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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

martedì 11 settembre 2007

Spirito di Termidoro

La visita del Vescovo al Consiglio comunale ha suscitato molti consensi e qualche riflessione critica; in un breve comunicato, il capo gruppo consiliare di rifondazione comunista ha addirittura sanzionato la stessa presenza di un’autorità religiosa in un luogo istituzionale laico, in nome di un’idea che vorrebbe relegare la religione a fatto privato.
Si tratta di un’idea che ha riscosso, nell’età contemporanea, non pochi consensi, in tutta la tradizione laica che si è posta, tanto a destra, quanto a sinistra, in dialettica e conflitto con la Chiesa. Eppure l’esperienza storica ha dimostrato che la funzione laica dello Stato e delle istituzioni civili non si fonda sulla riduzione del fatto religioso alla sfera del privato; anzi ci sono stati snodi essenziali ed importanti della storia della nazione, in cui l’ispirazione religiosa ha suggerito comportamenti assolutamente rilevanti nelle scelte in campo civile: basterebbe ricordare che la Resistenza di molti cattolici al nazi/fascismo fu il risultato di una ribellione ad una società ingiusta e ad un sistema di prepotenza, in nome dell’ideale evangelico di fraternità.
Certo il problema assume una ben più rilevante complessità. Qui si tratta di accettare o rifiutare l’incontro tra la modernità ed il cristianesimo, anche in tema di cultura giuridica ed istituzionale; senza più richiamare gli errori riconosciuti della Chiesa e le relative responsabilità nella storia di tale incontro, bisognerebbe richiamare l’elaborazione concettuale che De Gasperi, da cattolico impegnato in politica, ha posto, a fondamento della ricostruzione della nostra democrazia: la fraternità e l’uguaglianza, cardini positivi, per quanto contrastati del processo contemporaneo, trovano una loro ispirazione nelle indicazioni evangeliche e nello spirito che ne consegue. Se ne può dedurre che tale spirito può favorire, per la sua parte, le logiche democratiche con tutte le mediazioni culturali e politiche che ne potrebbero e/o dovrebbero derivare.
Ancora e sempre per titoli: siamo sicuri che la posizione della Chiesa sulla pace e sulla guerra, almeno nell’ultimo secolo sempre favorevole alla prima, con un crescendo indubbio di radicalità, non abbia influito sulle scelte della politica? Siamo sicuri che alcuni processi positivi nella elaborazione dell’insegnamento sociale della Chiesa sulla dignità della persona non abbiano conseguenze sulle scelte istituzionali in campo di organizzazione del lavoro? Siamo certi che il richiamo alla persona umana ed alla sua dignità proposta dalla Chiesa non trovi tracce evidenti nel pensiero politico e nei principi fondamentali della Costituzione repubblicana che esalta l’integrale sviluppo di ogni individuo e promuove il merito personale perché sia posto al servizio della nazione ed in particolare dei cittadini più deboli?
Potrei continuare. Il fatto è che la laicità delle istituzioni non si salva relegando la religione al privato ed i cristiani nelle sacrestie. Perché un conto è sostenere il diritto della coscienza individuale nelle scelte di fede, un conto è emarginare una tradizione che dalla religione trae indicazioni ed ispirazione e dalla stessa trae motivi di laicità coerenti. Il maestro di tale tradizione, Luigi Sturzo sosteneva che si concilia perfettamente un pensiero che fa della religione un riferimento vivificatore, ma esclude, senza riserve, la Chiesa dalle scelte di parte ed invita i cattolici impegnati in politica a non parlare mai in nome della Chiesa nelle loro legittime scelte politiche. E precisava che partito e religione, partito e cattolicesimo sono due termini intrinsecamente antitetici, perché il primo si schiera a difesa di interessi di parte, il secondo si propone agli uomini e ad ogni uomo in nome della sua universalità.
Il Concilio vaticano secondo ha sanzionato la legittimità della distinzione. Lo ha fatto in molti dei suoi passaggi e documenti ed in molti richiami lo ha ripetuto Paolo VI; mi basti il riferimento alla “Gaudium et spes”, sui rapporti Chiesa mondo, al paragrafo 43: dalla Chiesa può derivare luce e forza spirituale, ma la mediazione politica e la soluzione concreta dei problemi sta alla responsabilità dei laici; e dunque alla loro autonomia.
Forse qualcuno soprattutto negli ultimi anni e soprattutto fra coloro che avrebbero dovuto realizzare il Concilio, a livello di responsabilità, ha tenuto comportamenti difformi dai documenti, forse si è rischiato di dare spazio a chi sostiene che anche il Concilio è stato abrogato; io penso più semplicemente che lo “spirito di termidoro” e della restaurazione stia sempre dietro l’angolo per tutti, ineliminabile componente dei processi storici: sia per la Chiesa, sia per coloro che vorrebbero riportare la religione alla sua sola dimensione privata.
Agostino Pietrasanta

lunedì 10 settembre 2007

È guerra tra Occidente ed Islam?

Nella ricorrenza dell'11 settembre, che non voglio lasciar passare nel silenzio, non trovo parole o temi nuovi da affrontare. Poichè mi pare che mantenga intatta, salvo alcune sfumature, la sua attualità, ripropongo ai frequentatori di questo blog una riflessione pubblicata su Voce il 21 maggio 2004.



Stiamo vivendo tempi di orribili contrapposizioni; contrapposizione tra Occidente e Islam, tra civiltà; si contrappone orrore a orrore, violenza a violenza, uccisioni selvagge a torture, se-questri a bombardamenti; qualcuno vuole fare addirittura una infame graduatoria: qual è il peggio? Questo o quello? Chi è più barbaro o chi è più civile? Credo che una chiara risposta sia stata offerta la scorsa settimana dall’editoriale del Vescovo, assai moderato nel linguaggio e nei toni, ma “esplosivo” nei contenuti e nei giudizi conseguenti. Non riprendo perciò il tema delle torture e dei barbari omicidi, né voglio commentare le ultime vicende di Nassiriya.
Ma confesso che sono stanco di sentire sbandierare questa contrapposizione tra l’Occidente e i suoi grandi e inarrivabili valori e l’Islam medievale, barbarico, antidemocratico, ecc. Confesso che quando sento o leggo a proposito di questa guerra tra Occidente e Islam sento un po’ di disagio; anche perché se muovo qualche obiezione vengo accusato di schierarmi a-prioristicamente e acriticamente dalla parte dell’Islam, quasi fossi un traditore – poiché siamo in tempo di guerra – che rinnega la sua appartenenza ad una etnia e ad una civiltà. E poi mi accorgo che spesso il contenuto della predicazione domenicale, partendo dalla parola e-vangelica è necessariamente spesso fortemente critico proprio nei confronti dell’Occidente e dei suoi presunti valori. Vorrei allora cercare di chiarire la questione prima di tutto a me stesso e poi, se riesco, a qualche paziente lettore.
«Lo scontro - scrive Paolo Naso direttore della rivista interreligiosa Confronti - non è tra Occidente e islam: è all’interno dell’Occidente e dell’islam». Concordo e credo di averlo e-spresso più volte: non è uno scontro tra civiltà e nemmeno tra occidente e Islam. I paesi che hanno voluto e fatto la guerra (o approvata e giustificata, nonostante fosse contro ogni regola del diritto internazionale), non sono tutto l’occidente. E Bin Laden non rappresenta il mondo musulmano quanto non lo rappresentava Saddam Hussein. Soprattutto non è e non bisogna farlo diventare uno scontro tra religioni e tra culture. Certo, siamo tutti d’accordo che bisogna lottare contro il terrorismo, ma con intelligenza, non con la distruzione. Il terrorismo è una questione di ordine pubblico, non di guerra. Nelle costituzioni dei paesi civili, Italia inclusa, non c’è posto per l’odio. Se qualcuno predica l’odio in piazza o in parlamento o attraverso i media, va perseguito. Non dimentichiamo che gli stessi musulmani sono le prime vittime del terrorismo islamico: gli afgani per primi hanno sofferto il regime dei talebani, gli algerini sono le prime vittime del fanatismo terrorista nel loro paese, molti attentati terroristici, tra i più sanguinosi sono avvenuti proprio nei Paesi arabi o islamici. Purtroppo credo che la stessa confusione linguistica sia radice e causa di ulteriori mali. Come le ricorrenti polemiche sul “fondamentalismo” che ci viene presentato come connaturale all’Islam, come se non esistesse un Islam alieno dal “radicalismo religioso”. Dovremmo piuttosto parlare di “islamismo”, come parlavamo di “fascismo” e di “comunismo”, dove il suffisso “ismo” indicava proprio la deriva ideologica di un pensiero filosofico (o religioso), perché credo proprio che sia questo il punto vero della questione e che sia questa deriva ideologica che dobbiamo combattere, certamente non con gli eserciti belligeranti o occupanti. E il primo modo per combattere questa deriva è culturale: prima di tutto migliorando e facendo avanzare le conoscenze comuni a proposito dell’Islam e del cosiddetto Occidente. E al tempo stesso migliorando la nostra conoscenza e consapevolezza di quale Occidente si parla. Perché io non mi sento in alcun modo di condividere un pensiero che viene sbandierato dall’attuale “governance” del mondo occidentale e cioè la pretesa che “il motore essenziale della storia umana e dell’evoluzione del mondo è la ricerca del progresso e della modernizzazione che s’incarna nella democrazia liberale e nell’economia di mercato”, affermazione degna del peggior neocolonialismo sostenuto dall’impero invisibile ma non troppo delle multinazionali, vangelo dei “neocons” statunitensi. Come si sente spesso affermare che “quella musulmana è una civiltà arretrata e ferma ai canoni dei nostro Medio Evo”, come se la storia delle differenti civiltà dovesse per forza seguire un corso sempre deterministicamente obbligato, sul modello di quello seguito dall’Occidente. Come l’affermazione che l’Islam non ha “conosciuto l’illuminismo”, come se l’Illuminismo fosse solo il luogo delle virtù e delle libertà o come se oggi la nostra civiltà, l’Occidente, il Nord del mondo, gli Usa e la società della globalizzazione non rappresentino altro che il Bene e il Giusto, la Libertà e il Benessere, contrapposti al livore, al fanatismo, alla barbarie. Voglio dire che non accetto che sia una guerra di religione, instaurando una identificazione indebita tra Cristianesimo e Occidente. Certo, ci sono e ci saranno enormi problemi nei rapporti tra il Cristianesimo e l’Islam, ma lasciamoli nel campo loro proprio, quello dei rapporti interreligiosi, quello del dialogo – nella misura del possibile – tra due grandi tradizioni religiose, riconoscendo pure che non potrà che essere già di sua natura un dialogo estremamente difficile, poiché se il cristianesimo è un atteggiamento spirituale, una felice e gioiosa relazione con Dio che mi spinge a trasformare la mia vita e il mondo secondo il progetto che Dio ci ha rivelato, l’Islam è piuttosto un progetto socio-politico-culturale-religioso, dove non contano prima di tutto la spiritualità e la teologia, ma la “giurisprudenza”, la conoscenza precisa delle norme coraniche che regolano minuziosamente ogni aspetto della vita del singolo e dell’insieme dei musulmani.
Ma la guerra che l’Occidente sta conducendo con l’Islam è tutt’altra cosa. Io penso che in realtà Bush, Bin Laden o quale che sia il nemico di turno dell’Occidente, siano in realtà pedine nella ridefinizione dello scacchiere mondiale dopo la “guerra fredda”, pedine nel “grande gioco” economico delle multinazionali, pedine nel riassetto del mercato del petrolio.
E anche che usa l’Islam come ideologia per la lotta all’Occidente è un cinico stratega politico che cerca di sfruttare la miseria e la frustrazione del mondo musulmano per costruirsi una base di consenso di massa da far valere sullo scacchiere del mondo e della grande economia e finanza.
L’Occidente è in guerra in nome dei diritti dell’uomo – si dice. Vero: proprio quei diritti sempre affermati e proclamati a parole dall’Occidente, ma sempre negati nella pratica (le foto delle torture sono state un’efficacissima difesa dei diritti dell’uomo!). È in nome di questi diritti che europei, statunitensi, canadesi e australiani (un miliardo di uomini, un sesto della popolazione del mondo) possono gestire più dell’80% delle ricchezze e delle risorse del mondo, lasciando agli altri 5 miliardi di uomini meno del 20%? È in nome dei diritti dell’uomo che si lasciano morire centinaia di migliaia di bambini per fame, o per l’embargo come è accaduto in Iraq, o si lascia mano libera ai massacri tribali in Africa cosicché le multinazionali possano assicurarsi il monopolio nell’estrazione delle materie prime indispensabili all’Occidente? È in nome dei diritti dell’uomo che l’America Latina è costretta ad avere milioni e milioni di persone in condizioni sub-umane e ad essere gestita come orto privato delle multinazionali americane che le succhiano tutte le possibilità di vita? E se dovesse scoppiare anche la rabbia e la ribellione di questo Continente? Sarebbe la guerra contro il rigurgito medievale del Cristianesimo, contro il Cristianesimo intollerante e antidemocratico? Allora è l’oscurantismo islamico il colpevole dell’instabilità estrema del nostro mondo o sono nodi della storia che vengono al pettine? La storia ci insegna che le classi dirigenti del mondo arabo sono state create e imposte dall’Occidente: l’Inghilterra ha consegnato l’Arabia ai Sauditi, musulmani fondamentalisti, sottraendola agli hashemiti (creando per loro la piccola e senza risorse Giordania), liberali e amici dell’Occidente, ma con il torto di voler costruire una politica nazionale che avrebbe impedito la speculazione petrolifera; così furono gli Usa a impedire in Iran la rivoluzione liberale di Mossadeq, che voleva nazionalizzare il petrolio, creando così lo spazio e le condizioni per la rivoluzione komeinista; come sempre gli Usa favorirono i talebani in Afganistan e Saddam Hussein in Iraq. Come lo schierarsi unilateralmente dalla parte di Israele, senza riconoscere i diritti dei Palestinesi, sempre più frustrati e delusi, tiene accesa la miccia mediorientale. Teniamo allora distinti, e favoriamo questa distinzione tra i musulmani, Occidente e Cristianesimo, giudicando il primo al culmine di un lungo processo di scristianizzazione giunto ormai ad un indifendibile nichilismo, impegnandoci a recuperare quei valori che in questi ultimi decenni sono stati abbandonati, col risultato che l’Occidente si trova ad essere sì tecnologicamente, economicamente e militarmente forte, ma moralmente debole e intimamente infelice. A nulla infatti servirà la superiorità materiale, se non ci sarà un recupero di saldezza morale e spirituale. Come a nulla serve fornire il “brodo di coltura” del terrorismo con guerre e alleanze che servono solo a regalare ulteriori simpatie al fronte “islamista”. Io non mi sento di difendere un Occidente che non riconosce, di diritto e di fatto, che non c’è pace senza giustizia.
Mi pare che siano profetiche, rilette su scala mondiale e non restringendole solo all’Europa, le affermazioni fatte dal Santo Padre in una sua capitale omelia: «Non sarà che dopo la caduta di un muro, quello visibile, se ne sia scoperto un altro, quello invisibile, che continua a dividere il nostro continente - il muro che passa attraverso i cuori degli uomini? È un muro fatto di paura e di aggressività, di mancanza di comprensione per gli uomini di diversa origine, di diverso colore della pelle, di diverse convinzioni religiose; è il muro dell’egoismo politico ed economico, dell’affievolimento della sensibilità riguardo al valore della vita umana e alla di-gnità di ogni uomo» (Giovanni Paolo II, Omelia a Gniezno, 3 giugno 1997). dwf

martedì 4 settembre 2007

Comunicare o tacere?

In più occasioni ho cercato di suscitare un dibattito serio, profondo e approfondito sul senso della “comunicazione” nella Chiesa e sul ruolo dei comunicatori cristiani e credenti (la distinzione è voluta!), sulla necessità di una comunicazione: ma spesso nei nostri ambienti, più clericali che ecclesiali, ogni voce critica è presa come una voce “nemica”, da cui difendersi, o da attaccare in modo un poco subdolo, attribuendogli finalità “altre”, rinchiudendo le persone in un facile ma banale e stupido (nella comunità cristiana) schematismo politico. Ma se i cristiani non sono “comunicatori”, non propagandisti a scopo di proselitismo, non manipolatori della pubblica opinione né cercatori di facile popolarità cavalcando l’irrazionalità e la superficialità dell’opinione comune, che cosa sono? Noi ci siamo, siamo Chiesa per comunicare, per evangelizzare, per aiutare i nostri fratelli ad essere come Dio li ha voluti, esseri dotati di intelligenza, di capacità di pensiero, di volontà, di libertà “per” e non solo di libertà “da”… per aiutarli ad essere uomini e donne “in piedi” non proni nei confronti di nessuno, né di persone né di ideologie morte o nuove che siano! È muovendo da queste ragioni e da questi principi che ho voluto dedicare tanto del mio tempo di ministero proprio alla comunicazione. Ho constatato più e più volte che questa comunicazione, questo dialogo, questo confronto di principi, di posizioni, questo desiderio di “pensiero” e non di slogans, questo sforzo di non arrestarsi alla superficialità delle contrapposizioni preconcette e pregiudiziali, è sempre stato molto più facile con persone esterne, se non “lontani” dalla comunità cristiana, forse perché chi è “fuori” non si porta dentro il tarlo di una certa (diffusa?) ipocrisia, l’ipocrisia di chi riduce la fede a religione e a gesti esteriori di religiosità, o ad un vago interesse per certi argomenti che proprio alla lontana hanno un riferimento religioso, l’ipocrisia di chi ha come unica insegna della sua appartenenza religiosa la pratica domenicale (per un senso del dovere che ha strutturato il suo super-io? per nostalgica fedeltà ai nonni o ai genitori e agli insegnamenti ricevuti nella propria giovinezza, anche se poi la vita li ha ridotti al rango di “belle utopie”?). Come è difficile la comunicazione della Chiesa … ma ancor più difficile pare la comunicazione nella Chiesa!
Alcuni fatti recenti mi hanno spinto a tornare su questo argomento.
- Una notizia di cronaca: un sacerdote vietnamita è stato incarcerato per aver diretto un periodico on-line critico verso il regime. Si chiama Nguyen Van Ly, è un prete cattolico vietnamita di 60 anni, direttore del periodico on-line Tu Do Ngon Luan che, in viet, significa “libertà di espressione”. Per questa sua attività di webgiornalista, padre Ly è stato condannato da un tribunale a ben otto anni di carcere, dopo che già nel 2005 aveva finito di scontare una pena di quattro anni. Lo accusano di aver espresso sul Web critiche al regime e alla sua politica. Forse non c’entra nulla (e riporto la notizia come messaggio subliminale), ma testimonia della condizione globale dell’informazione e comunicazione. Del resto i fatti degli ultimi anni testimoniano che “sistema liberista” non significa immediatamente “sistema libero”, soprattutto per ciò che concerne la ricerca della verità.
- Un dibattito che è ritornato più volte in questi anni di guerre. Mi riferisco al caso dei giornalisti uccisi, (ma ad essi ci si riferisce non per dibattere ma per commemorare e sfruttare politicamente) ma soprattutto al caso dei giornalisti rapiti sui terreni di guerra: penso in particolare ai casi Sgrena e Mastrogiacomo, sui quali si è a lungo dibattuto e molte valutazioni sono state espresse, anche sui nostri media, compresi quelli cattolici. Per qualcuno la loro presenza in luoghi di guerra (chi ricorda i “gloriosi” inviati di guerra del passato?) è inutile, perché si possono scrivere le stesse cose restando alla propria scrivania o nei lussuosi hotel per occidentali. Altri hanno affermato che le loro vicende sono solo servite a gettare discredito sull’Italia per le conseguenze politiche ed economiche della loro liberazione. Qualcun altro ha definito la loro presenza in luoghi di guerra pura follia perché “di sapere quel che pensano i talebani o gli iracheni (o i palestinesi, per citare solo quelli che hanno l’onore delle cronache) non c’è assolutamente la necessità”. Certo, a chi interessa capire, in questo clima culturale di neocolonialismo, che i problemi di quei paesi sono diversi dai nostri non soltanto per motivi sociali ed economici, ma anche culturali e religiosi, che le culture, ossia i diversi modi di visione del mondo, elaborati e mantenuti per secoli, determinano il carattere e dunque la storia dei popoli? Non è più semplice accontentarsi dell’informazione pilotata da chi è parte in causa, da chi non può e non vuole spiegare le vere ragioni per cui si è in guerra? È evidente che è ormai privilegiato il giornalismo spettacolare e di “regime”, a scapito di un giornalismo di informazione, che non interessa più; nessuno vuole più un professionista esperto, formato, aggiornato e libero di intervenire con competenza sui nodi sempre più ardui del mondo contemporaneo. Gli editori sono oggi o politici o imprenditori, ma ad entrambi interessa il riscontro politico (il potere) od economico (e spesso coincidono) e solo questo. E il giornalista deve scrivere solo quello che può essere utile ad entrambi. Giornalisti alla ricerca della verità non interessano a nessuno, neppure al quieto vivere della pubblica opinione, che preferisce guardare dal buco della serratura della villetta di Cogne o della casa di qualche “velina”, salvo poi piangere gli eroi “per caso” quando qualcosa va male. Il giornalista deve scrivere la verità che interessa a chi lo paga.
- E infine un fatto locale. I giornali on-line locali (Giornal.it e Inalessandria.it) hanno eliminato e soppresso e radicalmente cancellato i commenti, tutti, anche quelli in archivio. Un attento osservatore di “cose locali” e collaboratore di Voce mi diceva: «Hanno fatto sparire il “corpo del reato”». Per cinque anni i commenti (scritti da un ristretto ma attivissimo gruppo e letti più della parte giornalistica) sono stati una palestra di linciaggio politico e morale, di calunnie, di leggende metropolitane, a volte anche di bestemmie, che hanno fatto buona presa; non solo riferiti all’ex Sindaco («la “nana maledetta”»), ma anche al Vescovo (“bolscevico”) e su tutti coloro che davano fastidio a certi personaggi e a una certa “cultura” o “sottocultura” politica, esprimendo modi di vedere e di giudicare che nulla hanno a che fare con la visione cristiana della vita e del vivere sociale. Tutto sparito, tutto scomparso, e nessuno si è sognato di protestare, neppure tra gli zelanti “commentatori”, né i responsabili, alcuni del “mondo cattolico”, hanno mai giustificato le ragioni della tolleranza di questa “palestra di inciviltà”, anzi spesso l’hanno difesa in nome della libertà di espressione. Poiché questa palestra è stata aperta e attivissima ben cinque anni e poi è stata bruscamente chiusa, sono consentiti dubbi e sospetti?
Una vena di pessimismo mi prende, anche a riguardo dei nostri media, la Voce e la Radio, e con essa la tentazione (certamente “benedetta e auspicata” da molti) di un periodo “sabbatico” di silenzio. Ho sperimentato spesso, e mi ha sempre sorpreso, l’attenzione con cui molti seguono le nostre omelie domenicali. La stessa attenzione, sensibilità e cordialità non riesco a trovarla tra i fruitori dei “media”; attraverso di essi ho sempre pensato di parlare a “cristiani adulti”, ma anche a tanti cosiddetti “lontani”, uomini e donne di “buona volontà” che dimostrano spesso cordiale attenzione e sensibilità nei confronti dell’esperienza cristiana, quando cerca di essere autentica nel pensiero e nella testimonianza di vita. Lo sforzo di questi anni è stato quello di riaffermare il primato del pensiero, di stimolare una profondità di giudizio, di non lasciare spazi al banale, alla superficialità, di mirare ad un “alto profilo” educativo e formativo. Nel mondo dei “media” cristiani credo si debba essere presenti come preti o laici credenti, come giornalisti, come opinionisti, come cittadini che hanno delle opinioni politiche, ma senza essere “portavoce” o “portaborse” o “propagandisti” di nessuno, fedeli solo – e in questo senso “schierati” - all’ispirazione evangelica, e non politica, testimoni del “Vangelo sociale”, del Vangelo letto e attualizzato nell’oggi, in una lettura che cerchi di esprimere le linee forti del “pensiero sociale cristiano”. «Illuminare le coscienze degli individui e aiutarli a sviluppare il proprio pensiero non è mai un impegno neutrale. La comunicazione autentica esige coraggio e risolutezza. Esige la determinazione di quanti operano nei media per non indebolirsi sotto il peso di tanta informazione e per non adeguarsi a verità parziali o provvisorie. Esige piuttosto la ricerca e la diffusione di quello che è il senso e il fondamento ultimo dell’esistenza umana, personale e sociale. Anche se i diversi strumenti della comunicazione sociale facilitano lo scambio di informazioni e idee, contribuendo alla comprensione reciproca tra i diversi gruppi, allo stesso tempo possono essere contaminati dall’ambiguità. I mezzi della comunicazione sociale sono una “grande tavola rotonda” per il dialogo dell’umanità, ma alcune tendenze al loro interno possono generare una monocultura che offusca il genio creativo, ridimensiona la sottigliezza del pensiero complesso e svaluta la peculiarità delle pratiche culturali e l’individualità del credo religioso. Queste degenerazioni si verificano quando l’industria dei media diventa fine a se stessa, rivolta unicamente al guadagno, perdendo di vista il senso di responsabilità nel servizio al bene comune. Pertanto, occorre sempre garantire un’accurata cronaca degli eventi, un’esauriente spiegazione degli argomenti di interesse pubblico, un’onesta presentazione dei diversi punti di vista. La formazione ad un uso responsabile e critico dei media aiuta le persone a servirsene in maniera intelligente e appropriata. Proprio perché i media contemporanei configurano la cultura popolare, essi devono vincere qualsiasi tentazione di manipolare, soprattutto i giovani, cercando invece di educare e servire. In tal modo, i media potranno garantire la realizzazione di una società civile degna della persona umana, piuttosto che il suo disgregamento. Infine, i media devono approfittare e servirsi delle grandi opportunità che derivano loro dalla promozione del dialogo, dallo scambio di cultura, dall’espressione di solidarietà e dai vincoli di pace. In tal modo essi diventano risorse incisive e apprezzate per costruire una civiltà dell’amore, aspirazione di tutti i popoli» (Benedetto XVI, 24 gennaio 2006 - I corsivi nel testo citato sono miei). Parole tutte che richiedono un approfondito esame di coscienza e una verifica schietta che tocca e impegna prima di tutti operatori e fruitori dei media cattolici. Parole che mi richiamano alla mente la “famosa” parresìa, parola greca che si potrebbe tradurre, con una definizione limitativa, con “dirla tutta, parlare senza peli sulla lingua”. È parresìa il lasciar scorrere fuori esattamente ciò che si ha dentro, senza calcoli di convenienza o di interesse personale; è parresìa il dire la verità, non mentire, non adattare le proprie opinioni all'occorrenza, ma esprimerle con forza e dignità, senza alcun timore. Così, mentre è andata smarrita la parresìa, ovvero il parlare schietto, anche in presenza di potenti e senza temere le conseguenze, il suo contrario, cioè la “frenesia” (phronesis), ovvero la furbizia, l'arrabattarsi in sistemi e strategie per ingannare il prossimo, ha mietuto secoli di successi fino a giungere ad identificare perfetta­mente l'essenza della nostra società. Una società frenetica, tribolante, tribolata e ansiosa, dove “parre­sìa” è un termine sconosciuto ai più, così come lo è la pratica della virtù corrispondente. Abbiamo ancora nella Chiesa il coraggio della parresìa? dwf