"Parole di Qoèlet, figlio di Davide, re di Gerusalemme. Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità." Qoèlet (Ecclesiaste) 1,1-2
"La vita è una cosa meravigliosa. Senza, saremmo morti" (anonimo)
A dispetto di coloro che ritengono l'entrante mese di novembre un periodo di tristezza legato all'incedere dell'autunno, quando si levan le foglie l'una appresso dell'altra, fin che 'l ramo vede alla terra tutte le sue spoglie, a me invece questo intervallo è sempre parso un ottimo periodo da dedicare alla riflessione.
Uno spazio ricavato tra le ultime propaggini dei ricordi estivi ed il lento ridestarsi del sole dal suo sonnacchioso recedere, che si aprirà a breve prima di lasciare campo aperto alle celebrazioni paganeggianti e ai baccannali delle feste natalizie.
Il novembre no! E' diverso. Malgrado i tentativi sempre più pervasivi di infiltrare anche qui la moda a stelle e strisce di Halloween con la sua congerie di zucche sempre più vuote. Tutt'altra cosa dai nostri uno e due novembre tradizionali: i santi e i morti.
Stranamente, poiché i santi sono anche morti, dobbiamo immaginare che il secondo dei due giorni di celebrazione sia dedicato principalmente agli altri, cioè ai defunti che non hanno avuto la ventura di assurgere agli onori dell'empireo. I dannati insomma. Al limite, i purganti.
E del resto, come ci ricordava il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, «'A morte 'o ssaje ched''e?...è una livella». Ben venga allora anche un giorno dedicato a tutti coloro che furono e non son più, senza distinzione di natali e di censo, di fama e di cultura, d'aspetto e di età. Ma anche di santità.
Già. La morte. Novembre è un mese perfetto per ponderare questo incredibile concetto, magari aiutati da un libro appropriato (io, per esempio, sto leggendo il saggio "Qualcosa in cui credere" del Cardinal Martini, recentemente edito da Piemme) e da un calice di vino da meditazione. Recita un antico proverbio Yiddish «Polvere sei e polvere tornerai, ma tra una polvere e l'altra un buon bicchiere non fa mai male».
Non c'è da farsi prendere dalla depressione. Tutt'altro. Ogni tanto il pensiero del limite può risultare estremamente rasserenante. Conferisce senso alla vita e la rende degna di essere vissuta in modo autentico. E assegna un valore inestimabile ad ogni suo singolo istante.
Non so se tutti provino la stessa sensazione di pace e tranquillità che sento io quando visito il camposanto nel mio paese d'origine. Non solamente durante le ricorrenze di novembre. Spesso, quando vi capito, faccio un giro di tutto il cimitero alla ricerca di volti noti, taluni familiari.
E raccogliendomi, dedico ad ognuno un ricordo per il periodo trascorso assieme. Un pezzo di me che non c'è più, ma che in quel momento ritrovo. Una rottura che si risana. Si tratta di pensieri dolci. Di episodi lieti a cui restare legati. Una battuta scambiata. Un aneddoto giocoso. Un momento di serenità.
Ogni tanto, come è normale che sia, la mente vaga e si sofferma anche su cosa ci può essere dopo. Una vita nuova, oppure il riposo eterno. L'incedere degli anni, i segni del tempo che passa, acuiscono il sentimento di comunanza che tutti ci affratella in un unico destino.
La vita. La morte. Le gioie. Il dolore. L'amore. Il lutto. Un ciclo che da tempo immemore continuamente si compie e si rinnova. In attesa di una risposta che forse conosceremo. O forse no. Perché il pensiero della fine degli altri ci rimanda inevitabilmente all'estremità del nostro viaggio.
Il 12 febbraio 1984, poche settimane prima di terminare la sua esperienza terrena, il teologo Karl Rahner, nella sua ultima lezione tenuta all'Università di Friburgo di Brisgovia si esprimeva con le seguenti parole.
«Un giorno gli angeli della morte spazzeranno via dai meandri del nostro spirito tutti quei rifiuti inutili, che diciamo la nostra storia (anche se la vera essenza della libertà messa in atto rimarrà).
Un giorno tutte le stelle dei nostri ideali, con cui noi stessi avevamo arrogantemente drappeggiato il cielo della nostra esistenza, cesseranno di brillare e si spegneranno.
Un giorno la morte introdurrà un vuoto straordinariamente silente, e noi accoglieremo tale vuoto con fede, speranza e in silenzio come la nostra vera essenza.
Un giorno tutta la nostra vita precedente, per quanto lunga, ci apparirà come un'unica breve esplosione della nostra libertà, che ci sembrava estesa solo perché la vedevamo come al rallentatore, una esplosione in cui la domanda si è trasformata in risposta, la possibilità in realtà, il tempo in eternità, la libertà offerta in libertà tradotta in atto»...
Oggi si tende a pensare sempre meno alla impermanenza di questa libertà e all'importanza del suo buon uso. L'idea della fine, della decadenza fisica, della malattia vengono spostati o rimossi in continuazione nella speranza (vana) di allentare l'angoscia per la nostra precarietà.
Viviamo sempre all'insegna del presente. «Dum loquimur fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero». Cerchiamo di prolungare oltre ogni limite la giovinezza (che si fugge tuttavia), ma poi ci spaventiamo quando ci accorgiamo di invecchiare o quando percepiamo il declino di una persona a noi vicina.
«A volte, come i bambini che hanno timore del buio, così noi temiamo, alla luce del giorno, per cose altrettanto inconsistenti di quelle di cui al buio ha paura il bambino».
Lo riconosceva anche un autore controverso come lo spagnolo Miguel de Unamuno. «Per quanto, sul principio, ci sia angosciosa questa meditazione sulla nostra mortalità, ci risulta infine corroborante. [...] Il rimedio è confrontarsi faccia a faccia, fissando lo sguardo nello sguardo della sfinge; è così che si spezza il suo incantesimo».
Il crepuscolo dell'anno che si compie nella stagione autunnale può diventare il nostro memento mori, un'occasione per giudicare la nostra esistenza nel suo dipanarsi. Un tempo di contemplazione che si traduce in gratitudine per il bene prezioso della vita, e soprattutto per la vita di relazione con gli altri, che ne costituisce il cuore pulsante.
La partecipazione alle cerimonie per le solennità di novembre possono aiutare a riconciliarci con la dimensione della nostra finitezza. Per chi crede in una vita futura, nell'attesa operosa e piena di speranza di ciò che verrà. Per chi non si attende nulla, per riflettere su noi, fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni...e la nostra breve vita circondata dal sonno. Marco Ciani
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