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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

martedì 4 settembre 2007

Comunicare o tacere?

In più occasioni ho cercato di suscitare un dibattito serio, profondo e approfondito sul senso della “comunicazione” nella Chiesa e sul ruolo dei comunicatori cristiani e credenti (la distinzione è voluta!), sulla necessità di una comunicazione: ma spesso nei nostri ambienti, più clericali che ecclesiali, ogni voce critica è presa come una voce “nemica”, da cui difendersi, o da attaccare in modo un poco subdolo, attribuendogli finalità “altre”, rinchiudendo le persone in un facile ma banale e stupido (nella comunità cristiana) schematismo politico. Ma se i cristiani non sono “comunicatori”, non propagandisti a scopo di proselitismo, non manipolatori della pubblica opinione né cercatori di facile popolarità cavalcando l’irrazionalità e la superficialità dell’opinione comune, che cosa sono? Noi ci siamo, siamo Chiesa per comunicare, per evangelizzare, per aiutare i nostri fratelli ad essere come Dio li ha voluti, esseri dotati di intelligenza, di capacità di pensiero, di volontà, di libertà “per” e non solo di libertà “da”… per aiutarli ad essere uomini e donne “in piedi” non proni nei confronti di nessuno, né di persone né di ideologie morte o nuove che siano! È muovendo da queste ragioni e da questi principi che ho voluto dedicare tanto del mio tempo di ministero proprio alla comunicazione. Ho constatato più e più volte che questa comunicazione, questo dialogo, questo confronto di principi, di posizioni, questo desiderio di “pensiero” e non di slogans, questo sforzo di non arrestarsi alla superficialità delle contrapposizioni preconcette e pregiudiziali, è sempre stato molto più facile con persone esterne, se non “lontani” dalla comunità cristiana, forse perché chi è “fuori” non si porta dentro il tarlo di una certa (diffusa?) ipocrisia, l’ipocrisia di chi riduce la fede a religione e a gesti esteriori di religiosità, o ad un vago interesse per certi argomenti che proprio alla lontana hanno un riferimento religioso, l’ipocrisia di chi ha come unica insegna della sua appartenenza religiosa la pratica domenicale (per un senso del dovere che ha strutturato il suo super-io? per nostalgica fedeltà ai nonni o ai genitori e agli insegnamenti ricevuti nella propria giovinezza, anche se poi la vita li ha ridotti al rango di “belle utopie”?). Come è difficile la comunicazione della Chiesa … ma ancor più difficile pare la comunicazione nella Chiesa!
Alcuni fatti recenti mi hanno spinto a tornare su questo argomento.
- Una notizia di cronaca: un sacerdote vietnamita è stato incarcerato per aver diretto un periodico on-line critico verso il regime. Si chiama Nguyen Van Ly, è un prete cattolico vietnamita di 60 anni, direttore del periodico on-line Tu Do Ngon Luan che, in viet, significa “libertà di espressione”. Per questa sua attività di webgiornalista, padre Ly è stato condannato da un tribunale a ben otto anni di carcere, dopo che già nel 2005 aveva finito di scontare una pena di quattro anni. Lo accusano di aver espresso sul Web critiche al regime e alla sua politica. Forse non c’entra nulla (e riporto la notizia come messaggio subliminale), ma testimonia della condizione globale dell’informazione e comunicazione. Del resto i fatti degli ultimi anni testimoniano che “sistema liberista” non significa immediatamente “sistema libero”, soprattutto per ciò che concerne la ricerca della verità.
- Un dibattito che è ritornato più volte in questi anni di guerre. Mi riferisco al caso dei giornalisti uccisi, (ma ad essi ci si riferisce non per dibattere ma per commemorare e sfruttare politicamente) ma soprattutto al caso dei giornalisti rapiti sui terreni di guerra: penso in particolare ai casi Sgrena e Mastrogiacomo, sui quali si è a lungo dibattuto e molte valutazioni sono state espresse, anche sui nostri media, compresi quelli cattolici. Per qualcuno la loro presenza in luoghi di guerra (chi ricorda i “gloriosi” inviati di guerra del passato?) è inutile, perché si possono scrivere le stesse cose restando alla propria scrivania o nei lussuosi hotel per occidentali. Altri hanno affermato che le loro vicende sono solo servite a gettare discredito sull’Italia per le conseguenze politiche ed economiche della loro liberazione. Qualcun altro ha definito la loro presenza in luoghi di guerra pura follia perché “di sapere quel che pensano i talebani o gli iracheni (o i palestinesi, per citare solo quelli che hanno l’onore delle cronache) non c’è assolutamente la necessità”. Certo, a chi interessa capire, in questo clima culturale di neocolonialismo, che i problemi di quei paesi sono diversi dai nostri non soltanto per motivi sociali ed economici, ma anche culturali e religiosi, che le culture, ossia i diversi modi di visione del mondo, elaborati e mantenuti per secoli, determinano il carattere e dunque la storia dei popoli? Non è più semplice accontentarsi dell’informazione pilotata da chi è parte in causa, da chi non può e non vuole spiegare le vere ragioni per cui si è in guerra? È evidente che è ormai privilegiato il giornalismo spettacolare e di “regime”, a scapito di un giornalismo di informazione, che non interessa più; nessuno vuole più un professionista esperto, formato, aggiornato e libero di intervenire con competenza sui nodi sempre più ardui del mondo contemporaneo. Gli editori sono oggi o politici o imprenditori, ma ad entrambi interessa il riscontro politico (il potere) od economico (e spesso coincidono) e solo questo. E il giornalista deve scrivere solo quello che può essere utile ad entrambi. Giornalisti alla ricerca della verità non interessano a nessuno, neppure al quieto vivere della pubblica opinione, che preferisce guardare dal buco della serratura della villetta di Cogne o della casa di qualche “velina”, salvo poi piangere gli eroi “per caso” quando qualcosa va male. Il giornalista deve scrivere la verità che interessa a chi lo paga.
- E infine un fatto locale. I giornali on-line locali (Giornal.it e Inalessandria.it) hanno eliminato e soppresso e radicalmente cancellato i commenti, tutti, anche quelli in archivio. Un attento osservatore di “cose locali” e collaboratore di Voce mi diceva: «Hanno fatto sparire il “corpo del reato”». Per cinque anni i commenti (scritti da un ristretto ma attivissimo gruppo e letti più della parte giornalistica) sono stati una palestra di linciaggio politico e morale, di calunnie, di leggende metropolitane, a volte anche di bestemmie, che hanno fatto buona presa; non solo riferiti all’ex Sindaco («la “nana maledetta”»), ma anche al Vescovo (“bolscevico”) e su tutti coloro che davano fastidio a certi personaggi e a una certa “cultura” o “sottocultura” politica, esprimendo modi di vedere e di giudicare che nulla hanno a che fare con la visione cristiana della vita e del vivere sociale. Tutto sparito, tutto scomparso, e nessuno si è sognato di protestare, neppure tra gli zelanti “commentatori”, né i responsabili, alcuni del “mondo cattolico”, hanno mai giustificato le ragioni della tolleranza di questa “palestra di inciviltà”, anzi spesso l’hanno difesa in nome della libertà di espressione. Poiché questa palestra è stata aperta e attivissima ben cinque anni e poi è stata bruscamente chiusa, sono consentiti dubbi e sospetti?
Una vena di pessimismo mi prende, anche a riguardo dei nostri media, la Voce e la Radio, e con essa la tentazione (certamente “benedetta e auspicata” da molti) di un periodo “sabbatico” di silenzio. Ho sperimentato spesso, e mi ha sempre sorpreso, l’attenzione con cui molti seguono le nostre omelie domenicali. La stessa attenzione, sensibilità e cordialità non riesco a trovarla tra i fruitori dei “media”; attraverso di essi ho sempre pensato di parlare a “cristiani adulti”, ma anche a tanti cosiddetti “lontani”, uomini e donne di “buona volontà” che dimostrano spesso cordiale attenzione e sensibilità nei confronti dell’esperienza cristiana, quando cerca di essere autentica nel pensiero e nella testimonianza di vita. Lo sforzo di questi anni è stato quello di riaffermare il primato del pensiero, di stimolare una profondità di giudizio, di non lasciare spazi al banale, alla superficialità, di mirare ad un “alto profilo” educativo e formativo. Nel mondo dei “media” cristiani credo si debba essere presenti come preti o laici credenti, come giornalisti, come opinionisti, come cittadini che hanno delle opinioni politiche, ma senza essere “portavoce” o “portaborse” o “propagandisti” di nessuno, fedeli solo – e in questo senso “schierati” - all’ispirazione evangelica, e non politica, testimoni del “Vangelo sociale”, del Vangelo letto e attualizzato nell’oggi, in una lettura che cerchi di esprimere le linee forti del “pensiero sociale cristiano”. «Illuminare le coscienze degli individui e aiutarli a sviluppare il proprio pensiero non è mai un impegno neutrale. La comunicazione autentica esige coraggio e risolutezza. Esige la determinazione di quanti operano nei media per non indebolirsi sotto il peso di tanta informazione e per non adeguarsi a verità parziali o provvisorie. Esige piuttosto la ricerca e la diffusione di quello che è il senso e il fondamento ultimo dell’esistenza umana, personale e sociale. Anche se i diversi strumenti della comunicazione sociale facilitano lo scambio di informazioni e idee, contribuendo alla comprensione reciproca tra i diversi gruppi, allo stesso tempo possono essere contaminati dall’ambiguità. I mezzi della comunicazione sociale sono una “grande tavola rotonda” per il dialogo dell’umanità, ma alcune tendenze al loro interno possono generare una monocultura che offusca il genio creativo, ridimensiona la sottigliezza del pensiero complesso e svaluta la peculiarità delle pratiche culturali e l’individualità del credo religioso. Queste degenerazioni si verificano quando l’industria dei media diventa fine a se stessa, rivolta unicamente al guadagno, perdendo di vista il senso di responsabilità nel servizio al bene comune. Pertanto, occorre sempre garantire un’accurata cronaca degli eventi, un’esauriente spiegazione degli argomenti di interesse pubblico, un’onesta presentazione dei diversi punti di vista. La formazione ad un uso responsabile e critico dei media aiuta le persone a servirsene in maniera intelligente e appropriata. Proprio perché i media contemporanei configurano la cultura popolare, essi devono vincere qualsiasi tentazione di manipolare, soprattutto i giovani, cercando invece di educare e servire. In tal modo, i media potranno garantire la realizzazione di una società civile degna della persona umana, piuttosto che il suo disgregamento. Infine, i media devono approfittare e servirsi delle grandi opportunità che derivano loro dalla promozione del dialogo, dallo scambio di cultura, dall’espressione di solidarietà e dai vincoli di pace. In tal modo essi diventano risorse incisive e apprezzate per costruire una civiltà dell’amore, aspirazione di tutti i popoli» (Benedetto XVI, 24 gennaio 2006 - I corsivi nel testo citato sono miei). Parole tutte che richiedono un approfondito esame di coscienza e una verifica schietta che tocca e impegna prima di tutti operatori e fruitori dei media cattolici. Parole che mi richiamano alla mente la “famosa” parresìa, parola greca che si potrebbe tradurre, con una definizione limitativa, con “dirla tutta, parlare senza peli sulla lingua”. È parresìa il lasciar scorrere fuori esattamente ciò che si ha dentro, senza calcoli di convenienza o di interesse personale; è parresìa il dire la verità, non mentire, non adattare le proprie opinioni all'occorrenza, ma esprimerle con forza e dignità, senza alcun timore. Così, mentre è andata smarrita la parresìa, ovvero il parlare schietto, anche in presenza di potenti e senza temere le conseguenze, il suo contrario, cioè la “frenesia” (phronesis), ovvero la furbizia, l'arrabattarsi in sistemi e strategie per ingannare il prossimo, ha mietuto secoli di successi fino a giungere ad identificare perfetta­mente l'essenza della nostra società. Una società frenetica, tribolante, tribolata e ansiosa, dove “parre­sìa” è un termine sconosciuto ai più, così come lo è la pratica della virtù corrispondente. Abbiamo ancora nella Chiesa il coraggio della parresìa? dwf

1 commento:

Anonimo ha detto...

Caro don Walter,
forse questo è il primo commento al tuo blog, del che non potrei che essere onorato.
Il mio vuole essere semplicemente un invito a continuare a comunicare.
"E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv, 1;14).
Non possiamo dimenticare che la nostra fede nasce da lì e che è questo verbo, o logos, che ci rende e-vangelizzatori.
Non farci mancare mai il tuo contributo.
Con simpatia.

Marco Ciani