al di là del confine
Ma perché è così importante il rapporto con lo straniero, e non solo in Italia?
Perché il problema globale e imprescindibile di oggi è la riconciliazione di tutti i popoli che sono l’uno all’altro stranieri; il problema è che ciascuno ritrovi la sua patria, ma la trovi oltre i suoi confini, al di là del fiume, là dove sono altri uomini e donne, altri figli e figlie come lui; se questo non si farà, non ci sarà pace sulla terra, e forse un giorno non ci sarà nemmeno la terra. È stato dato già 2000 anni fa l’annunzio della caduta del muro tra giudei e greci, cittadini e barbari, romani e Sciti; è venuto il momento di dare attuazione a questo annuncio. Se non fa questo, la politica è perduta. È perduta in America, è perduta in Europa, è perduta in Israele.
Un barlume di luce è venuto in questi giorni da Israele quando il primo ministro uscente, Olmert, per la prima volta ha detto che non esiste l’ipotesi del grande Israele, dal mare al Giordano; che se Israele vuole rimanere uno Stato ebraico, e non divenire uno Stato in cui gli ebrei siano una minoranza, deve contrarsi per far posto accanto a sé a uno Stato palestinese; e per questo è stato presentato alla Knesset un disegno di legge che offre forti incentivi economici ai coloni ebrei insediati nei territori occupati, perché rientrino dentro i vecchi confini di Israele del 1967. Ciò significa dire: fin qui abbiamo sbagliato. È la rottura di un tabù, riguardo alla terra – Eretz Israel – finora vissuto in Israele come un assoluto religioso. Ma se non si rompe questo tabù, non c’è alcuna soluzione per la questione palestinese [vedete fin dove arriva la laicità!]; e se le religioni per prime non tolgono la copertura religiosa alle sacre are, ai sacri fiumi e ai sacri confini della Patria, ancora di più i popoli si contrapporranno gli uni agli altri, gli Stati gli uni agli altri e le culture le une alle altre, e non potrà esserci pace, e nemmeno diritto, e quindi nemmeno politica, su scala mondiale.
Perciò è importante l’obiezione di coscienza che nega obbedienza a tutto ciò che è contro la straniero, che si tratti di armi o di basi offensive, di leggi, di sanzioni o di dazi, di apartheid e di sfruttamento.

Per Vicenza, andare direttamente alla Casa Bianca
Per restare alle date, domani si terrà a Vicenza la consultazione popolare sulla base di dissuasione e di ritorsione nucleare che sta per essere installata nel centro della città. Berlusconi prima, il Consiglio di Stato poi lo hanno vietato: ma, come abbiamo sentito, con straordinario coraggio la città voterà lo stesso. In ogni modo così è diventato chiaro che la questione di Vicenza è una grande questione politica nazionale. Se il governo di centrosinistra di Prodi non è più lì, è anche perché non aveva capito questo. È una grande questione politica nazionale, perché è la scelta di due modi, per l’Italia, di stare al mondo, e di pensare il futuro del mondo, nella guerra nucleare o nella pace. In questa alternativa non c’è una città che possa farcela da sé, e non ci sono soluzioni giudiziarie: la magistratura che giudica su tutto, non giudica il potere, sulla guerra e le opere di guerra. E poiché non si dà altra motivazione nell’ordinanza del Consiglio di Stato se non quella che il terreno è stato già consegnato al sovrano americano, allora noi proponiamo di aprire la questione con questo preteso sovrano. Mettere una base nucleare nel cuore di una città europea è un errore anche per gli Stati Uniti. Non solo perdono l’immagine, ma quella identità per la quale hanno ancora un ascolto presso gli altri popoli. Obama questo lo può capire. Con Bush finisce nella sconfitta il sogno della destra americana di tenere buono il mondo dominandolo. L’Iraq insegna che il mondo non diventa un posto sicuro solo perché lo si invade. La sicurezza non sta nel delirio della solitudine presidiata dalla forza, ma nella forza di crearsi amicizie e di mantenerle. Se vince Obama, la sua stessa vittoria avrà un grandissimo impatto simbolico. Forse il cambiamento può cominciare da lì; e se cambia l’America cambia il mondo. Perciò io penso che si potrebbe fin da ora preparare una delegazione dei comuni e della città di Vicenza, di quei cittadini che non si vuole che esprimano il loro parere in Italia, perché lo vadano ad esprimere a Washington. C’è una diplomazia dal basso che il movimento della pace, ed anche i comuni e le regioni, hanno già sperimentato. E se alla Casa Bianca sono ricevuti i governi, possono essere ricevuti anche i popoli.

Come ristabilire il legame sociale, la «colla»
E così veniamo alla nostra iniziativa, perché è sorta e perché ha osato presentarsi con questo nome: per giustificarne l’esistenza basterebbe questo compito, che è di lottare per l’unità internazionale, politica, pacifica, della intera famiglia umana.
Mai l’umanità è stata così divisa come in questi tempi di globalizzazione. E questo ci getta nel cuore della crisi di oggi, una crisi che non è solo nostra, ma di tutti, non è della nostra o di altre nazioni, ma è una crisi globale. Il Dio Mammona ci sta per tradire. Non solo c’è la crisi della speculazione finanziaria che dai santuari dell’America e dell’Inghilterra si sta diffondendo in tutto il sistema, e anche da noi. Come dice Jeremy Rifkin ci sono tre crisi: la crisi del credito, perché si tratta di ripianare venti anni di spese pazze fatte con denaro virtuale, la crisi energetica perché il petrolio è agli sgoccioli, e la crisi del riscaldamento climatico, contro cui nessuno sa cosa fare. Sono tre elefanti, dice, che si muovono tutti e tre in una piccola stanza, con effetti devastanti. Occorre una riforma radicale del sistema (v. Repubblica del 30 settembre 2008, pag. 9). Come riconoscono ormai anche i più accaniti fautori del mercato, è la crisi della stessa globalizzazione e dell’attuale modo di produzione e di sviluppo.
Ma al di là dell’ordine economico, la crisi investe l’intero sistema delle relazioni umane. Come interpretare questo tempo della crisi? Io ricordo che proprio Dossetti, osservando lo stato del nostro Paese e del mondo, disse una volta: non c’è più la colla.
Cioè non c’è più il legame sociale che fa stare insieme sistemi complessi.
E infatti se noi guardiamo alle radici più profonde della crisi, noi vediamo che esse stanno in questo venir meno della capacità, della voglia e della gioia di vivere insieme, che è ciò in cui consiste la comunità politica, la polis.
E infatti non ci sono più o sono stati licenziati i grandi strumenti di aggregazione. Qualificandole come obsolete, sono state licenziate le ideologie. Come troppo invadenti sono stati licenziati i partiti. La scuola è rovesciata in azienda, per liquidare, come si dice esplicitamente, don Milani; il movimento della pace non può più nemmeno esporre in pubblico le proprie bandiere; la Chiesa si mobilita per battaglie certamente legittime, ma che non aggregano e anzi dividono; la Costituzione, fatta a pezzi, non è più la casa comune di tutti gli italiani; e sul piano internazionale il diritto è abbandonato, le Convenzioni di Ginevra sono ricusate, l’Onu vilipesa, le regole non ci sono più. «Deregulation» è stata l’ultima e definitiva ideologia del Novecento.
È come se avesse vinto l’«anomos», come lo chiama San Paolo, l’uomo senza legge, senza diritto, quello che annuncia la catastrofe; e l’unica idea, disperata, che sono stati capaci di avanzare finora i grandi poteri sovrani, è di risolvere tutto con la guerra.
Che fare invece per ridare una chance alla politica? Che fare per ristabilire il legame sociale, per ritrovare la colla, per prendere le vie della giustizia, prima di rotture irreparabili, prima che l’amore finisca?
Molti tentativi di riaggregazione sono finora falliti. E perciò abbiamo detto: proviamoci come cristiani.

Proviamoci come cristiani, con tutti gli altri che sono per la giustizia
Sappiamo che è una cosa temeraria. Perché giustamente non si usa più mettere la religione in mezzo alle cose politiche, perché ciò appare in contrasto con la laicità, e di fatto lo è, se a farlo sono le Chiese. Ma soprattutto è una cosa temeraria perché non impunemente ci si può dire cristiani; è un nome che non ci decora, ma che ci giudica, e richiederebbe da chiunque accetti di unirsi a questo titolo una capacità superiore di indignazione e di mitezza, di coraggio e di pazienza, di intransigenza e di indulgenza, di cui non so se tutti saremo capaci.
Sicché si è molto discusso durante l’estate e fino ad ora se dovessimo mantenere la dizione «sinistra cristiana» che stava in testa al nostro manifesto. Molti dicevano di no, perché cristiane si possono dire solo le persone, non è un’etichetta da mettere alle cose; ed avevano ragione. Molti dicevano di sì, perché rispetto a ciò che volevamo evocare con questa parola non c’era un altro nome superiore a questo nome, ed avevano ragione. Molti erano incerti, ma ricordavano le ferite profonde e le cicatrici lasciate nella storia dall’associazione della parola cristiana con democrazia, o dal dire cristiana una società, una politica, una dottrina sociale, ed avevano ragione.
Allora mi è tornato alla mente un apologo che Leonardo Sciascia ci raccontò nella Commissione parlamentare sul caso Moro, quando non si riusciva a venire a capo di quanto era accaduto e a stabilire la verità politica di quel delitto. C’erano tre discepoli, disse, che andarono da un maestro per sottoporgli una loro disputa, e chiedergli chi di loro avesse ragione. Il primo espose la sua tesi, e il maestro gli disse: figliolo, hai ragione. Il secondo gli espose la tesi opposta, e il maestro gli disse: figliolo, hai ragione. Allora il terzo obiettò dicendo: non è possibile che tutti e due abbiano ragione. E il maestro disse: figliolo, anche tu hai ragione. Questo vuol dire che la verità c’è, contro ogni relativismo, ma non subito si trova.
Così abbiamo mantenuto la dizione sinistra cristiana, aggiungendo però, perché nessuno si sentisse escluso (nessun ebreo, nessun musulmano, nessun ateo): Laici per la giustizia. Non abbiamo inteso dare una soluzione teorica alla disputa, né pretendiamo indicare un modello normativo sul giusto rapporto tra fede e politica e sui nomi che deve avere. Però non abbiamo voluto che l’abbondanza delle analisi fosse di paralisi per l’azione, e abbiamo tenuto questo nome perché giustamente non abbiamo trovato sinonimi o parafrasi: è vero che cristianesimo ha molti significati; però è anche vero che c’è qualcosa che può essere definita solo con questo nome; e abbiamo visto che proprio questo nome dava la speranza di qualcosa di nuovo; e abbiamo capito che se cadeva il nome cadeva anche la cosa.
La motivazione più umile e persuasiva, per prendere questo nome, è che si tratta di fronteggiare una situazione di emergenza. In tempi normali non lo avremmo adottato, ma qui si tratta di fare appello a tutte le risorse interiori, a straordinarie risorse di amore e di sacrificio, come diceva Claudio Napoleoni, e fare appello a tutte le energie, anche a quelle nascoste, a quelle non ancora esperite né chiamate in causa esistenti nella società e che magari, fuori della politica, sono all’opera nei girotondi e nei movimenti, nel terzo settore, nel volontariato, nella cosiddetta società civile; e forse con questo nome lo si può fare.
Può darsi che ci sbagliamo. Ma questa non è la proposta di una ideologia, tanto meno è la rivendicazione di una identità; è il ricorso a un rimedio: un pharmacon, come ha detto qualcuno. Un antidoto alla frantumazione sociale, in funzione di unità, e un antidoto anche all’appropriazione strumentale della fede, di cui la destra al potere fa largo uso, lei con i suoi atei devoti. Il pharmacon per gli antichi era insieme medicina e veleno. L’antidoto reca in sé una particella della tossina che vuole combattere. Non ci vogliono certezze, ci vuole umiltà per correre questo rischio.
Si tratta di una convocazione alla giustizia, dei cristiani che come tali sono laici, e dei laici anche se non sono cristiani. Non tanto per un incontro tra loro [questo già avviene in molti altri luoghi, ad esempio nel Partito democratico] quanto per dare aiuto all’incontro degli altri, per mettersi al servizio della società tutta intera, per rimettere in funzione quella colla che si è perduta, e che il denaro non è riuscito a rimpiazzare. Se deve essere, come abbiamo detto, un «Servizio politico», questo è nella direzione di una mediazione alta, che non è né il dialogo che un giorno si fa e l’altro si nega, né l’accordo tattico che snatura i contraenti, né il compromesso deteriore; ma è lo sforzo di promuovere i modelli sociali più alti, le soluzioni più attente agli interessi e ai valori di tutti. Una mediazione alta, proiettata sulle cose da fare, nella quale ogni singola parte possa trovare una ragione e crescere essa stessa.

Una riforma proporzionalistica del sistema elettorale e politico
Ciò nell’ambito della sinistra, di cui rivendichiamo la dignità, pur nelle sue divisioni, ma anche oltre la sinistra. La contraddizione tra destra e sinistra certamente non può essere oscurata. In politica non esistono cose che non sono «né di destra né di sinistra», e se ci fossero sarebbero anch’esse di destra perché pretenderebbero sottrarsi alla verifica della critica e al vaglio della giustizia. Noi assumiamo questa contraddizione, e perciò la nostra scelta di campo è a sinistra, ma la assumiamo con dolore, perché in Italia il conflitto è stato portato al parossismo da un sistema istituzionale ed elettorale che si è impiccato al bipolarismo, e che ha trasformato la dialettica tra destra e sinistra in una spaccatura verticale tra due Italie che si detestano e si odiano e rendono impossibile perfino il pensiero di un bene comune. La dialettica politica va mantenuta, ma questa lacerazione va sanata. Per questo ci vuole una mediazione alta. Ma essa non va affidata al buonismo, bensì a una riforma del sistema elettorale e politico che dia una più ricca articolazione e proporzionalità alla rappresentanza, che non cancelli le minoranze, che ristabilisca uno snodo tra governo e parlamento perché, se i governi passano, i parlamenti restino.

Il logo: l’ulivo della pace, l’emiciclo della Costituzione, la colomba della laicità
Ed eccoci al logo che vi proponiamo. Esso deriva da un vecchio logo di Pace e diritti, e consta di tre simboli: un emiciclo, una colomba, e un ramoscello d’olivo. Essi corrispondono alle tre nostre opzioni programmatiche: la Costituzione, la laicità, la pace.
La pace è il ramoscello d’olivo verde.
La Costituzione è l’emiciclo parlamentare, perché senza rappresentanza non c’è costituzione e non c’è democrazia. Costituzione vuol dire costituzionalismo, cioè diritti certi, garanzie efficaci, principi fondamentali e conquiste irreversibili, che nemmeno le maggioranze possono revocare. L’emiciclo, come è nella nostra tradizione, significa che c’è un vasto arco di forze, che si parlano tra loro, ma che poi convergono verso il polo della decisione comune, legislazione e governo; non è, come nella tradizione anglosassone, un’aula squadrata come un rettangolo di gioco dove due sole squadre combattono una partita ad oltranza, fino ai rigori. Il colore sui segmenti dell’emiciclo non c’è, perché i colori ce li devono mettere gli elettori; e quegli spazi bianchi da riempire col colore suggeriscono che a riempirlo non debba essere il nero.
La laicità, infine, è la colomba. La laicità, in positivo, non è solo un corretto rapporto tra istituzioni civili ed ecclesiastiche; più ancora è il rapporto, senza confusione e senza divisione, tra il divino e l’umano, senza che il divino assorba l’umano nel sacro e senza che l’umano profani il divino nel secolo. È lo spazio della libertà umana, che scocca come una scintilla tra il dito dell’uomo e il dito di Dio. Di conseguenza la laicità è stare nella condizione secolare e comune di tutti gli uomini e di tutte le donne, prima di ogni loro differenziazione di rango e di rito, e prendersi cura del mondo, perché non ci sia più alcun diluvio. La colomba è un simbolo adeguato di questa condizione comune, perché essa volò sulle acque per l’umanità tutta intera, per dirle di uscire di nuovo nel mondo a prenderne cura, prima di ogni religione e di ogni separazione, prima della divisione di Babele, prima del discrimine tra eletti e non eletti, tra tribù di laici e di leviti; essa è il simbolo dell’unità di tutte le creature, uomini e animali, salvati insieme dalle acque, ed è un simbolo interculturale e interreligioso, da Picasso alle piazze di tutto il mondo dove si manifesta per la pace.
La colomba è un simbolo adeguato della laicità, perché essa vola da una terra all’altra, da un pensiero all’altro, da Oriente a Occidente. C’è una bellissima definizione della laicità che viene dalla tradizione ebraica; l’ha proposta Emmanuel Lévinas in un libro del 1960, «La laicité et la pensée d’Israel». Dice: «Se il particolarismo di una religione si mette al servizio della pace, al punto che i suoi fedeli sentano l’assenza di questa pace come l’assenza del loro Dio, allora la religione raggiunge l’ideale della laicità». E il riferimento a Gandhi, che prima abbiamo fatto, ci porta a un’altra illuminazione. In un suo discorso del 1947, che nell’agosto scorso, per grazioso dono, la Telecom ha fatto pubblicare su tutti i giornali, il Mahatma denunciava la crisi e offriva per sanarla la saggezza che viene dall’Oriente, dall’Asia. L’Occidente, diceva, aveva imbottigliato la sua spinta universalistica nella conquista e nel dominio coloniale; dall’Asia doveva venire una nuova conquista, che sarebbe stata amata dallo stesso Occidente: la conquista della verità e dell’amore. Ciò sarebbe stato il frutto della saggezza, ma sorprendentemente Gandhi metteva in questa salvezza che viene dall’Oriente non solo Zoroastro o Budda, ma anche Mosè e Gesù, e dunque il cristianesimo nella sua forma nascente, apostolica ed evangelica, prima della «trasfigurazione» che, secondo Gandhi, aveva subito in Occidente. Dunque la laicità di una «sinistra cristiana», vuol dire rompere i limiti, anche culturali, dell’Italia e dell’Occidente, assumere un’istanza internazionalistica, rispettare e onorare il pluralismo delle religioni, e in prospettiva cercare di stringere «giovani legami», come diceva Italo Mancini, con altri cristiani e altri uomini e donne che in tutto il mondo lottano per una ridefinizione dei codici, degli usi e delle culture del rapporto umano e sociale a livello politico mondiale.

L’arancione, il colore delle vittime
Ma c’è l’arancione. Come simbolo della condizione laica e comune, il colore della colomba è arancione, perché è il colore delle vittime, e non c’è condizione umana più comune e diffusa di questa. Arancione è il colore della veste dei bonzi buddisti che vedemmo bruciare nelle vie di Saigon per resistere all’occupazione americana; è il colore dei monaci birmani e tibetani che lottano contro la repressione interna ed esterna; è il colore dei prigionieri musulmani illegittimamente detenuti a Guantanamo; la loro tuta arancione, che viene oscenamente mostrata in tv, è il nuovo «habeas corpus», il rovesciamento del vecchio istituto giuridico inglese che esigeva la visibilità dei prigionieri, perché ne fosse assicurata l’inviolabilità e la salvaguardia da ogni detenzione illegale.
Il mondo è pieno di vittime. Poveri, affamati, oppressi, profughi, musulmani, indù, cattolici, sans papiers, vittime del lavoro, vittime dei brevetti, 6 milioni di bambini ammalati: quella di vittima è una condizione trasversale ai mari e ai continenti, alle religioni e alle culture. La maggior parte di loro non sono vittime necessarie; esse sono sacrificate per noi, in base alla vecchia ideologia, riflesso di un sacro violento, secondo cui per il bene degli uni è necessario il sacrificio degli altri. È l’etica della ragion di Stato. Nella logica del potere, una detenzione illegale a Guantanamo o una strage di talebani in Afghanistan vuol dire che il Paese è sicuro.
L’arancione significa allora combattere per togliere ogni legittimazione politica, economica o religiosa al sacrificio, a cominciare da quel sacrificio di massa che è la guerra; significa assumere come problema politico la condizione delle vittime e, nel conflitto, stare dalla parte loro.
Una colomba arancione è una contraddizione, un ossimoro. Ma è la raffigurazione di una pace che è trattenuta dalla violenza, ed è la protesta contro il fatto che la condizione umana più comune sia rappresentata proprio dalle vittime. La nostra intenzione è di lottare perché la colomba possa tornare ad essere bianca. Allora l’arancione potrebbe essere solo il colore delle arance d’Israele della Palestina e della Sicilia, con cui disegnare un arco di pace tra le due rive del Mediterraneo, che è il luogo da cui la pace deve cominciare.