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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

venerdì 18 gennaio 2008

Il Papa alla "Sapienza"

Un gran senso di disagio, di fastidio, di tedio tendente alla depressione sono i sentimenti provati durante la vicenda trascinatasi per diversi giorni della contestata presenza del Ve-scovo di Roma all’inaugurazione dell’Anno Accademico della “Sapienza”. Come si fa a non essere depressi di fronte ad un attacco che non si rivolge solo al papa (che tra l’altro è forse più a suo agio nelle aule delle Università che nelle sale vaticane!), ma a tutti coloro che pur credenti e perché credenti hanno dedicato tutto il loro impegno a superare sterili e antiche contrapposizioni tra laicità e dogmatismo (pregiudiziali) e aborrono il clericalismo risorgente e un anticlericalismo da vignetta satirica? Come si fa a non deprimersi quando un fatto che potrebbe avere un grande e provvidenziale rilievo culturale viene lasciato allo sciacallaggio mediatico e politico? Come si fa a non essere depressi di fronte a contrapposizioni spesso condotte senza alcun rigore intellettuale? Come si fa a non essere depressi quando in fondo il credente è bollato di irrazionalità, incapacità di pensiero, creduloneria? Quando la laicità, valore evangelico, diventa sterile laicismo, la scienza diventa scientismo e perciò ideologia, la ragione diventa una dea di terracotta, come ha spesso dimostrato la storia dell’ultimo secolo? Non posso dimenticare che le peggiori bestialità della storia umana sono avvenute nel ventesimo secolo non per irrazionalità, ma a causa di una ragione impazzita (nulla di irrazionale nei totalitarismi del secolo trascorso, ma una razionalità obbedita fino alle estreme conseguenze), perciò quando sento certe idolatrie della ragione in contrapposizione alla fede sono dibattuto tra la depressione e l’irritazione e mi sento offeso; sarà mai possibile in Italia un dibattito serio su questi temi, così come è stato condotto in altri Paesi, tanto da riconoscere lo statuto scientifico anche alle scienze teologiche, riconoscendo la loro dignità di scienze che hanno diritto ad avere spazio anche in quel tempio del sapere che dovrebbe essere l’Università? Come diceva la Fides et ratio «la fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità. È Dio ad aver posto nel cuore dell'uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso».


Così non è il diritto di parola che è stato negato a Benedetto XVI, ma il diritto al dialogo, al confronto aperto e schietto delle idee, al dibattito libero e costruttivo, e tutti hanno perso, perché come ha scritto Bruno Forte, «una ragione troppo sicura di sé, una ragione ideologica, diventa violenta e totalitaria. Una fede che non faccia spazio al dubbio, un cre-dente che non voglia essere il povero ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere, rischia di fare della sua fede una rassicurazione comoda. Dunque, fede e ragione agoniche, che accettano la lotta, la passione e proprio così si aprono all'amore, la parola che il Nuovo Testamento adopera per esprimere la forma più alta dell'Incontro».
Sono depresso perché in questi anni mi ero convinto che, quando si vuole, è possibile sedersi intorno a un tavolo cercando la condivisione anche su temi difficili, anzi spesso ho trovato questa possibilità di condivisione più con chi dice di non credere che all’interno della stessa Chiesa! Così mi deprime il vittimismo di molti credenti in questi giorni; trovo deprimenti i cori “libertà, libertà!” quando la libertà non è affatto in gioco, mi deprime la proposta di una nuova dimostrazione di forza delle “falangi cattoliche” che si stringono attorno al papa come se fosse stato offeso; in realtà apprezzo una delle motivazioni della sua rinuncia: “Se si riceve un invito da parte di una famiglia, ma poi quella famiglia comincia a dividersi, non è più il caso di accettare”. Mi ha sempre depresso e mi deprime che si sottolinei che si è offeso il papa, paragonato ad un capo di Stato estero; mi deprime che certi eventi e certe cerimonie avvengano alla presenza “delle Autorità politiche, civili, militari e religiose”; mi deprime perché molti in questi anni hanno espresso il loro dissenso, pacato, sereno, carico di amore per la Chiesa, proprio con talune posizioni – meglio, con talune modalità di intervento – della S. Sede e dei Vescovi, quasi da fortezza assediata, quasi con ordini dall’alto che bisogna accettare perché così viene comandato e non come un’indicazione evangelica, che ha una ragione, che ha un senso, che dice qualcosa al cuore e alla vita della gente; dissenso nei confronti di scelte obiettivamente politiche e strumentali (non tocca a me dire se in verità o in apparenza...), ma che tanti hanno letto come “di parte”; dissenso nei confronti della tentazione di imporre per legge norme morali che solo la fede in Cristo e l’incontro con lui possono aiutare ad accogliere e, nella fragilità umana, a vivere... Siamo spesso stati conside-rati ingenui, o strumentalizzati, o schierati con una parte politica e asserviti ad essa, o come cristiani che non “vogliono bene al Papa”... Purtroppo ora dissentire, ma con necessarie di-stinzioni da certe forme becere di anticlericalismo, finirà per togliere smalto e incisività alle nostre opinioni e alla nostra ricerca di una Chiesa che sappia percorrere le strade di oggi (cultura, economia, politica, mass-media, quartieri e strade della città); di una Chiesa che sappia uscire dal tempio (dove si può anche pregare col cuore spento), percorrere la strada che da Gerusalemme scende a Gerico, quella di Emmaus (viandanti senza speranza), riu-scendo ad integrare i segni sacramentali con quelli concreti dell'amore (Pietro e Giovanni che guariscono lo storpio e poi entrano nel tempio per la preghiera). Come diceva Mazzolari: «Lungo la strada è cominciata la Chiesa; lungo le strade del mondo la chiesa continua. Non occorre, per entrarvi, né battere alla porta, né fare anticamera. Camminate e la troverete; camminate e vi sarà accanto; camminate e sarete nella chiesa». dwf

sabato 12 gennaio 2008

Concilio abrogato?

Pubblicato su Appunti alessandrini, ANNO 2 N. 1 GENNAIO 2008 ● Newsletter mensile di politica e attualità ●  appunti.alessandrini@alice.it

L’enciclica Spe salvi ha suscitato diffuso interesse. Documento di rara complessità, è stato visto soprattutto e non senza giudizi riduttivi, per i toni di condanna radicale di aspetti rilevanti della cultura moderna e dei conseguenti esiti nella prassi e nei comportamenti morali del mondo contemporaneo. Sulle conseguenze che potrebbero derivare da tale orientamento di condanna, una pubblicazione come Appunti dovrà riprendere un ragionamento e lo farà quanto prima. Ora ci basti constatare il fatto e richiamare il contesto del documento, un contesto in cui la ricezione del Concilio Ecumenico Vaticano II appare sempre più problematica. Si tratta, di per sé, di una difficoltà assolutamente comprensibile. Un passo tanto coraggioso, nei più diversi campi, come quello conciliare, pone al governo ordinario della Chiesa non pochi problemi, non ultima la resistenza a molte riforme dello stesso popolo cristiano o di una parte dello stesso. Se lo spazio ce lo concedesse potremmo richiamare fenomeni assolutamente analoghi per la ricezione di un altro grande Concilio: il Concilio di Trento. Rimane che viviamo, nel presente, non poche ambivalenze: ci limitiamo, per spiegarci, a tre questioni.

La prima attiene il motu proprio Summorum pontificum, circa la ripresa dell’uso della lingua latina nelle celebrazioni eucaristiche.
Non ho titolo, né pretesa di entrare nel merito di un documento breve, ma molto articolato e sicuramente non accessibile alle mie competenze. Eppure la sensazione e la sensibilità che lo interpretano, nella generalità del popolo di Dio e dunque della Chiesa suggeriscono l’impressione di una tappa di restaurazione. Non c’entra tanto la lingua usata in sé, quanto il fatto che si offusca il senso di un’idea di Chiesa in cui il popolo si sente parte della celebrazione e che non si sente più tale se si percorre la strada di una restaurazione della vecchia, sia pur gloriosa, liturgia. Si ha un bel dire che la ripresa del latino sarà riservata a chi lo richiede, ma l’atmosfera di restaurazione permane, in virtù di una scelta che attraverso la celebrazione ripropone un’ idea di Chiesa posta in discussione dal Concilio. In ultima istanza: la celebrazione deve assicurare la presenza attiva del popolo di Dio nel suo complesso o la “soddisfazione”, magari culturalmente dignitosa di una parte di esso?
La seconda attiene il ruolo del fedele laico in conseguenza del suo battesimo.
Il Concilio insiste sulla dignità responsabile ed autonoma del laico, grazie ai sacramenti ricevuti e non per mandato della gerarchia (il mandato potrà riguardare indicazioni di principio e aspetti organizzativi dell’associazionismo ecclesiale), nelle scelte che attengono la costruzione della città dell’uomo. Afferma che per la sua “indole secolare” tocca al laico “ordinare le realtà temporali” al disegno di Dio. Specifica infine che lo stesso fedele laico non può chiedere ai suoi pastori, quando si tratti dei concreti problemi della società e della politica, se non un orientamento di principio, mentre rimane sua la responsabilità delle singole scelte e dei metodi per la realizzazione del principio stesso. Gli eventi o gli interventi degli ultimi mesi e degli ultimi anni, hanno sicuramente reso problematica questa complessa ed interessante norma conciliare. Ciò è tanto più vero per una cultura ed una presenza politica come quella che si richiama alla tradizione del cattolicesimo democratico. Il dubbio, molto semplice, si esprime con due interrogativi diretti: su questo punto si ritiene superato (abrogato) il Concilio? E ancora: si vuole colpire la tradizione cattolico/democratica?
La terza mi occuperà poche righe. Da qualche tempo si trascina una polemica circa alcune esenzioni fiscali concesse alla Chiesa.
Dal punto di vista normativo credo si tratti di esenzioni del tutto legittime e gli organi di informazione ed ufficiali della stessa Chiesa lo hanno chiarito con encomiabile lucidità. Pongo il problema su di un piano diverso. Leggo nella Gaudium et Spes (Costituzione pastorale del Concilio) al n. 76: La Chiesa “…rinuncia all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza”. Forse che anche questa disposizione conciliare sta creando problemi? Anche su questo si percorre la strada di un’abrogazione?
Agostino Pietrasanta