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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

giovedì 27 ottobre 2011

“IO VENERO IL VESCOVO CHE È IN ME”


La voce alessandrina 14 ottobre 2011

Eravamo agli inizi degli anni ’70; da poco ero in seminario a Venegono; erano tempi “caldi” dal punto di vista sociale ed ecclesiale, facendo seguito al Concilio, al ’68, e ai prodromi degli “anni di piombo”. Mi è rimasta sempre impressa nella mente e nel cuore una frase pronunciata, quasi gridata, nel Duomo di Milano gremitissimo per una celebrazione, dal Card. Giovanni Colombo, che disse: «Io venero il Vescovo che è in me!».
Poche settimane trascorse con Mons. Charrier dopo il suo ingresso in Diocesi, anzi potrei dire pochi giorni di collaborazione, e subito mi tornò in mente quella frase del Cardinale, che mi sembrava, e col tempo è diventata una certezza, ben si attagliasse per il Vescovo.
Io posso immaginare quel che avviene nell'intimo di qualcuno che è nominato Vescovo di una diocesi: il suo cuore si dilata a misura del compito ricevuto e la sua vita cambia. Quando il Papa chiama un sacerdote all’ordinazione episcopale si rinnova la chiamata di Gesù a uno di quegli uomini che poi divengono suoi apostoli. E la convinzione, la certezza, che i Vescovi succedono agli apostoli come pastori e hanno la missione di perpetuare l’opera di Cristo, divenne quasi un abito indossato da Mons. Charrier in ogni momento, un abito mai smesso, come invece smetteva celermente gli abiti solenni ed esteriori che il ruolo gli assegnava.
Nel “Vescovo che era in lui” non venerava tanto l’autorità, l’ufficio di governo che gli era stato assegnato; lo infastidiva il fatto che qualcuno in sua presenza ringraziasse le Autorità civili, politiche, militari e religiose! “Ma quale Autorità religiosa? Il Vescovo è servitore, non Autorità!”. Per lui il Vescovo era piuttosto pastore, colui che si prende cura di un gregge, uno chiamato a essere profeta come Isaia, a esserlo come Gesù che riferì a sé, nella sinagoga di Nazareth, le parole del libro: «Lo Spirito del Signore è su di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-29). “Predicare un anno di grazia”, cioè di misericordia, è la parola che Gesù pronuncia prima di chiudere il volume del profeta Isaia. Non aggiunge l’espressione più aspra: «Un giorno di vendetta per il nostro Dio» (cf Is 61,2). Per Mons. Charrier era indispensabile, come Vescovo, immedesimarsi nell’azione misericordiosa di Dio; lieto annunzio ai poveri, proclamazione di liberazione per i prigionieri, messa in libertà degli oppressi, promulgazione dell’anno di misericordia. Sentiva che l’opera di Dio nella sua missione consisteva nel rivelare la misericordia del Padre, nell’essere davanti agli uomini annuncio del perdono, della salvezza che vengono da Gesù Cristo, una salvezza che per il Vescovo Fernando era prima di tutto pienezza di umanità. Come Vescovo aveva in mano il bastone dei pastori del popolo di Dio e al dito un anello, segno dello sposalizio con la Chiesa alla quale era stato inviato; aveva ricevuto il Vangelo sulle spalle, il libro della Parola; nella potenza dello Spirito santo si sentiva mandato a tutto il mondo, per predicare il Vangelo di quell’amore manifestato nella passione e nella morte di Gesù. Il servizio episcopale esigeva per lui un cuore dilatato dall’amore per tutti coloro ai quali era stato mandato, credenti, non credenti, mal credenti, cercatori comunque di Dio anche quando non se ne rendevano conto...
Tante volte ha parlato del primato della carità, ma più che parole era per lui sentirsi immerso nel vortice di questo amore che aveva invaso la sua esistenza e che voleva diventare, a partire da lui, calore e fuoco che riscaldasse tutti coloro che incontrava. Era questo stesso amore che predicava quando parlava della sua famiglia, dalla sua comunità, del suo cammino vocazionale, iniziato entrando in Seminario, ma sviluppatosi poi lungo le strade su cui lo Spirito lo aveva condotto, nella sua Pinerolo prima, poi a Roma, poi nelle Acli, e nel mondo del lavoro, nel Movimento Operaio, alla Cei con la pastorale sociale e del lavoro, la giustizia e la pace. Era questo amore che vedeva presente nei suoi genitori, nella sua mamma, in coloro che lo amavano dentro e fuori i legami familiari. Un amore che sentiva come contestazione del mondo, delle sue incertezze, delle sue diffidenze, delle apostasie che minacciano ogni cammino quotidiano; vissuto non come “giudizio e rifiuto” del mondo, che amava con passione, ma come necessità di “andare controcorrente” per aiutare il mondo – gli uomini e le donne – a non percorrere “sentieri interrotti”, ma a realizzare un progetto di società alternativo, secondo il “sogno di Dio”. Essere Vescovo lo sentiva come necessità di donare un amore che è dono della vita.
Questo era “l’abito” che il Vescovo non smetteva mai di indossare: nell’ufficialità degli incontri e delle celebrazioni, nelle udienze in Vescovado come nelle visite pastorali, nei convegni, nelle conferenze, nelle infinite riunioni in Diocesi o a Roma, quando qualcuno gli strappava un sorriso o una aperta risata, come nei momenti di tristezza e dolore, nei momenti di svago, di incontro con qualche amico di una vita, ma anche nel privato del suo studio, della sua camera, della cucina del Vescovado (luogo di incontro, di chiacchierate libere, di affetti, di amicizia, di “casa di tutti”): sempre, anche nei lunghi viaggi, nel fare il punto delle cose con il suo segretario, nel momento della tavola condivisa con Elena... sempre emergeva questo sentirsi “portatore del Vescovo”. Non era né burbero, né severo (e ben lo sa chi avrebbe potuto aspettarsi dure reprimende o punizioni da lui), non serioso né freddo, come pure diceva di essere (fosse stato freddo non avrebbe sofferto per l’ulcera), non distaccato né mai indifferente: «Io venero il Vescovo che è in me!», da questo pensiero – mai espresso a parole – era abitato, sempre, in ogni momento pubblico o privato.
“Abito” che gli faceva dire parole che risuonavano tristi, ma che erano invece parole che rappresentavano l’essenza dell’inculturazione del messaggio cristiano nella società contemporanea, una società bisognosa di conforto, di speranza, di fraternità così insanguinata, com’era e com’è dalle contraddizioni e dall’odio. Parole profetiche in una Chiesa che dopo il Concilio sentiva ancora alla ricerca di un’identità. Parole sempre intrise di un umanesimo cristiano che anteponeva la centralità, la dignità e la libertà dell'uomo a quelli che talvolta sentiva come rigidi dogmi della Chiesa, stilati pure da uomini fragili e perfettibili (spesso diceva di fronte a certe situazioni: “Pazienza... questo è il lato umano della Chiesa...). Parole per far camminare la sua Chiesa sulle strade degli uomini proponendo essenzialmente il Vangelo come base di una vita buona, non ricette univoche, astratte dalla vita, pensate a tavolino e calate dall’alto, perché la vita buona, ne era profondamente convinto, nasce dal rispetto della libertà e dalle scelte adulte delle persone: “Dalla libertà e dalla volontà” era una sua frequente espressione.
«Vi ho amati e vi amerò sempre» abbiamo letto sul numero speciale di Voce. Qualcuno ha scritto, parlando di un carissimo amico di Mons. Charrier, Mons. Tonino Bello: «Vorrei dire a tutti, ad uno ad uno, guardandolo negli occhi: “Ti voglio bene”, così come, non potendo stringere la mano a ciascuno, però venendo vicino a voi così personalmente, vorrei dire: “Ti voglio bene”. Sono, queste, le ultime parole rivolte da un vescovo alla sua chiesa. Parole che hanno dato luce ad un cammino non sempre facile. “Ti voglio bene”: è l'espressione finale di un impegno personale (capace di annullare qualsiasi barriera convenzionale) mai esauritosi».
Un corpo fragile ma inesausto perché sempre, in ogni momento, doveva lasciar agire e parlare “il Vescovo che era in lui”.
dwf

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