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"La coscienza del cristiano è impegnata a proiettare nella sfera civile i valori del Vangelo" ____________________________________________________________________________________________________________________

giovedì 27 marzo 2008

Laicità, diritti, pace: poco spazio alla speranza

Riprendo da Adista N.25 del 29-03-2008
Intervista a don Walter Fiocchi


Le gerarchie nelle ultime settimane sono state molto attive sul fronte politico. Ruini ha prima benedetto la scelta di Casini di presentarsi con il suo simbolo; poi, anche attraverso il direttore di Avvenire Boffo, ha cercato di convincere il Pdl all'apparentamento con l'Udc, ha "scaricato" la lista di Ferrara, partecipato, tramite don Carlo Nanni (vicino al Segretario di Stato vaticano), alla convention dei cattolici del Pd, cercato di scongiurare l'alleanza Pd-Radicali. Sembra però, almeno fino a questo punto, non essere riuscita a condizionare le scelte di fondo dei partiti in questa campagna elettorale. Segno della divisione tra Ruini e Bertone; segnale di debolezza di una Chiesa che non riesce più ad incidere come vorrebbe; o che altro?
È un panorama e un "attivismo" gerarchico che non sono in grado di analizzare, ma che suscita comunque in molti perplessità e disagi profondi, soprattutto in quelli che sono cresciuti nell'area del cosiddetto "cattolicesimo democratico" e che in quella benedetta modalità di presenza dei cattolici in politica hanno creduto. Non lascia certo indifferenti il veder indicare in Berlusconi (sia pure con la tutela di Casini) il leader "attendibile" per i cattolici italiani, né gli scambio di "amorosi sensi" (per quanto casti e celibatari) con il campione degli "atei devoti"! Dire "cattolici democratici" significa anche dire "laicità", quella insegnata dal Concilio Vaticano II che nella Gaudium et Spes richiama la necessità delle indicazioni di valore lasciata ai "pastori", ma pone ai laici la responsabilità della mediazione culturale e dei programmi politici. In una recente intervista a Ferrara, il card. Ruini ha nei fatti propugnato "l'eutanasia della mediazione" (o forse l'eutanasia del cattolicesimo democratico in quanto tale!) come obbligo per i cattolici. Questi devono in politica essere integralisti: se propositivi, debbono proporre l'integralità e l'integrità del messaggio morale cattolico, senza sconti, senza compromessi, senza mediazioni ed eventualmente accettare la sconfitta sul piano dei numeri in Parlamento! Un chiaro esempio di questa linea l'abbiamo avuto a proposito dei Dico: la proposta di mediazione avanzata da cattolici (a mio avviso ricca di equilibrio) è stata sottoposta a una bordata di condanne che avranno come conseguenza o il permanere di molti in una situazione di discriminazione o il progressivo emergere di una posizione "zapateriana". Ma in questo modo i cattolici in politica, in un contesto di pluralismo culturale ed etico, sono condannati alla ricerca affannosa e ansiosa del "minor male" invece di essere promotori del "miglior bene possibile". Quando tutto ciò che è "altro" dalla dottrina cattolica si colloca sotto la categoria del "relativismo" quale possibilità resta alla "mediazione" o più semplicemente al dialogo?

Nella presentazione delle liste del Pd è emersa fortissima la leadership di Veltroni, che - alla stregua di un princeps - ha designato (anche in virtù dell'attuale legge elettorale) deputati e senatori in modo estemporaneo. Emerge un quadro all'insegna del "ma anche", in cui vanno a braccetto il falco di Confindustria e l'operaio della ThyssenKrupp, la Bonino e la Binetti, Veronesi e Bobba, Di Pietro e i cosiddetti "garantisti". Nuova politica o cancellazione del conflitto? E come valuti ciò che si sta muovendo a sinistra del Pd?
Se due anni fa, dopo la formazione del governo Prodi scrivevo: "Ritengo che tra le cose che il nuovo governo dovrà mettere all'ordine del giorno ci siano alcuni punti determinanti ed essen-ziali per la democrazia e per l'Italia: 1) fare una ‘seria e forte’ legge sul conflitto d'interessi; 2) ritirare, con l'equilibrio e con i passi necessari, ma in tempi ragionevolmente brevi, le truppe italiane dall'Iraq; 3) rimettere mano, in accordo con l'opposizione, alla legge elettorale, non beandosi del fatto che, contrappasso dantesco, ha favorito il centro sinistra; 4) cancellare la vergogna delle leggi ad personam e ridare fiducia e vigore all'apparato giudiziario; 5) correggere certe storture della sanità e della scuola; 6) rivedere la cosiddetta ‘legge Biagi’", e avrei potuto anche aggiungere: cancellare e riscrivere con altri orizzonti l'iniqua legge Bossi-Fini, ripensare la politica estera alla luce dell'art. 11 della Costituzione con una chiara scelta di strade di pace e di sviluppo dei popoli come unica politica di lotta al terrorismo, far uscire l'Italia dalla vergogna dell’industria e del mercato delle armi… Mi chiedo oggi quale spazio resti per questi temi (e per tanti altri), quale sensibilità sociale, si possa prefigurare nel prossimo Parlamento, del resto non eletto ma nominato dalle segreterie dei partiti. Senza neanche lo stimolo e il pungolo della Sinistra cosiddetta radicale, certamente portatrice di alti valori sociali, ancorché in un "brodo massimalista" che ha spesso impedito di raggiungere i risultati sperati: troppo spesso le lucide ed "evangelicamente" corrette analisi di un Bertinotti hanno poi dato luogo a scelte politiche adolescenziali ("tutto e subito"), anche qui incapaci di ricercare il maggior bene possibile invece del male minore. Sembra che integralismo cattolico e integralismo massimalista di sinistra talvolta si sposino, ma diano luogo ad un "matrimonio rato ma non consumato", incapace di dare frutti di vita!

Tu sei da poco tornato dalla Palestina. Quale credi dovrà essere la politica estera italiana rispetto alla questione israeliano-palestinese? Come giudichi in questo senso la linea tenuta dal centrosinistra?
C'erano buone premesse nell'ormai morto centrosinistra; ritengo che in questo caso fosse lucida e condivisibile la linea espressa dal ministro D'Alema e mi sono sempre trovato d'accordo con le sue analisi e le sue posizioni: peccato che fossero solo sue.
La Palestina è sempre uguale a se stessa: un Paese occupato da quarant'anni, senza nessuna autorità vera se non quella dell'esercito israeliano, senza terra, diviso dal Muro in piccole isole non comunicanti, senza prospettive di sviluppo, senza il possesso del bene più prezioso, l'acqua, senza voce, senza appoggi disinteressati, un popolo usato strumentalmente come cuneo per interessi strategici e ancor più economici in un'area ben più vasta del loro fazzoletto di terra; ciò che conta realmente è il petrolio del Medio Oriente non il popolo palestinese, che di suo ha ben poco da offrire! Al di là dei messaggi propagandistici a fini interni di Bush, mi chiedo che volontà ci sia da parte israeliana e occidentale di affrontare i veri nodi: la questione della Gerusalemme araba e in generale dello status della Città Santa, la questione dell'acqua (il 90 per cento dell'acqua della Cisgiordania è utilizzata a beneficio di Israele), la questione dei profughi (3.600.000, per una parte dei quali si chiede un indennizzo e un possibile rientro in Israele almeno per 200.000 che vivono in Libano), la questione degli insediamenti in Cisgiordania, la questione del Muro e il genocidio di Gaza. L'intransigenza ottusa degli occidentali a proposito di Hamas (che ha democraticamente vinto regolari e democratiche elezioni!) - unica ma totalmente isolata eccezione il ministro D'Alema - non può far altro che dare sempre più forza alla minoranza violenta e islamizzata e spingere sempre di più Hamas nelle braccia del terrorismo di Al Qaeda e nel subdolo abbraccio economico, politico e strategico ora dei Sauditi ora degli Ayatollah iracheni. Al momento non spero nulla…

giovedì 20 marzo 2008

Il silenzio di Dio ... (2)

Tremo un poco nello scrivere queste righe per dar seguito alle riflessioni iniziate la scorsa settimana, a seguito del discorso pronunciato da papa Benedetto durante il suo pellegrinaggio ad Auschwitz. Tremo perché si tratta di “prendere di petto” il tema del “silenzio di Dio”, un tema che attraversa i secoli e le coscienze, un tema declinato in tutte le lingue, in tutte le esperienze filosofiche e religiose, “cantato” nei Salmi biblici e in tutte le letterature, nel medesimo tempo causa prima dell’ateismo e/o della fede… Tremo perché sono consapevole dei miei limiti e, anche se qualcuno è convinto del contrario, sono certo che tra le mie “virtù” non ci sono l’orgoglio né la presunzione. Permettetemi allora di offrire artigianalmente solo qualche suggestione che stimoli a pensare, che faccia eco alle domande, grandi, terribili, profetiche, pronunciate dal Papa: «Sempre di nuovo emerge la domanda: Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come potè tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?». Fiumi d’inchiostro sono stati versati nei giorni successivi; teologi e tuttologi si sono cimentati con esiti diversi su serie o improbabili letture e analisi di questo testo… Ma era già accaduto con Paolo VI, quando si era rivolto a Dio: «Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, … vogliono aprirsi per esprimere il «De profundis», il grido cioè ed il pianto dell'ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. Signore, ascoltaci! E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro … ». E di nuovo nel 2002, a seguito di un discorso di Giovanni Paolo II ad un’udienza generale, l’11 dicembre: «Oltre alla spada e alla fame, c’è, infatti, una tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio, che non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dell’agire dell’umanità. Le domande a Lui rivolte si fanno perciò tese ed esplicite in senso tipicamente religioso: “Hai forse rigettato completamente Giuda, oppure ti sei disgustato di Sion?”. Ormai ci si sente soli e abbandonati, privi di pace, di salvezza, di speranza. Il popolo, lasciato a se stesso, si trova come sperduto e invaso dal terrore. Non è forse questa solitudine esistenziale la sorgente profonda di tanta insoddisfazione, che cogliamo anche ai giorni nostri? ...». Ma la stessa domanda è risuonata tante volte in questi anni sotto tutti i cieli di questa Terra: in occasione dello tsunami, in occasione dell’11 settembre, dopo il terremoto che fece una trentina di vittime (bambini!) a San Giuliano di Puglia… Io sono certo che la stessa domanda risuona ogni giorno in ogni parte del mondo, dove qualcuno vive un momento di tragedia, di ingiustizia, di dolore inspiegabile e innocente… ma alla maggior parte di noi non interessa questa domanda lavica, perché, fortunatamente, il dio Moloch televisivo ce la ripropone solo quando ci può interessare direttamente o per ragioni di prossimità di civiltà. Chi si ricorda i genocidi del Ruanda – Burundi? O quelli che abbiamo rimosso velocemente perché erano a due passi da noi, in Bosnia? Ci appassionano di più quelli della storia: Auschwitz, le foibe, i lager comunisti…Del resto molti di noi erano già nati quando Hitler e Stalin ammazzavano milioni di persone, quando il mondo era una sterminata Sindone impregnata di sangue. Da credente abbozzo e propongo una pista biblica di riflessione.

Peggiore della guerra, delle calamità naturali, della fame, delle malattie, delle violenze che isteriliscono la mente toccando ferocemente il corpo, c’è un'altra dimensione dell'esistenza che è in gioco: la relazione con Dio. Se questo legame è inaridito, se patisce la violenza del pensiero debole, dell’interrogare gli idoli del nostro tempo, se la fame di Dio, che le grandi domande dell’esistenza rivelano, è placata solo dalle cose, dalla roba, dai beni materiali, è unta di edonismo, che cosa rimane dell'uomo? L'uomo diventa indifferente all'uomo, suo compagno di strada. Ognuno guarda solo se stesso. Tutti abbiamo conosciuto il silenzio di una persona amata, di un amico, dei nostri stessi genitori: un silenzio che viviamo a volte con indignazione, scontrosità, rabbia, perché sentiamo che i rapporti si son rotti o almeno incrinati, a causa nostra o di altri. Ma quando gli eventi ci costringono a dire: “Siamo colpiti, non c'è rimedio?”, il silenzio di Dio è di altra specie, ha un’altra valenza: il rispetto della libertà. È un silenzio che avvolge l'uomo con un mantello che lo protegge, mentre sembra isolarlo, respingerlo. Dio aspetta che l'uomo ritrovi se stesso, la sua umanità, che faccia luce in se stesso: Dio gli concede tempo e, saggiamente, tace. Ma se Dio tace, quel Dio che è Parola (“In principio era la Parola…”), ma una Parola che è fatto concreto, che quando parla opera (“E Dio disse: Sia la luce! E la luce fu…”), se tace, le sue mani non smettono di sorreggere l'uomo. Anche quando si vorrebbe che intervenisse, lui direttamente, potentemente, violentemente, per impedire che il povero sia distrutto dal potente, che l’innocente sia ucciso dal malvagio. È la domanda che i salmi attribuiscono ai pagani che, nell’ora del male, si rivolgono con sarcasmo al credente chiedendogli: “Dov’è il tuo Dio?”. La vera domanda che tutti dobbiamo porci è un’altra: “Dov’era l’uomo ad Auschwitz? Dov’era l’uomo a New York, in Burundi, in Bosnia, in Iraq?”. È l’uomo che è morto, è l’uomo che non sa reagire: il grande silenzio che avvolge i genocidi è silenzio di uomini, di popoli, di governi, anche di uomini che si dicono credenti… ma non di Dio. «Dio è morto, firmato Nietzsche» scrivevano sui muri i sessantottini. «Nietzsche è morto, firmato Dio» ribatté una mano anonima. Perché il Dio degli ebrei e dei cristiani è identificato proprio dall’essere un Dio che parla, un Dio sempre in dialogo con l’umanità, un Dio che costantemente rivolge il suo invito: “Shema’ Israel, ascolta Israele!”; sono gli uomini che lo accusano di silenzio, invece di riconoscere di essere loro ad avere le orecchie aperte per altre parole, per altri messaggi, per altri inviti: il silenzio lo crea l'uomo.
Purtroppo non ci sono più neppure gli atei seri a stimolare la riflessione dei credenti; gli atei son diventati “devoti” e sono davvero riusciti a far tacere Dio. Nel silenzio di Dio dei lager sono fiorite parole umane straordinarie: quelle pronunciate da Padre Kolbe o da Edith Stein o da Bonhoeffer, tra le poche che hanno una paternità, che giustamente il papa ha ricordato nel suo discorso, ma accanto a queste mille e mille parole di quotidiana umanità sono state pronunciate negli stessi luoghi, mostrando con gesti che il silenzio di Dio non è un silenzio che getta l'uomo nella storia e poi lo dimentica, come pensava la sapienza dei Greci, ma è un silenzio che tesse la speranza, che rivela la verità dell'uomo sull'uomo. Oggi non si vuole e non si cerca questo silenzio rivelatore di Dio; oggi si vuole che Dio taccia! A meno che le sue parole, quelle che noi gli attribuiamo non siano utili per i nostri fini, magari usabili politicamente. Oggi nulla è più neppure vera tragedia o dramma grandioso, oggi nulla ci porta più a nutrire un pensiero ribelle come quello di Nietzche, perché preferiamo accontentarci del “pensiero debole” che vive alla superficie delle cose: nella banalità, nel luogo comune, nell'ovvietà, nello scontato, nello stereotipo, nella volgarità, nell’insulto dell’altro, nell’opinione della maggioranza, nella provvisoria immagine televisiva e nelle susseguenti e interessate letture e interpretazioni... solo la persona matura può affrontare di petto il silenzio di Dio, solo il credente maturo può non perdere la fede, la speranza e capire la responsabilità che Dio gli consegna, silenziosamente…Così molti spengono ogni domanda e ogni personale responsabilità facendosi lambire la coscienza dal fascino del miracolismo, privilegiando il sensazionale, contando sul super Enalotto della fede, le madonne che piangono, le condanne rabbiose, le crociate verbali (solo verbali, per carità, perché quelle vere erano una cosa seria!) facendo crescere l'individualismo delle coscienze, riducendo il cristianesimo a una ideologia tutta e solo intellettuale, strumento solo per dare un’identità culturale, instrumentum regni, che si nutre di dogmi, neppur teologici ma ideologici, che non si fa neppure il tentativo di capire…In realtà il vero dramma è che il silenzio di Dio è abrogato, perché solo nel silenzio di Dio emerge il protagonismo degli uomini, di quelli che non si sentono abbandonati da Lui, ma responsabilizzati di una responsabilità che non riguarda solo la salvezza individuale, ma che deve incidere, come chiede il Vangelo, sui processi storici e sui fenomeni culturali, cioè sulla salvezza sociale. Spero non siano vere per nessun credente le parole, dure, di un poeta: «Come può sentire il silenzio di Dio chi prega sempre a voce troppo alta? Come può sentire il silenzio di Dio chi usa la sua parola solo per il potere? Come può sentire il silenzio di Dio chi lo vede solo in uno specchio? Come può sentire il silenzio di Dio chi si batte troppo forte il petto? Come può sentire il silenzio di Dio chi lo cerca solo nelle chiese? Come può sentire il silenzio di Dio chi ha conquistato già il suo paradiso?» (A. Lissoni). dwf

Il silenzio di Dio e le troppe parole degli uomini

Stimolato dalla "forte" riflessione di Marco Ciani e da lunghe meditazioni che ho dovuto fare nei giorni scorsi a proposito del male e del "dolore innocente", per un incontro dell'UNITRE a cui sono stato invitato come relatore, in occasione del Triduo Pasquale, cuore della fede e dell'esperienza cristiana, mi permetto di riproporre due lunghi articoli pubblicati su La voce alessandrina in occasione della visita del Santo Padre al campo di sterminio di Auschwitz. Dopo la Settimana Santa mi ripropongo di inserire anche qualche riflessione più direttamente riguardante il male e il dolore innocente.

Due immagini della visita del papa Benedetto XVI al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau mi hanno emotivamente colpito, potenza delle immagini certamente, e credo abbiano colpito tutti colo¬ro che hanno potuto vedere la diretta televisiva: l'ingresso in solitudine del papa al campo di Au¬schwitz, passando sotto la scritta “Arbeit Macht Frei” (il lavoro rende liberi) e il segno biblico dell'arcobaleno durante la preghiera e le riflessioni nel campo di Birkenau.

Ho rivissuto in quei momenti i ricordi della mia prima visita a quei luoghi di orrore nel lontano 1981. Il percorso da un Blocco all'altro ad Auschwitz, con le memorie così vive e parlanti della Shoah, l'impossibilità di fronte a quelle testimonianze di orrore di parlare, un'angoscia che ti serrava la gola; l'unica di¬strazione – se così si può chiamare – mia e dei miei compagni di viaggio era proprio il completare il percorso preceduti da tre giovani tedeschi (più o meno ventenni) che, entrati come si entra in un museo, abbiamo visto man mano impallidire e angosciarsi oltre ogni dire, tanto che temevamo ad un certo punto di vederli fuggire o di doverli soccorrere. Posso perciò immaginare il peso sul cuo¬re del papa tedesco passando sotto quella scritta, entrando in quei Blocchi, sostando dinanzi al muro delle fucilazioni, visitando il luogo del martirio di padre Kolbe, passando accanto alle barac¬che di Birkenau, vedendo le macerie dei forni crematori, cose tutte rese ancor più vivide e strazian¬ti proprio da quel segno di pace e riconciliazione apparso nel cielo ancora plumbeo dell'attuale Oswiencim. E se quelle immagini si caricavano di simbologie, le parole dette in quel luogo ritenevo avrebbero indotto tutti ad un silenzio scevro di ogni polemica, di ogni parziale e politica rilettura... ma così non è stato. Secondo alcuni critici, Benedetto XVI avrebbe dovuto chiedere perdono per le colpe della nazione tedesca – alla quale appartiene – e denunciare espressamente l’antisemitismo, in particolare quello dei cristiani. Ma così non è stato. Invece il papa, pur non passando sotto si¬lenzio la sua origine, ha parlato in italiano, quasi a sottolineare che quella era la visita del Vesco¬vo di Roma e non di un rappresentante del popolo tedesco. Ma se non ha nominato espressamente l'antisemitismo, ha dato della Shoah una interpretazione assolutamente originale e gravida di con¬seguenze sul piano dei rapporti tra cristiani ed ebrei. Sappiamo tutti ormai che nel linguaggio co¬mune siamo tutti invitati a non usare la parola “Olocausto”, parlando dello sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti; Shoah è un termine che significa in ebraico “tempesta che travolge tutto”, ben diverso dal termine Olocausto che significa invece “sacrificio” e quindi esprime un significato parziale e addirittura esprime un atto di culto a Dio. Annientando quel popolo – ha detto Benedetto XVI – gli autori dello sterminio “intendevano uccidere Dio”. Il Dio di Abramo e di Gesù Cristo. Il Dio degli ebrei e dei cristiani ma anche di tutta l’umanità alla quale “parlando sul Sinai egli stabi¬lì i criteri orientativi che restano validi in eterno”. Cancellando Israele, gli autori dello sterminio “volevano strappare anche la radice su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte”. Mi pare un passaggio questo che porta alle sue più significative conseguenze la rivoluzionaria definizione di Giovanni Paolo II degli ebrei quali “nostri fratelli maggiori”, non più popolo sostituito definitivamente dal “nuovo Israele”, la Chiesa, non più popolo che si salva se “si converte” al nuovo Patto, ma popolo nei cui confronti Dio mantiene e non rinnega le sue promesse ed i suoi impegni (come già diceva del resto Jaques Maritain). Così, coerentemente la solidarietà di ebrei e cristiani non è stata richiamata dal papa come richiesta di perdono dei secondi ai primi, ma come comune sorte di vittime, come comu¬ne volontà di resistenza al male, come prossimità nella preghiera.
Non posso fare a meno perciò di considerare strumentali e ingiuste le critiche soprattutto di parte ebraica. Prima fra tutte l'accusa di revisionismo, quasi un tentativo di assolvere il popolo tedesco attribuendo la colpa del nazismo a una “cricca di criminali” che avrebbe preso il potere “median¬te promesse bugiarde” e altre illusioni, ma anche con “la forza del terrore e dell’intimidazione”. I tedeschi sarebbero stati insomma vittime, non complici, della macchina dello sterminio nazista che portò non solo alla morte di sei milioni di ebrei e di altri cinque milioni di zingari, gay, dissidenti e handicappati nei campi della morte e di concentramento, ma a decine di milioni di soldati e civili in tutta l’Europa. Mi sembra di tutta evidenza che qui il Papa volesse alludere alla capacità attrat¬tiva del male, che maschera le sue malvagità dietro a fantasie allettanti. Lo stesso potremmo dire della capacità attrattiva che ebbero in Italia il fascismo, anche nelle sue espressioni deteriori, il comunismo nei Paesi dell'Est e non solo, della capacità attrattiva che hanno oggi concetti semplificati e banalizzati che fanno leva sull'interesse, sugli egoismi, sulle paure, sul desiderio di vendetta, sull'odio razziale, sulla superiorità della nostra civiltà su tutte le altre...
Ogni volta che andiamo a Gerusalemme non abbiamo mai mancato di “andare pellegrini” a Yad Vashem, il mausoleo della Shoah che gli israeliani hanno là voluto erigere a costante e perenne memoria di questo agghiacciante momento della loro storia e della storia dell'umanità. Recente¬mente, dallo scorso anno per precisione, una nuova enorme struttura ha occupato quasi metà della collina su cui sorge il memoriale: una struttura che in un gran numero di sale raccoglie una ag¬ghiacciante documentazione dell'antisemitismo lungo tutto il percorso dei secoli. Al di là di alcune letture ed interpretazioni inevitabilmente parziali, non ho potuto fare a meno di riflettere a lungo su quanto si legge entrando nell'ultima sala: “Liberated, but not free” (che tradotto liberamente suo¬na: Liberati ma non liberi). Non penso che la mia interpretazione sia in sintonia con il pensiero di chi ha posto quella scritta, ma non mi pare fuori luogo. “Liberati ma non liberi” mi è sembrata una inconsapevole sintesi del lungo itinerario nell'antisemitismo; che nessuno nega, che spesso è stato “patrimonio culturale” anche di tanti cristiani, ma che oggi troppo spesso viene usato in chiave politica, quasi in forma ricattatoria, come ho sottolineato in altre occasioni, finendo per to¬gliergli tutta la violenza emotiva che proprio la Shoah ha definitivamente dato a questa parola. L'antisemitismo finirà quando non sarà più un cappio nella mente e nel cuore degli ebrei, come laccio con cui imprigionare tutti coloro che non hanno nessun odio né rancore né inimicizia nei loro confronti, ma non possono e non vogliono condividere il sogno “sionista”, non accettano, come ha detto il papa, di cedere “alla tentazione dell'odio razziale, che è all'origine delle peggiori forme di antisemitismo”, rivolte spesso nella storia contro il popolo d'Israele, ma che rischiano oggi di trasferirsi su altri popoli semiti (Oriana Fallaci insegna!); saranno davvero liberi quando l'ac¬cusa di antisemitismo non sarà più strumento politico per coprire qualsiasi azione di un governo, quello dello Stato d'Israele, che ha certo il diritto di esistere, di vivere, di prosperare, ma che mag¬giori consensi attirerebbe se operasse soprattutto e prima di tutto per “costruire insieme - a tutti gli altri popoli del Medio Oriente e di tutta la Terra - un mondo di giustizia, di verità e di pace!”. Mi accorgo che tutto lo spazio disponibile è stato occupato dalle “parole degli uomini”... come sempre accade sono le parole e i fatti degli uomini le cause del “silenzio di Dio”. Mi permetterete di riflettere su questo “silenzio” la prossima settimana. dwf

Il lato oscuro di Dio


«Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l'uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile - ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio - un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?».
Questa denuncia drammatica costituisce l’inizio del discorso tenuto da Benedetto XVI ad Auschwitz-Birkenau, nel corso della visita al Campo di concentramento, il 28 maggio 2006.
Quante volte, nel corso della storia, è risuonato il grido del Crocifisso: «Dio mio, Dio mio, perché mi ha abbandonato» (Mt 27,46)?
Il lamento tratto dai Salmi squarcia il crepuscolo del Figlio di Dio il Venerdì Santo, ma a ben vedere è il grido di ogni uomo e non solo di ogni uomo.
Là dove il dolore, anche quello spirituale, si rende tangibile, fisico, materico – e questa è una prerogativa degli esseri umani, ma anche di tutti gli altri esseri viventi in grado di patire – riecheggiano le parole di Gesù nel momento della sua disfatta, un attimo prima di consegnarsi totalmente nelle mani del Padre.
E’ indubbio che la vita sensibile, incredibile miracolo che sfida le leggi della casualità, e la carne che le è congenita siano impastate nel sangue e nel dolore.
Lo strazio della carne è connaturale all’esistenza, sia quando è prodotto dalla furia cieca del destino come nel momento della malattia e della morte, dalle leggi di natura come accade alla gazzella che sente i denti della fiera affondare nel suo corpo, o dal fato, sia quando è provocata dagli uomini.
E infatti, la storia degli uomini è in buona parte l’elencazione dei loro crimini e delle loro follie.
E come non chiedersi allora nuovamente, come Benedetto XVI, «Perché hai potuto tollerare tutto questo?».
Io immagino che ogni credente che abbia riflettuto con profondità sulla precarietà dell’esistenza e contemporaneamente sulla sua pienezza – se non ha vissuto da sonnambulo - si sia chiesto almeno una volta se non ci troviamo di fronte a un Dio malato, che tollera la disarmante fragilità della vita, con il suo carico di sofferenza.
E’ un Dio che consente il massacro del proprio figlio prediletto il quale chiede di allontanare da lui il calice amaro che gli è riservato, quando ogni genitore meno che normale fa anche l’impossibile per salvare l’ultimo dei suoi figli da un destino atroce.
E chi tradisce il Figlio dell’uomo, nel Getsemani, è realmente libero e o si rivela un semplice burattino? E se così fosse fino a che punto è reo chi lo manovra?
Dal sacrificio del Figlio dell’uomo sorge un credo in cui viene chiamata “Comunione” un atto di “cannibalismo” con cui si commemora il suo sacrificio e la nostra liberazione.
La carne e il sangue transustanziati ritornano così in una sequenza infinita da duemila anni al centro della scena eucaristica.
«Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria che deve rivelarsi in noi» (Romani 8,18). Ma è sufficiente giustificare tutto questo in vista di un bene infinitamente maggiore? Può un “fine” così grande giustificare i “mezzi” attraverso i quali è ottenuto?
Si può tutto ciò spiegare con il peccato?
Emil Cioran, nel Funesto Demiurgo, ha scritto «E’ difficile, è impossibile, credere che il dio buono, il “Padre”, sia implicato nello scandalo della creazione. Tutto fa pensare che non vi abbia mai preso parte, che essa sia opera di un dio senza scrupoli, un dio tarato».
“Scandalo” e “Stoltezza” dell’Evangelo non si fermano alla creazione, né all’esistenza terrena.
Anche dopo la morte e la distruzione – temporanee - della carne, assieme ai salvati vi saranno coloro che, dal loro peccato, saranno condannati per sempre all’inferno che “consiste nella dannazione eterna di quanti muoiono per libera scelta in peccato mortale. La pena principale dell'inferno sta nella separazione eterna da Dio, nel quale unicamente l'uomo ha la vita e la felicità, per le quali è stato creato e alle quali aspira. Cristo esprime questa realtà con le parole: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno» (Mt 25,41)” (Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica 212).
In cosa consiste la separazione eterna da Dio? Una condanna alla depressione psichica per sempre, in un campo di concentramento chiamato Inferno? Senza nessuna possibilità di riabilitazione?
Se Dio, che noi abbiamo adorato in questi giorni nell’ostia consacrata, consente questo, secondo il giudizio della legislazione internazionale attuale - in cui buona parte ha l’evoluzione del pensiero che affonda le sue radici proprio nell’antropocentrismo cristiano - dovrebbe essere condannato per crimini contro l’umanità.
Il “Processo a Dio” da Giobbe in poi ritorna costantemente e da esso è stata tratta anche la recente, suggestiva opera teatrale di Stefano Massini incentrata proprio sulla tragedia del popolo ebraico nel secondo conflitto mondiale.
Ma rimane senza soluzione, perché Dio non si può giudicare con i canoni umani, altrimenti il verdetto non potrebbe che essere, con ogni probabilità, di colpevolezza.
Esiste un lato oscuro di Dio, di cui il venerdì santo - momento nel quale l’orrore e l’estasi della vita si confondono - rappresenta la massima rivelazione?
Non possiamo rispondere con gli strumenti della ragione.
Possiamo solo affidarci alla fede, perderci in Dio senza barriere protettive, nella consapevolezza che sostenere questo implica gettarsi – alla stregua del Figlio dell’uomo - in una imprudente e sublime avventura.
Marco Ciani

mercoledì 5 marzo 2008

Laicità e bene possibile

Sembra che alcuni sondaggi, anche di autorevole fonte cattolica, indichino la sostanziale indifferenza degli elettori nei confronti dei temi etici; nel contempo i partiti politici intenderebbero evitarne una trattazione ed un confronto a fini di consenso elettorale.
Mi lascia perplesso l’indifferenza rilevata, mi troverebbe consenziente la scelta dei partiti politici. Ho usato il condizionale per un semplice motivo: la buona intenzione, molto spesso fa i conti con una realtà, difficile da indirizzare agli scopi che si prefigge. Il fatto è che proprio sui temi “eticamente sensibili”, il dibattito s’infiamma, ed indipendentemente dallo scarso impatto che, di per sé, suscita nel cittadino, finisce per costituire elemento di confronto, anche elettorale. La ragione potrebbe essere individuata nell’affondo che, sulle questioni connesse ai temi suddetti, viene promosso da protagonisti di indiscusso e diffuso prestigio a cominciare dalla Chiesa; ed ovviamente non solo dalla Chiesa. Eppure è proprio su queste questioni che i cattolici, impegnati in politica, trovano un banco di prova ed uno snodo, essenziale per dimostrare la sincerità della loro ispirazione religiosa nel costruire la “città dell’uomo”, compatibile con la loro libertà di scelta nelle questioni di una politica laica.
Conosco il rischio, ma la scelta del tema della vita diventa qui essenziale ed esemplare. La difesa della vita costituisce, sicuramente, un assoluto non negoziabile; in particolare nella questione dell’aborto si mette alla prova la nostra “laicità compatibile”. Non accettiamo di risolvere la questione invocando la “libertà di scelta della donna”, non perché questa non debba essere assunta come essenziale, ma perché, in questo caso, c’è di mezzo un diritto soggettivo del concepito che non può essere contrattato. Non accettiamo neppure che ci sia, in confronto ed in dialettica, un contrasto ed un concorso tra il diritto soggettivo della libertà della madre e quello del concepito che attiene non solo il diritto di libertà, ma il diritto alla vita stessa.
Ed allora la questione va spostata su altro piano e diverso ragionamento. Nessuno vuol mettere in discussione la legge 194; potranno essere introdotte le modifiche ed i correttivi che il progresso degli studi e l’esperienza suggeriranno, ma la sua efficacia sembra essere riconosciuta. Il fatto è che senza la distinzione (non frattura) fra principi di riferimento, l’elaborazione di cultura politica che ne pongono le basi programmatiche di realizzazione e la loro applicazione anche normativa, senza tale distinzione non si riesce ad intervenire con efficacia. Proprio qui si prova la strada del bene possibile; proprio qui si può sperimentare la razionale proposta del massimo possibile di fedeltà ai valori, anche in presenza dell’esperienza angosciante dei limiti della politica: la tensione all’ideale, spesso si scontra con la dialettica ed il confronto. Teniamo fermo il riferimento al valore, non per proporre il relativismo di una doppia verità, ma per raggiungere, nel dialogo con chi diversamente pensa, il massimo possibile di bene. Nel caso specifico, perché il ricorso all’aborto sia sempre meno praticato; anche con la realizzazione piena degli interventi formativi e di sensibilizzazione ad una cultura della vita, previsti dalla stessa 194.

P.S. Tiene banco, in questi giorni, la questione dell’alleanza del Partito democratico (P.D.) coi radicali; stante la nostra scelta dichiarata di richiamo alla tradizione del “cattolicesimo democratico”, riteniamo tale alleanza un “mostro” (nel senso tecnico di non naturale) politico e non solo per le questioni connesse alla difesa della vita. Il partito radicale è stato sicuramente all’avanguardia nella difesa dei diritti “individuali” e nel proporre sempre la corretta realizzazione delle regole del gioco democratico. Tutto questo, per noi non basta, perché non basta la correttezza delle regole; necessita la realizzazione della solidarietà che renda tutti e ciascuno capace di essere soggetto e protagonista attivo della sua vicenda nella “città dell’uomo”. In fondo sta qui la distinzione tra centro/destra e centro/sinistra: chi si interessa solo delle regole condivise (centro/destra) e chi si preoccupa della capacità di tutti, anche dei più deboli (centro/sinistra) di praticarle. Per questi motivi, assolutamente dignitosi, i radicali dovrebbero essere nel centro/destra.
Agostino Pietrasanta